Edilizia, Piano Casa, distanze legali tra edifici e tra pareti finestrate.Vincoli di natura espropriativa. Chiostrina. Restitutio in integrum – inammissibile. Di Luigi Ferrara.

T.A.R. Campania Salerno , sez. I, 13/04/2017, n. 758.

Pubblicato il 13/04/2017
N. 00758/2017 REG.PROV.COLL.
N. 02857/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2857 del 2015, proposto da:
XXX, rappresentati e difesi dagli avvocati Luigi Ferrara e Carmen Battipaglia, legalmente domiciliati in Salerno, XXX;
contro
Comune di Sarno, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Emanuela Vitolo, legalmente domiciliato in Salerno, XXX;
nei confronti di
XXX, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Marcello Fortunato, con domicilio eletto in Salerno, XXX;
per l’annullamento
del permesso di costruire n. 1826 del 4.3.2014, in variante al permesso di costruire n. 1253 del 9.5.2008, già oggetto di permesso di costruire in variante n. 1531 del 22.3.2011, rilasciato alla società XXX e relativo alla costruzione di un fabbricato alla via XXX, nonché dei permessi di costruire n. 1253 del 9.5.2008 e n. 1531 del 22.3.2011, nonché per l’accertamento del diritto dei ricorrenti alla restitutio in integrum

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Sarno in Persona e della XXX;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 aprile 2017 il dott. Ezio Fedullo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
I ricorrenti, proprietari iure hereditatis (a seguito della scomparsa della madre XXX, avvenuta nel mese di marzo del 2015) di immobili confinanti con quelli oggetto degli impugnati titoli edilizi, deducono che, acquisita copia del permesso di costruire in variante n. 1826 del 4.3.2014, a seguito dell’accesso agli atti eseguito in data 7.10.2015, hanno constatato che esso, a differenza dei progetti originariamente assentiti, prevede la realizzazione di due fabbricati dei quali il primo, contrassegnato con la lettera “A”, è posto in quota parte in aderenza ed in quota parte a soli 3,5 metri dall’edificio di loro proprietà, oltre a prevedere l’aumento delle unità abitative e la creazione di un nuovo corpo di fabbrica che sconfina su aree con destinazione “F”.
Essendo risultato inutile il tentativo di indurre l’Amministrazione comunale ad intervenire in autotutela sui citati titoli edilizi, e lamentando la violazione delle distanze legali che essi consentono, mediante le censure formulate in ricorso deducono quanto segue, a fondamento della proposta domanda di annullamento: 1) la volumetria prevista, pari a mc. 4.943 e suddivisa nei due corpi di fabbrica “A” (composto da otto unità abitative) e “B” (composto da dodici unità abitative), raggiunta attraverso la capacità edificatoria espressa dal lotto fondiario in base all’indice di edificabilità fondiaria ed il ricorso alle premialità volumetriche di cui all’art. 4 l.r. n. 19/2009 e di quella di cui all’art. 12 d.lvo n. 28/2001, è di gran lunga superiore a quella legittimamente edificabile, in quanto la reale superficie fondiaria esistente è pari a mq. 893, in luogo dei mq. 1.309 indicati in progetto, essendosi il progettista basato sui grafici in allegato alla variante del 1976 del Programma di Fabbricazione, che erroneamente riportano una minore superficie destinata a standards, mentre la reale consistenza della superficie fondiaria si ricava dalla Tav. 3 del P.d.F. allegato alla delibera di G.R. n. 2799/249 del 12.6.1973, che riporta la fascia destinata a standards anche sul lato nord-est del lotto di intervento della parte controinteressata: sul punto, lo stesso permesso di costruire impugnato indica che parte del lotto ricade in zona con linea rossa del P.d.F. (soggetta a vincolo di inedificabilità) ed al fine di giustificare la deroga a tale vincolo richiama le prescrizioni della sentenza (ma in realtà ordinanza) n. 939/2010, la quale tuttavia accertava soltanto che il diverso fabbricato oggetto del ricorso n. 1420/2010 non risultava graficamente interessato, circostanza non ricorrente nel caso in esame; 2) inoltre, l’art. 4 l.r. n. 19/2009, in base al quale viene prevista una volumetria premiale di mc. 785, non è applicabile alla fattispecie in esame, essendo il suo campo applicativo circoscritto agli edifici esistenti ma non ancora ultimati, oltre che accatastati o in fase di accatastamento, laddove che alla data di presentazione dell’istanza di p.d.c. non esisteva alcun edificio né alcun accatastamento dello stesso: l’interpretazione proposta, aggiunge la parte ricorrente, è confermata dalla circolare della Regione Campania n. 0774995 del 23.10.2012; 3) in violazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, il futuro fabbricato “B” è posizionato a distanza inferiore a m. 10 dal fabbricato insistente sul lato ovest del lotto e presenta pareti finestrate, mentre il fabbricato “A” è posto in quota parte in aderenza ed in quota parte a soli 3,5 metri dall’edificio di proprietà dei ricorrenti; 4) premesso che il lotto di intervento è classificato dal vigente P.d.F. parte in zona in zona “B1”, parte in zona “F”, parte in zona per “Attrezzature” e parte in zona “Strada di Piano”, poiché il vincolo di natura espropriativa gravante sulle ultime tre è decaduto (essendo trascorsi più di cinque anni dalla data di approvazione del Piano di cui al D.P.G.R.C. n. 4631 del 14.12.1977), le stesse sono soggette al regime normativo di cui all’art. 9 d.P.R. n. 380/2001, ricadendo l’intera area di intervento all’interno del centro abitato: ebbene, sulla strada di piano vengono previste in progetto sia la rampa che la strada di accesso ai garages interrati, sia urbanizzazioni private che verde privato, nella zona F vengono previste sia la strada di accesso ai garages privati posti al livello -1, sia verde privato che parcheggi a raso privati a livello 0, mentre sulla zona per Attrezzature vengono previsti garages privati al livello -1 e verde privato a livello 0, il tutto in contrasto con le tipologie di intervento previste dall’art. 9, comma 1, lett. a) d.P.R. n. 380/20001; inoltre, per effetto della realizzazione dell’intervento de quo, si avrebbe una compressione delle aree destinate a zona “B1”, zona “F”, zona per “Attrezzature” e zona “Strada di Piano”, con gravi ripercussioni sul dimensionamento dello strumento di pianificazione; 5) la prevista realizzazione di un chiostro contrasta con l’art. 29, comma 4, del R.E., ai sensi del quale “…negli spazi interni definiti come “chiostrine” possono affacciarsi soltanto disimpegni verticali o orizzontali e locali igienici. Nelle “chiostrine” non vi possono essere né sporgenze, né rientranze. Tutti gli spazi interni devono essere accessibili dai locali di uso comune”: infatti, la parete finestrata dei ricorrenti è ad uso affaccio, negli spazi interni della “chiostrina” vi sono sporgenze e rientranze, inoltre un lato della stessa non risulta nemmeno chiuso e dalla linea di confine aperta non è rispettata la regolare distanza che dal progetto risulta essere di soli m. 4, anziché il minimo assoluto di m. 5, mentre, poiché l’altezza del fabbricato da realizzare è di m. 12,24, la distanza dovrebbe essere di m. 6,12, come previsto dal R.E..
Al ricorso è allegata la relazione tecnica a firma dell’ing. XXX, che ribadisce e precisa i profili di illegittimità evidenziati con il ricorso introduttivo.
Il Comune di Sarno si oppone all’accoglimento del ricorso, allegando a confutazione delle doglianze attoree la relazione del Responsabile del Settore “Ambiente e Territorio” prot. n. 39438 del 15.12.2015 ed evidenziando anche, dal punto di vista processuale, la tardività dell’impugnazione, risultando i lavori strutturali completati in ogni loro parte.
Anche la società controinteressata si oppone, mediante il suo difensore, all’accoglimento del ricorso, del quale eccepisce preliminarmente la tardività, rilevando che i lavori sono in stato di avanzatissima realizzazione e che viene contestata la stessa realizzazione dell’intervento sulla scorta della pretesa sussistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta e della pretesa violazione delle distanze legali, con la conseguente decorrenza del termine per l’impugnazione dall’inizio dei lavori (idoneo a consentire la percezione da parte dell’eventuale interessato dell’effetto lesivo); viene inoltre evidenziato che la madre dei ricorrenti, sig.ra XXX, della quale gli stessi si dichiarano aventi causa, in data 9.2.2010 ha acquisito copia (peraltro per il tramite del figlio sig. XXX, suo delegato ed odierno ricorrente) del permesso di costruire n. 1253/2008, né potrebbe ritenersi che la successione a titolo universale dei ricorrenti sia idonea a rimetterli in termini ai fini della proposizione di una impugnazione dalla quale la dante causa è decaduta; nel merito, la parte controinteressata osserva che il riconoscimento dei benefici di cui al cd. Piano Casa trova fondamento nel disposto dell’art. 4, in relazione all’art. 2, comma 1, lett. e), l.r. n. 19/2009, nonché nel disposto dell’art. 4, comma 2, lett. g) l.r. cit.; quanto alla censura secondo la quale sarebbe stata assentita una volumetria superiore a quella realizzabile, poiché nel calcolo della superficie fondiaria sarebbe stata inclusa un’area ricadente in zona rossa, ovvero caratterizzata da un vincolo di inedificabilità assoluta, viene osservato che i tratti individuati dalla Regione Campania in sede di approvazione del P.d.F. e contrassegnati con la linea rossa, nell’ambito dei quali vige il suddetto divieto, sono disomogenei e discontinui, come accertato dal T.A.R. con l’ordinanza n. 939/2010, per cui la superficie fondiaria è stata calcolata solo in relazione alle aree che non si trovano in corrispondenza della linea rossa, ovvero non interessate dal vincolo; quanto alla lamentata violazione delle distanze, viene dedotto che fa difetto il presupposto (correlato alla presenza di fabbricati con pareti finestrate) per l’applicazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, atteso che l’immobile dei ricorrenti non presenta finestre ma mere luci, come risulta dall’accertamento tecnico preventivo eseguito nel 2009; analogamente, i muri dei fabbricati assentiti con i titoli impugnati sono ciechi.
Alle deduzioni delle parti resistenti, a cominciare dalle rispettive eccezione di irricevibilità, hanno replicato i difensori della parte ricorrente con la memoria del 18.2.2016, con la quale è stato evidenziato che alla data del 31.12.2014, come si evincerebbe dalle fotografie allegate, il terreno sul quale insiste attualmente il rustico del fabbricato “B” non presentava alcun inizio di opere edili né alcuno scavo, il quale è iniziato, relativamente al medesimo fabbricato “B”, solo nel giugno 2015, mentre per il fabbricato “A” non esiste tuttora nemmeno lo scavo; la previsione del fabbricato “A”, e la relativa lesività, è stata percepita solo mediante l’eseguito accesso agli atti, atteso che il p.d.c. del 2008 prevedeva una volumetria di gran lunga inferiore a quella assentita con la variante del 2014.
La parte ricorrente ha replicato alle resistenti con la memoria del 18.2.2016 e del 4.3.2016.
Con le note del 15.3.2016, la società resistente ha evidenziato che i ricorrenti, alla data di presentazione dell’istanza di accesso, erano a conoscenza anche del permesso di costruire n. 1826 del 4.3.2014, siccome espressamente menzionato nella medesima istanza.
Con ordinanza n. 1012 dell’11.4.2016, il Tribunale ha disposto l’espletamento di una c.t.u., di cui ha incaricato l’ing. Maria Cristina Feola, al quale è stato richiesto di dire:
1) se, prima ancora di acquisire copia del permesso di costruire n. 1826/2014 mediante accesso agli atti comunali, i ricorrenti hanno potuto percepire con ragionevole certezza, in relazione all’andamento ed allo stato di avanzamento dei lavori, la portata lesiva dell’intervento ed i profili di asserita illegittimità che inficerebbero i predetti titoli edilizi (con riguardo, essenzialmente, allo sforamento dei limiti volumetrici ed alla violazione delle distanze predicati in ricorso), precisando in quale data, anche approssimativamente determinata, essi hanno maturato la suddetta percezione;
2) se la volumetria prevista sia conforme a quella legittimamente edificabile, tenuto conto, alla luce delle censure di parte ricorrente, della superficie fondiaria disponibile in relazione alla superficie destinata a standards dallo strumento urbanistico, anche in considerazione dell’ordinanza di questo Tribunale n. 939/2010, precisando, in caso contrario, a quale dei titoli emanati dal Comune di Sarno sia imputabile il riscontrato sforamento della volumetria legittimamente realizzabile;
3) se sussistano i presupposti applicativi dell’art. 4 l.r. n. 19/2009, anche alla luce della circolare della Regione Campania n. 0774995 del 23.10.2012, precisando, in caso contrario, a quale dei suddetti titoli edilizi sia imputabile l’eventuale ricorso alla relativa premialità volumetrica in carenza dei relativi presupposti di legge;
4) se l’intervento edilizio in questione rispetti l’art. 9 d.m. n. 1444/1968, con particolare riferimento alle distanza da rispettare dai fabbricati di proprietà dei ricorrenti, tenendo anche conto delle risultanze dell’accertamento tecnico preventivo richiamato negli atti di giudizio;
5) se l’intervento oggetto di giudizio sia conforme alla disciplina urbanistica vigente per le zone bianche ex art. 9 d.P.R. n. 380/2001, ove e nella misura in cui ne sussistano i presupposti applicativi;
6) se la prevista realizzazione di una “chiostrina” sia conforme al disposto dell’art. 29 del R.E. e se la stessa sia rispettosa delle prescritte distanze dagli immobili di parte ricorrente.
L’elaborato peritale, con i relativi allegati, è stato depositato dal c.t.u. in data 14.2.2017.
Al deposito ha fatto seguito lo scambio di ulteriori memorie delle parti della controversia ed il ricorso infine, all’esito dell’udienza di discussione, è stato trattenuto dal collegio per la decisione di merito.
DIRITTO
Deve premettersi che la domanda di annullamento proposta con il ricorso in esame ha ad oggetto, in via principale, il p.d.c. n. 1826 del 4.3.2014, con il quale è stata assentita la realizzazione, a favore della parte controinteressata, di un intervento edilizio costituito da due corpi di fabbrica per un totale di n. 20 unità abitative.
Il suindicato titolo edilizio, deve altresì precisarsi, risulta rilasciato in variante al permesso di costruire n. 1253 del 9.5.2008, a sua volta già interessato da un progetto di variante, assentito con permesso di costruire n. 1531 del 22.3.2011.
Deve altresì precisarsi, sempre in via preliminare, che le censure formulate dai ricorrenti, proprietari di un edificio confinante, al fine di conseguire l’annullamento dei suindicati titoli edilizi, così come la connotazione lesiva di questi ultimi per i loro interessi, si correlano, da un lato, alla violazione delle distanze legali che il progetto assentito concretizzerebbe, dall’altro lato, all’eccesso di volumetria che questo permetterebbe di realizzare rispetto ai limiti di legge.
Sulla scorta di tali sintetiche premesse, devono subito esaminarsi le eccezioni di irricevibilità del ricorso formulate dalle parti resistenti, sul presupposto della asserita tardiva impugnazione dei predetti titoli edilizi.
In proposito, deve immediatamente escludersi che possa attribuirsi rilievo, al fine di sancire l’intempestività del gravame, all’accesso eseguito dalla dante causa degli odierni ricorrenti, sig.ra XXX, in data 8.3.2010, con riferimento alla documentazione relativa al p.d.c. n. 1253/2008.
Invero, sebbene, come evidenziato dal c.t.u., quest’ultimo permesso assentisse la realizzazione di una palazzina in aderenza al fabbricato edificato sul confine, attualmente di proprietà dei ricorrenti,
con effetti per la proprietà confinante ancor più “penalizzanti” rispetto a quelli derivanti dal progetto in variante (che prevede, sul lato interessato, una “chiostrina”), deve osservarsi che il permesso di costruire in variante costituisce a tutti gli effetti (compresi quelli di carattere processuale) un provvedimento “nuovo”, quantomeno per gli aspetti progettuali modificati ed innovati rispetto alla loro precedente configurazione, i cui effetti abilitativi (e, di riflesso, quelli pregiudizievoli per gli interessi dei ricorrenti) derivano dalla integrazione del titolo originario con quello rilasciato in variante: ciò a prescindere dalla qualificazione formalmente appropriata del p.d.c. n. 1826/2014, come permesso di costruire in variante ovvero come permesso di costruire ex novo.
Consegue da tale rilievo, anche sulla scorta dei principi generali in tema di successione nel tempo tra provvedimenti amministrativi, che sebbene il soggetto pregiudicato, il quale non abbia tempestivamente impugnato il titolo edilizio originario, non potrebbe rimettere in discussione quegli aspetti progettuali che non abbiano subito alcuna modifica in sede di variante, egli conserva il potere di impugnazione relativamente ai profili modificati, ove forieri di una rinnovata lesione per i suoi interessi, dovendo quelli originari, sebbene ugualmente (o anche più) pregiudizievoli di quelli introdotti dalla variante, ritenersi definitivamente superati per effetto del nuovo disegno edilizio approvato dalla P.A. in sostituzione del precedente.
Né potrebbe sostenersi che l’eventualmente annullamento del titolo edilizio in variante non recherebbe alcun concreto vantaggio al soggetto leso, in quanto resterebbe intatta la fonte della lesione rappresentata dal titolo originario (che si è detto, nella specie, contenere previsioni progettuali ancor più gravose per i proprietari dell’edificio confinante): deve infatti sottolinearsi che la parte del progetto modificata, laddove prevedeva la costruzione in aderenza, è stata espunta dal programma edilizio della società controinteressata, ormai consacrato nel progetto assentito in variante (integrato, per gli aspetti non modificati, con quello originario), risultando di conseguenza attualmente priva di effetti lesivi per la parte ricorrente ed appartenendo ai meri antefatti storico-procedimentali del p.d.c. n. 1826/2014.
Deve peraltro aggiungersi che la lesività per i ricorrenti del permesso di costruire impugnato si correla, oltre che al profilo relativo alle distanze, alla dimensione volumetrica dello stesso, il quale, come rilevato dal c.t.u., ha subito un consistente incremento nella transizione dal progetto originario a quello assentito in variante (passando da mc. 2.645,05 a mc. 4.949,61, questi ultimi comprensivi delle premialità volumetriche, rispettivamente del 25% e del 5%, ex l.r. n. 19/2009 e d.lvo n. 28/2011): invero, come si evince dall’istanza di p.d.c. in variante dell’11.9.2012, il nuovo progetto edilizio scaturisce da una “rimodulazione dell’intervento…in funzione di una maggiore estensione della zona edificabile”, sulla scorta di una riconsiderazione (in chiave ampliativa) della parte del lotto non interessata dal vincolo di inedificabilità, calibrata nel progetto originario in funzione delle previsioni del P.d.F. del 1973 (quindi quantificata in mq. 893) e nel progetto in variante sulla scorta della ritenuta contrazione della zona inedificabile operata dalla variante dello strumento urbanistico comunale intervenuta nel 1976 (e così quantificata nella maggiore misura di mq. 1.039).
Il titolo in variante quindi, da questo punto di vista, si connota, rispetto al titolo edilizio originario, di una lesività “nuova”, del tutto estranea al permesso originario, e che quindi ha fatto sorgere in capo ai ricorrenti un interesse al ricorso che non sussisteva a fronte dell’originario provvedimento abilitativo.
Resta fermo, in ogni caso, che il dispositivo di annullamento, fondato su vizi attinenti agli aspetti progettuali “nuovi” assentiti in variante, non potrà che riguardare anche i titoli originari, in considerazione del carattere unitario ed inscindibile del progetto edilizio, quale derivante dalla integrazione di tutti i titoli edilizi rilasciati con riferimento alla medesima iniziativa edificatoria.
Ugualmente priva di significato, agli effetti della dimostrazione della tardività del ricorso, è la documentazione fotografica dimostrativa dello stato dei lavori alla data del 31.12.2014 ed alla data dell’11.7.2015, rispettivamente riprodotte a pag. 83 ed a pag. 84 della relazione di c.t.u..
Quanto alla prima, infatti, essa raffigura esclusivamente la paratia di pali a confine con la proprietà del ricorrenti, in mancanza di opere in elevazione.
Ebbene, il suddetto elemento strutturale, benché indicativo di un effettivo inizio dei lavori ma in mancanza di qualsivoglia elemento di carattere temporale atto a collocarne esattamente nel tempo la realizzazione, non presenta alcun nesso evidente con il progetto edilizio assentito con il permesso di costruire (in variante) n. 1826/2014, sul quale come si è detto si appunta attualmente l’interesse al ricorso dei ricorrenti: esso infatti potrebbe essere riconducibile al progetto originario, che come si è detto prevedeva la realizzazione di un lato dell’erigendo fabbricato in adiacenza a quello di proprietà dei ricorrenti, concorrendo quindi a dimostrare la conoscenza in capo a questi ultimi di un provvedimento abilitativo che, per quanto già detto, deve considerarsi privo di attuale lesività in ordine al profilo delle distanze.
Ciò vale a maggior ragione ove ci ritenga, come affermato dal c.t.u., che la suddetta palificata è stata realizzata nell’anno 2012, rafforzando la tesi della non utilizzabilità della stessa come elemento informativo da cui i ricorrenti (rectius, la dante causa degli stessi) avrebbero desumere l’esistenza del nuovo (e definitivamente lesivo) titolo edilizio, rilasciato solo nel 2014.
A non diverse conclusioni deve pervenirsi con riguardo alla fotografia dell’11.7.2015, la quale rappresenta l’avvenuta esecuzione delle travi di fondazione della palazzina “B”.
Invero, in primo luogo, come evidenziato anche dal c.t.u., le doglianze attoree concernenti le distanze si appuntano sul (diverso) fabbricato “A”.
Inoltre, quanto all’aspetto volumetrico, le fondazioni dell’edificio possono consentire la percezione della relativa estensione, in termini di superficie, non certo della relativa consistenza volumetrica, la quale è desumibile solo dalle opere in elevazione (una volta compiutamente realizzate).
Quanto poi alla deduzione di parte controinteressata, secondo cui, lamentando la parte ricorrente l’esecuzione dell’intervento su area soggetta ad un vincolo di inedificabilità assoluta, la stessa avrebbe potuto percepire la lesività dello stesso fin dall’inizio dei lavori, deve rilevarsi, a dimostrazione della sua infondatezza, che l’esistenza del vincolo suindicato è allegata dalla parte ricorrente in chiave strumentale alla affermazione della erroneità della superficie fondiaria assunta dal progettista a base del calcolo volumetrico (comprensivo dell’incremento premiale), per cui, appuntandosi la lesione lamentata su tale ultimo aspetto progettuale, non resta che ribadire quanto in precedenza osservato in ordine alla insufficienza delle travi di fondazioni per desumere la portata volumetrica dell’intervento.
Infondata infime, al fine di dimostrare la conoscenza in capo ai ricorrenti del p.d.c. n. 1826/2014 già alla data della presentazione dell’istanza di accesso del 10.9.2015, è la circostanza (peraltro solo dedotta ma non comprovata) secondo la quale il citato provvedimento sarebbe menzionato nell’istanza ostensiva: deve infatti considerarsi che, in un contesto fattuale da cui non emergevano i profili di contrasto lamentati in ricorso tra il progetto edilizio e la disciplina urbanistica, la mera conoscenza degli estremi del titolo edilizio non sarebbe sufficiente a radicare l’onere di immediata impugnazione, ricollegandosi esso, per giurisprudenza consolidata, alla conoscenza dei suoi essenziali contenuti lesivi (la quale è maturata in capo ai ricorrenti solo in occasione dell’esercizio effettivo dell’accesso, avvenuto in data 7.10.2015).
In conclusione, alla luce delle eccezioni delle parti resistenti ed anche degli approfondimenti svolti dal c.t.u. in riscontro ad apposito quesito del Tribunale, non sono rilevabili univoci elementi per attribuire ai ricorrenti la conoscenza del provvedimento impugnato (p.d.c. n. 1826/2014) in data antecedente a quella (7.10.2015) in cui hanno eseguito l’accesso ai relativi atti: misurato da tale data il termine di impugnazione, non resta che concludere che esso, alla data (4.12.2015) della proposizione dell’impugnativa, non era completamente decorso.
Deve adesso procedersi all’esame delle censure attoree, a cominciare da quella con la quale la parte ricorrente assume che la volumetria prevista, pari a mc. 4.943 e suddivisa nei due corpi di fabbrica “A” (composto da otto unità abitative) e “B” (composto da dodici unità abitative), raggiunta attraverso la capacità edificatoria espressa dal lotto fondiario in base all’indice di edificabilità fondiaria ed il ricorso alle premialità volumetriche di cui all’art. 4 l.r. n. 19/2009 e di quella di cui all’art. 12 d.lvo n. 28/2001, è superiore a quella legittimamente edificabile, in quanto la reale superficie fondiaria esistente è pari a mq. 893 in luogo dei mq. 1.309 indicati in progetto.
L’errore, deduce la parte ricorrente, è conseguenza del fatto che il progettista si è basato sui grafici allegati alla variante del 1976 del Programma di Fabbricazione, che erroneamente riportano una minore superficie destinata a standards, mentre la reale consistenza della superficie fondiaria si ricava dalla Tav. 3 del P.d.F. allegato alla delibera di G.R. n. 2799/249 del 12.6.1973, che riporta la fascia destinata a standards anche sul lato nord-est del lotto di intervento della parte controinteressata.
La censura è meritevole di accoglimento.
Deve premettersi che i grafici allegati al Programma di Fabbricazione delimitano la fascia destinata a standards contigua ad alcuni tratti stradali mediante una linea rossa la quale, come evidenziato dal c.t.u., nella tav. 3 del P.d.F. allegato alla delibera di G.R. n. 2799/249 del 12.6.1973 si estende fino a ricomprendere nell’area vincolata il lato nord-est del lotto di pertinenza della parte controinteressata (in misura tale da precludere la realizzazione della volumetria progettata con il p.d.c. n. 1826/2014), mentre nella tav. 3 del P.d.F. di variante del 1976, sulla scorta della quale è stata eseguita la progettazione, interessa una minore superficie.
In dettaglio, come si evince anche dagli stralci della Tavole suindicate riprodotte a pag. 93 della relazione di c.t.u., la Regione Campania, con il D.P.G.R.C. n. 1248 del 23.10.1973, sulla scorta del parere n. 608 del 27.4.1973 della Sezione Urbanistica Regionale e della deliberazione di G.R. n. 2799/249 del 12.6.1973, aveva proceduto all’approvazione del Regolamento Edilizio con allegato Programma di Fabbricazione del Comune di Sarno individuando alcuni tratti discontinui, contrassegnati appunto con linea rossa, che delimitavano per le diverse zone omogenee comunali le aree da assimilare a “zone per attrezzature”: con particolare riguardo alla zona B1, in particolare, veniva stabilito che “sono stralciate ed assimilate a zone per attrezzature le seguenti parti di zone B: a) le zone B1 per una profondità di m. 50 da ambo i lati di alcuni tratti delle principali strade che attraversano longitudinalmente l’abitato esistente”, aggiungendo che “le aree di cui alle lettere a), b) e c) risultano individuate e contornate con segno rosso alla tavola in scala 1:5.000 (tav. 3)”.
Il citato D.P.G.R.C. subordinava peraltro l’efficacia dello strumento urbanistico alla “preventiva accettazione da parte del Comune con apposita deliberazione consiliare delle modifiche, limitazioni e prescrizioni avanti fissati”.
Con D.P.G.R.C. n. 4631 del 14.12.1977, preso atto della deliberazione consiliare n. 184 del 25.3.1974, con la quale il Comune di Sarno accettava le modifiche e le prescrizioni formulate dalla Regione, veniva infine approvato il Regolamento Edilizio con annesso Programma di Fabbricazione, con le modifiche riportate nella suindicata deliberazione di G.R. n. 2799/249 del 12.6.1973.
Nelle more si svolgeva un procedimento di variante del citato strumento urbanistico, avente tra l’altro ad oggetto la soppressione delle suindicate “aree stralciate e assimilate”, secondo la proposta formulata con la deliberazione del Consiglio Comunale n. 12 del 14.2.1976: in relazione ad essa, il Servizio Urbanistica della G.R., con atto n. 1099/bis del 25.5.1976, specificava tuttavia che “non è possibile revocare la prescrizione fatta per alcune zone B1 nel decreto di approvazione del P.d.F….”, esprimendo parere favorevole all’approvazione della variante “con modifiche, prescrizioni ed integrazioni contenute nel parere n. 1099 in data 6.5.1976 di questo stesso Servizio”: tale ultimo parere, a sua volta, richiamate le “modifiche ed integrazioni” contenute nella variante del P.d.F. adottata dal Consiglio Comunale di Sarno con la citata deliberazione, tra le quali, alla lett. g), quella relativa alla “abolizione della prescrizione formulata alla lettera a per la zone B nel decreto di approvazione 23.10.1973 n. 1248”, si esprimeva nel senso che “non è possibile revocare la prescrizione fatta per alcune zone B1 nel decreto di approvazione del P.d.F. poiché tali zone (come risulta dal parere della scrivente) devono rimanere disponibili per consentire, in sede di formazione del P.R.G., la previsione di attrezzature necessarie a soddisfare gli standards urbanistici dell’abitato”.
Il procedimento di variante si concludeva infine con il D.P.G.R.C. n. 1346 del 26.3.1977, non presente agli atti del giudizio, con il quale, in base alle allegazioni attoree (cfr. le note tecnico-giuridiche depositate il 14.2.2017, pag. 10), la zona oggetto di variante veniva individuata “in verde” e concerneva esclusivamente la “trasformazione da zona B3 in zona industriale di un’area contornata con segno verde nella Tav. 3 in scala 1:5.000 del P.d.F.” (con esclusione, quindi, delle aree destinate a standards e delimitate con “linea rossa”).
Tanto premesso, ritiene il Tribunale che la (apparente) discrasia tra le rappresentazioni dell’area vincolata rispettivamente contenute nella Tav. 3 allegata al P.D.F. approvato nel 1973 e nella Tav. 3 della variante approvata nel 1976 sia risolvibile, nel senso della prevalenza della prima, alla luce della chiara posizione negativa assunta dall’Ente preposto all’approvazione (ergo, al perfezionamento del procedimento di variante urbanistica) in ordine alla modifica adottata dal Comune di Sarno e concernente proprio la prescrizione, originariamente apposta allo strumento urbanistico, relativa alla individuazione nelle zone B1 di fasce inedificabili con destinazione a standards: si evince infatti dall’iter procedimentale dianzi illustrato che nessuna volontà modificativa – in senso totalmente o anche solo parzialmente soppressivo – delle originarie disposizioni vincolistiche fu espressa dall’Autorità regionale preposta all’approvazione dello strumento urbanistico e delle sue varianti.
Tale conclusione trova conferma nel fatto che, come si è già visto, il D.P.G.R.C. n. 4631 del 14.12.1977, con il quale il procedimento formativo del P.d.F. trova il suo epilogo e successivo finanche al procedimento di variante svoltosi nelle more, approva lo strumento urbanistico “con le modifiche e le prescrizioni del parere n. 608 in data 27.4.1973 della Sezione Urbanistica Regionale riportate nella deliberazione di G.R. n. 2799/249 in data 12.6.1973, modifiche e prescrizioni accettate dal Comune interessato con deliberazione consiliare n. 184 del 25.3.1974”: in tal modo eliminando ogni dubbio in ordine alla inerenza allo strumento urbanistico definitivamente approvato ed attualmente vigente della previsione vincolistica originaria relativa alle aree “stralciate ed assimilate”.
Peraltro, se si esamina attentamente la natura della discrasia (tra la Tav. 3 allegata al P.d.F. originario e la Tav. 3 annessa alla variante), ci si accorge che non è possibile ravvisare, sullo sfondo della stessa ed a prescindere dai rilievi precedentemente svolti, alcuna volontà modificatrice dell’originaria previsione in tema di standards, per quanto riguarda il lotto interessato.
Come si è visto, invero, la prescrizione apposta dalla Sezione Urbanistica regionale al P.d.F. concerneva una fascia avente “una profondità di m. 50 da ambo (i) lati di alcuni tratti delle principali strade che attraversano longitudinalmente l’abitato esistente”: la trasposizione grafica della suddetta prescrizione, con riferimento all’area interessata dall’intervento edilizio oggetto di controversia, si è tradotta appunto nella apposizione di una linea rossa su entrambi i margini della strada in prossimità della quale insiste la proprietà (dei ricorrenti e della società controinteressata).
Tale (doppia) linea rossa, mentre sul lato sinistro della strada (opposto a quello in cui ricade il lotto interessato) prosegue fino alla successiva intersezione, sul lato destro si interrompe prima (evidentemente perché la zona non coperta dalla linea risulta già ampiamente edificata, rendendo inutile qualunque vincolo di inedificabilità), pur prolungandosi in misura tale da determinare l’inclusione nel vincolo di inedificabilità di una cospicua parte del lotto di proprietà della controinteressata (restringendo, cioè, la superficie edificabile ricadente in zona B1 fino a precludere l’edificazione della volumetria assentita con il p.d.c. n. 1826/2014).
Nella Tav. 3 allegata alla variante del 1976, invece, la suddetta linea rossa conserva immutato il suo andamento sul lato sinistro della strada, mentre sul lato destro, corrispondente al lotto di pertinenza della società controinteressata, si interrompe in un punto che, se assunto a riferimento per la determinazione del vincolo, ne lascerebbe fuori gran parte (ad eccezione cioè, come accertato con i rilievi topografici eseguiti nell’ambito della c.t.u., di un’area di mq. 133) del lotto di proprietà della controinteressata, legittimando l’assenso dato dall’Amministrazione, con il p.d.c. impugnato, alla realizzazione della volumetria di mc. 4.949,61 (comprensivi dei già menzionati incrementi premiali).
Deve tuttavia rilevarsi, in primo luogo, come non sia revocabile in dubbio che, anche nella Tav. 3 allegata alla variante del 1976, la linea rossa si estenda, sul lato sinistro della strada, con la lunghezza originaria: ebbene, se è vero che il vincolo riguarda “ambo (i) lati” delle strade interessate, sebbene limitatamente ad “alcuni tratti”, non può non conseguirne che, laddove il vincolo sia univocamente individuabile almeno relativamente ad un lato della strada, allo stesso non possa restare esente, nella stessa misura, il lato opposto.
In secondo luogo, la irregolare configurazione della linea rossa sul margine destro della strada trova spiegazione nel fatto che, in corrispondenza del punto di interruzione (sia nella Tavola originaria che in quella allegata alla variante), si trovano già disegnati cartograficamente alcuni edifici: chi ha tracciato la linea deve quindi aver ritenuto che, non essendovi aree libere suscettibili di essere destinate a standards, fosse superfluo proseguire con l’evidenziazione cromatica del vincolo, trascurando però di considerare che la fascia vincolata, avente una profondità di m. 50, si prestava comunque a ricomprendere aree non (ancora) edificate, come nel caso della proprietà della controinteressata, preservando quindi l’utilità e, ancor prima, la stessa applicabilità del vincolo medesimo.
Ciò che conta tuttavia è che, a prescindere dalla più o meno corretta trasposizione grafica del vincolo nella Tav. 3 allegata alla variante del P.d.F., non sia individuabile alcuna volontà modificatrice del suo andamento originario da parte della Regione Campania: ciò che impone di avere riguardo, al fine di determinare la superficie edificabile di pertinenza della società resistente, alla delimitazione dell’area vincolata operata con la Tav. 3 allegata al P.d.F. originario.
Infine, l’imprecisione intrinsecamente connessa alla trasposizione grafica del vincolo (cfr., sul punto, la relazione di c.t.u., pag. 103) mediante una linea rossa – dalla quale, a seconda del punto di interruzione, conseguono rilevanti conseguenze in ordine alla individuazione della fascia vincolata – induce a non attribuire eccessivo rilievo alle menzionate discrasie di carattere grafico, in considerazione della univoca estensione del vincolo su uno dei due lati del tratto di strada interessato, cui deve corrispondere, secondo la chiara formulazione della prescrizione regionale, un identico vincolo sull’altro lato del medesimo tratto di strada.
In conclusione, deve ritenersi che la situazione del vincolo con riferimento al lotto di proprietà della controinteressata, anche nella variante del P.d.F. del 1976, sia rimasta immutata rispetto a quella originaria, precludendo la realizzazione della volumetria assentita con il p.d.c. n. 1826/2014, fondata sulla (erronea, per eccesso) determinazione della superficie fondiaria in mq. 1.309.
La rilevata fondatezza della censura esaminata è da sola sufficiente a determinare l’accoglimento del ricorso e, per l’effetto, l’annullamento del p.d.c. n. 1826/2014: tuttavia, ragioni di completezza del sindacato giurisdizionale impongono di esaminare, seppur sinteticamente, le ulteriori doglianze formulate dalla parte ricorrente.
Viene quindi in rilievo quella con la quale si deduce che l’art. 4 l.r. n. 19/2009, in base al quale è stata assentita una volumetria premiale di mc. 785, non sarebbe applicabile alla fattispecie in esame, essendo il suo campo applicativo circoscritto agli edifici esistenti ma non ancora ultimati, oltre che accatastati o in fase di accatastamento, laddove, alla data di presentazione dell’istanza di p.d.c., non esisteva alcun edificio né alcun accatastamento dello stesso.
La censura non è meritevole di accoglimento.
I commi 1 e 2 dell’art. 4 l.r. n. 19/2009 prevedono, rispettivamente, che “in deroga agli strumenti urbanistici vigenti è consentito, per uso abitativo, l’ampliamento fino al venti per cento della volumetria esistente per i seguenti edifici (…)” e che “l’ampliamento di cui al comma 1 è consentito: g) su edifici regolarmente autorizzati ma non ancora ultimati alla data di entrata in vigore della legge regionale 18 gennaio 2016, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione finanziario per il triennio 2016-2018 della Regione Campania – Legge di stabilità regionale 2016)”.
La citata lett. g), dapprima aggiunta dall’art. 1, comma 1, lettera cc), l.r. 5 gennaio 2011, n. 1, e poi modificata nei termini suindicati dall’art. 8, comma 1, lettera b), l.r. 5 aprile 2016, n. 6 (la cui originaria versione era così formulata: “su edifici regolarmente autorizzati ma non ancora ultimati alla data di entrata in vigore della presente legge”), individua evidentemente uno spazio temporale, compreso tra l’autorizzazione delle opere e la loro ultimazione, in cui deve collocarsi l’iter approvativo-realizzativo del progetto edilizio per poter beneficiare della previsione premiale.
Ebbene, non vi è dubbio che l’immobile de quo, assentito (nella sua versione ante-variante) con i p.d.c. n. 1253/2008 e n. 1531/2011, si trovasse, sia alla data dell’entrata in vigore della disposizione citata che a quella di rilascio del p.d.c. n. 1826/2014, nella condizione di edificio “regolarmente autorizzato” ma “non ancora ultimato”, con la conseguente sussistenza dei presupposti applicativi della citata disposizione premiale.
La conclusione raggiunta trova conferma nelle “definizioni” di cui all’art. 2, comma 1, l.r. n. 19/2009, laddove in particolare (lett. e) si prevede che “per volumetria esistente (in rapporto alla quale calcolare l’incremento premiale: n.d.e.) si intende la volumetria lorda già edificata o in corso di edificazione, o ultimata ma non ancora dotata di certificato di agibilità, o edificabile ai sensi della normativa vigente”: la norma àncora infatti l’incremento volumetrico premiale ad una entità urbanistica (la “volumetria edificabile”) avente carattere meramente potenziale ed esclusivamente incentrata sulla volumetria ammissibile in base alle vigenti disposizioni urbanistiche.
Assume altresì rilievo decisivo, nel senso di corroborare la suindicata tesi interpretativa, il confronto con la versione della norma appena citata precedente le modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera f), l.r. 5 gennaio 2011, n. 1, la quale era formulata nel senso che “per volumetria esistente si intende la volumetria lorda già edificata ai sensi della normativa vigente alla data di entrata in vigore della presente legge”: versione evidentemente connotata dal riferimento ad una entità “reale” e “fattuale” (la “volumetria edificata”) e non meramente “potenziale” e “giuridica” (la “volumetria edificabile”), come nella nuova formulazione (da questo punto di vista, peraltro, il fatto che la volumetria “edificabile” assunta a riferimento dell’incremento volumetrico premiale non corrispondesse, nella fattispecie in esame, a quella ammessa dallo strumento urbanistico rileva, in chiave invalidante del p.d.c. impugnato, sotto altro profilo, come si è visto in occasione dell’esame della precedente censura).
Né la conclusione esposta può trovare ostacolo, come assume la parte ricorrente, nel disposto dell’art. 4, comma 6, l.r. n. 19/2009, ai sensi del quale “l’ampliamento non può essere realizzato su edifici residenziali privi del relativo accatastamento ovvero per i quali al momento della richiesta dell’ampliamento non sia in corso la procedura di accatastamento”, essendo evidente che essa deve trovare applicazione coerente con le altre previsioni della medesima legge e con la sua ratio, connessa all’intento legislativo di non favorire con disposizioni premiali gli immobili non in regola con la disciplina fiscale: ratio che non ricorre relativamente ad immobili che, non essendo stati ultimati, non sono soggetti all’obbligo di accatastamento.
Ugualmente irrilevante è il disposto dell’art. 12 bis, comma 1, l.r. n. 19/2009, ai sensi del quale “la presente legge si applica soltanto ai fabbricati regolarmente autorizzati al momento della richiesta dei permesso a costruire…”, intendendo con esso il legislatore regionale semplicemente rimarcare che le disposizioni premiali non sono applicabili ad edifici (eventualmente già esistenti) abusivamente realizzati.
Nemmeno decisiva è l’interpretazione delle citate disposizioni fornita dalla Regione Campania con la circolare n. 0774995 del 23.10.2012, invocata dalla parte ricorrente, laddove, ai fini applicativi dell’incremento premiale, fa riferimento alla “necessaria presenza di un manufatto esistente”: il carattere meramente interpretativo della circolare, i cui esiti si è detto essere non condivisibili, impone infatti di escludere ogni valenza vincolante della stessa ai fini della soluzione della questione de qua.
Per concludere sul punto, deve solo osservarsi che non possono avere ingresso nel giudizio le deduzioni formulate dalla parte ricorrente con la memoria del 18.2.2016, laddove viene contestata, in mancanza di una corrispondente censura tempestivamente formulata con il ricorso introduttivo, la sussistenza delle ipotesi di cui all’art. 4, comma 1, l.r. n. 19/2009, ai sensi del quale l’ampliamento volumetrico è consentito per una delle seguenti tipologie edilizie: a) edifici residenziali uni-bifamiliari; b) edifici di volumetria non superiore ai millecinquecento metri cubi; c) edifici residenziali composti da non più di tre piani fuori terra, oltre all’eventuale piano sottotetto.
Viene adesso all’esame del Tribunale la censura con la quale viene dedotto che, in violazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, il progettato fabbricato “B” è posizionato a distanza inferiore a m. 10 dal fabbricato presente sul lato ovest del lotto e presenta pareti finestrate, mentre il fabbricato “A” è posto in quota parte in aderenza e quota parte a soli 3,5 metri dall’edificio di proprietà dei ricorrenti.
La censura, come illustrato anche dal c.t.u., si articola in due profili: il primo, inteso a rimarcare che la distanza tra l’erigendo fabbricato “B” e l’immobile di altra proprietà presente sul lato ovest del primo è inferiore a m. 10, ovvero pari a m. 6,81, come evidenziato nella relazione tecnica di parte; il secondo, inteso a sostenere che la distanza all’interno della chiostrina prevista tra il fabbricato “A” e quello costruito sul confine, di proprietà dei ricorrenti, è inferiore a quella prescritta di m. 10, essendo pari a m. 3,25, come indicato dal c.t.p. dei ricorrenti.
Deve premettersi che, come riconosciuto dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3510 del 3 agosto 2016), “le disposizioni del D.M. n. 1444/1968, dettate con riferimento agli strumenti urbanistici ad esso successivi (e, dunque, alle costruzioni da realizzarsi sulla base dei medesimi), ai quali si impongono inderogabilmente, al punto da sostituire per inserzione automatica eventuali disposizioni contrastanti: Cass. civ., sez. II, 12 febbraio 2016 n. 2848; Cons. Stato, sez. IV, 16 aprile 2015 n. 1951), sono volte alla tutela dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del territorio e rispondono alle finalità proprie della pianificazione urbanistica, in attuazione dei beni e valori costituzionalmente garantiti per suo tramite (Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012 n. 2710). Più in particolare, l’art. 9 del citato D.M., nel prescrivere, a seconda delle zone del territorio comunale, precise distanze tra fabbricati intende garantire sia l’interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell’edilizia, sia l’interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili (Cons. Stato, sez. IV, 29 febbraio 2016 n. 856). Le distanze previste dall’art. 9 cit., dunque, sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina all’uopo predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile. Ne consegue che il soggetto che invoca, innanzi al giudice ordinario, il rispetto delle disposizioni del codice civile a tutela di un suo diritto reale, fonda la propria legittimazione ad agire in giudizio sulla propria posizione giuridica di diritto soggettivo (reale) e l’attività edilizia assunta come illecita costituisce lesione di quel suo diritto, tale da rendere attuale l’interesse ad agire in giudizio. In tal caso, sia la verifica delle condizioni dell’azione sia la verifica della violazione delle norme del codice civile (in particolare in tema di distanze) ha come fulcro il diritto reale di chi agisce in giudizio per la sua tutela, proprio perché a quest’ultima esse sono funzionali. Diversamente, il soggetto che – non già innanzi al giudice ordinario, bensì innanzi al giudice amministrativo – invoca l’illegittimità del titolo edilizio rilasciato dall’amministrazione pubblica, poiché rilasciato in violazione delle prescrizioni del D.M. n. 1444/1968 in tema di distanze, richiede che il giudice verifichi la legittimità dell’atto in quanto (potenzialmente) adottato in violazione di una norma di diritto pubblico, posta a tutela dell’interesse pubblico, e della quale egli si giova ad indiretta tutela della sua posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo. Ne consegue che, in questo secondo caso, le condizioni dell’azione si presentano in modo affatto differente rispetto a quanto si pone innanzi al giudice ordinario. Ed infatti, in questo caso, la legittimazione si collega alla titolarità di una posizione di interesse legittimo che può certamente trovare il suo “collegamento” con una preesistente posizione di diritto reale, ma che può fondarsi anche su altro titolo (quali, ad esempio, la titolarità di un contratto di locazione, il diritto alla salute, etc.). E, dunque, l’interesse ad agire, volto ad ottenere l’annullamento del provvedimento impugnato, si collega non già ad una posizione di diritto soggettivo (reale) leso, bensì all’interesse pubblico tutelato dalla norma, dal rispetto della quale discende (anche) la tutela di proprie situazioni giuridiche soggettive, non necessariamente limitate al genus dei diritti reali. Pertanto, il giudice amministrativo, nell’esaminare i motivi di ricorso con i quali si prospetta la violazione della norma sulle distanze di cui all’art. 9 cit., deve:
– quanto alle condizioni dell’azione, verificare la sussistenza di un “collegamento” stabile e giuridicamente apprezzabile tra il ricorrente e l’immobile sul quale si realizzerebbe la costruzione, in virtù del provvedimento impugnato, collegamento che può risultare anche (ma non solo) dalla titolarità di un diritto reale, ma che non è limitato dalla presenza e dalla lesione di questo (e ciò rileva, in particolare, per la verifica della sussistenza dell’interesse ad agire);
– quanto al merito, verificare se il provvedimento impugnato risulti adottato in violazione della norma di diritto pubblico in tema di distanze, nel senso che il nuovo manufatto si ponga in contrasto con le finalità di tutela dell’interesse pubblico al quale la norma è teleologicamente orientata”.
Discende da tale condivisibile prospettiva interpretativa che la violazione delle distanze sancite dalla norma citata, per legittimare la proposizione (e l’accoglimento, in ipotesi di fondatezza), della corrispondente censura, non presuppone necessariamente che la posizione del ricorrente coincida con quella del proprietario dell’immobile in relazione al quale la questione delle distanze venga prospettata.
Quanto al primo profilo della doglianza in esame, quindi, il fatto che i ricorrenti non siano proprietari dell’immobile posto ad ovest, rispetto al quale viene dedotta la violazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, non influisce sulla ammissibilità della censura medesima, a differenza di quanto ritenuto dal c.t.u. (tanto più in quanto il Tribunale, nel formulare il corrispondente quesito, aveva richiesto di verificare le distanze “con particolare”, ma non esclusivo riferimento al fabbricato di proprietà dei ricorrenti.
Nemmeno assumono carattere decisivo, al fine di negare la fondatezza della presente censura, i rilievi del c.t.u. secondo cui “in ogni caso, non sono presenti pareti finestrate antistanti tra gli immobili (palazzina B ed “altra proprietà”) di cui la parte ricorrente contesta il mancato rispetto delle distanze di 10 m.”, atteso che l’immobile posto ad ovest della palazzina “B” è dotata di due piccole aperture non assimilabili a “finestre”, in quanto “trattasi di 2 pozzi di luce posti ad un’altezza, dal livello del suolo, che non consente un affaccio agevole verso la proprietà dei resistenti, per cui non trova applicazione il regime delle distanze di cui all’art. 9 d.m. 1444/1968”: deve infatti osservarsi che, secondo consolidata giurisprudenza (cfr. T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, n. 109 del 23 febbraio 2017), “per poter applicare la regola della distanza minima di dieci metri posta dall’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 (…) è necessaria l’esistenza di due pareti che si contrappongono, di cui almeno una deve essere finestrata (Consiglio di Stato sez. IV 31 marzo 2015 n. 1670; Conferma T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, n. 1462/2014)”.
Ebbene, se da un lato il c.t.u. non chiarisce se possa considerarsi finestrata la parete del fabbricato “B” prospiciente il manufatto posto sul lato ovest del primo, la relazione del c.t.p. di parte ricorrente, laddove richiama (e riproduce) la Tav. A1 del progetto assentito (cfr. pag. 8 delle osservazioni trasmesse al c.t.u.), consente univocamente di accertare il carattere “finestrato” del fabbricato “B”, sul lato di interesse, con la conseguente sussistenza della violazione lamentata in ricorso.
Quanto al secondo profilo della censura in esame, il c.t.u. è pervenuto alla conclusione che le aperture presenti sulla parete del fabbricato di proprietà dei ricorrenti, ubicato a confine del lotto di proprietà della società resistente, sono qualificabili come semplici “luci”, per gli effetti applicativi dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968.
In particolare, quanto all’apertura posta al piano rialzato, posta ad una altezza da terra di m. 1,42 ed avente una larghezza di m. 1,38, il c.t.u. ha rilevato come l’accertamento tecnico preventivo svolto nel 2009 su richiesta della società controinteressata, al fine di verificare la consistenza delle aperture presenti sulla facciata del fabbricato di proprietà Prisco posta a confine del lotto, abbia consentito di accertare che essa “ha caratteristiche anomale, poiché essa non è né una finestra regolare con un prospetto regolare, né lume ingrediente (di sola areazione”).
In proposito, il c.t.u. nominato da questo Tribunale, rilevato che essa era inizialmente un semplice “pozzo di luce” e che, a seguito dell’esecuzione dei lavori assentiti con concessione edilizia n. 897 del 5.6.1978, e della conseguente modifica dell’altezza del piano di calpestio interno, è divenuta un’apertura “quasi regolare”, come rilevato in occasione del citato A.T.P., conclude nel senso che “siffatta modifica, operata in modo unilaterale dai ricorrenti, non può penalizzare il diritto del vicino che può esigere che l’apertura sia resa conforme alle caratteristiche originariamente possedute, ovvero quelle di apertura lucifera”.
Il Tribunale non condivide interamente le conclusioni del c.t.u..
In primo luogo, la qualificazione di una apertura come luce o finestra deve essere operata sulla scorta dell’art. 900 c.c., a mente del quale “le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente”: ne consegue che, consentendo la suddetta apertura, per la sua altezza dal piano interno di calpestio (m. 1,42), di affacciarsi all’esterno, essa è pacificamente qualificabile come “veduta” o “finestra”, agli effetti del rispetto delle norme sulle distanze.
Né rileva che sulla facciata esterna la suddetta apertura abbia conservato la sua altezza originaria, pari a m. 2,5 dal suolo, atteso che, come appena detto, la qualificazione di una apertura come “luce” o come “finestra” va rapportata alla possibilità di utilizzo che essa consente, la quale prescinde dalla sua posizione esterna (altrimenti, occorrerebbe paradossalmente ritenere che tutte le finestre posizionate ad altezza esterna superiore a m. 2.5 debbano considerarsi come semplici luci).
In secondo luogo, come si è detto, le modifiche apportate dai ricorrenti, all’esito delle quali la suddetta apertura ha assunto le caratteristiche di una “quasi-finestra”, sono legittimate dal titolo edilizio richiamato dallo stesso c.t.u.: l’astratta possibilità per il confinante di esigere il ripristino dello status quo ante, ovvero delle condizioni che consentivano di qualificare l’apertura in questione come semplice luce e non come finestra o veduta, per la sua rilevanza meramente civilistica, non è suscettibile di influire sull’applicazione di una norma che, come quella contenuta nell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, per la sua rilevanza pubblicistica in precedenza evidenziata, non può che assumere a riferimento l’attuale situazione dei luoghi, non quella che potrebbe assumere ove l’avente titolo esigesse il rispetto delle disposizioni civilistiche in tema di regolamentazione dei rapporti tra proprietà confinanti.
Per le ragioni esposte, quindi, la suddetta parete dell’edificio di pertinenza dei ricorrenti deve senz’altro qualificarsi come “finestrata” agli effetti dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968.
Quanto alle due aperture presenti al primo piano del medesimo edificio, il c.t.u., condividendo le risultanze del citato A.T.P. (in base al quale “le n. 2 finestre del primo piano sono a lume ingrediente”), ha rilevato che esse, non offrendo la possibilità di affaccio verso la proprietà della società resistente, essendo poste ad una altezza di quasi m. 2 dal piano di calpestio interno, sono da considerarsi come semplici aperture “a lume ingrediente”.
Tale circostanza non modifica tuttavia la conclusione in precedenza raggiunta, in ordine alla qualificabilità come “finestrata” della parete del fabbricato dei ricorrenti, mentre non rileva, ai fini dell’applicazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, che anche la prospiciente parete del fabbricato in costruzione presenti le stesse caratteristiche.
Quanto poi alla eventuale deroga delle distanze che deriverebbe dalla “chiostrina” ubicata tra l’edificio costruendo e quello di proprietà dei ricorrenti, si vedrà più avanti, in occasione dell’esame delle censure formulate in proposito in ricorso, che essa non è affatto configurabile, sì che la questione non può incidere sull’accoglimento della doglianza poc’anzi esaminata.
Deducono con ulteriore censura i ricorrenti che il lotto di intervento è classificato dal vigente P.d.F. parte in zona in zona “B1”, parte in zona “F”, parte in zona per “Attrezzature” e parte in zona “Strada di Piano”.
Essi aggiungono che, poiché il vincolo di natura espropriativa gravante sulle ultime tre è decaduto (essendo trascorsi più di cinque anni dalla data di approvazione del Piano di cui al D.P.G.R.C. n. 4631 del 14.12.1977), le stesse sono soggette al regime normativo di cui all’art. 9 d.P.R. n. 380/2001, ricadendo l’intera area di intervento all’interno del centro abitato.
Lamentano quindi che sulla strada di piano vengono previste in progetto sia la rampa che la strada di accesso ai garages interrati, sia urbanizzazioni private che verde privato, nella zona “F” vengono previste sia la strada di accesso ai garages privati posti al livello -1, sia verde privato che parcheggi a raso privati a livello 0, e che sulla zona per Attrezzature vengono previsti garages privati al livello -1 e verde privato a livello 0: tutte previsioni progettuali contrastanti, a dire dei ricorrenti, con le tipologie di intervento previste dall’art. 9, comma 1, lett. a) d.P.R. n. 380/20001, senza trascurare che, per effetto della realizzazione dell’intervento de quo, si avrebbe una compressione delle aree destinate a zona “B1”, zona “F”, zona per “Attrezzature” e zona “Strada di Piano”, con gravi ripercussioni sul dimensionamento dello strumento di pianificazione.
La censura non è meritevole di accoglimento.
Deve premettersi che le aree indicate dalla parte ricorrente, in virtù della dedotta decadenza dei relativi vincoli espropriativi, sono assoggettate alla disciplina propria delle cd. zone bianche, così come delineata dall’art. 9, comma 1, lett. a) d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici ed all’interno del perimetro del centro abitato sono consentiti “gli interventi previsti dalle lettere a), b), e c) del primo comma dell’articolo 3 che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse”.
Ebbene, chiarito che, come accertato dal c.t.u., nelle suddette aree non sono previste opere di carattere edificatorio, ma esclusivamente la realizzazione della rampa e della strada di accesso ai garages interrati, dei parcheggi a raso e del verde privato, ritiene il Tribunale che la deduzione attorea sia infondata, in primo luogo, relativamente a quelle opere che non comportino la trasformazione permanente di suolo inedificato, come quelle consistenti nella realizzazione di parcheggi a raso o di verde privato.
Ma a non diversa conclusione deve pervenirsi relativamente alle rampe e strade di accesso, atteso il loro carattere squisitamente pertinenziale e la totale irrilevanza volumetrica, che preclude di ricondurle alla nozione di “nuova costruzione” che si contrappone, nella logica che ispira la disciplina delle cd. zone bianche, alle tipologie edilizie di cui agli artt. a), b) e c) d.P.R. n. 380/2001.
Del resto, come evidenziato dalla parte resistente, ai sensi dell’art. 9, comma 1 l. n. 122 del 24 marzo 1989, “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”: ne consegue la compatibilità urbanistica di opere, come quelle suindicate, a servizio di parcheggi interrati che beneficiano della citata disciplina derogatoria.
Viene infine in rilievo la censura con la quale i ricorrenti deducono che la prevista realizzazione di un chiostro contrasta con l’art. 29, comma 4, del R.E., ai sensi del quale “…negli spazi interni definiti come “chiostrine” possono affacciarsi soltanto disimpegni verticali o orizzontali e locali igienici. Nelle “chiostrine” non vi possono essere né sporgenze, né rientranze. Tutti gli spazi interni devono essere accessibili dai locali di uso comune”.
Lamentano infatti i ricorrenti che la parete finestrata del fabbricato di loro proprietà è ad uso affaccio, che negli spazi interni della “chiostrina” vi sono sporgenze e rientranze, che un lato della stessa non risulta nemmeno chiuso e dalla linea di confine aperta non risulta rispettata la regolare distanza che dal progetto risulta essere di soli m. 4 anziché il minimo assoluto di m. 5, mentre, poiché l’altezza del fabbricato da realizzare è di m. 12,24, la distanza dovrebbe essere di m. 6,12, come previsto dal R.E..
La censura è meritevole di accoglimento.
Ai sensi dell’invocato art. 29, comma 4, R.E., infatti, “…negli spazi interni definiti come chiostrine possono affacciare soltanto disimpegni verticali o orizzontali e locali igienici”.
Come già in precedenza rilevato, la parete dell’edificio dei ricorrenti prospiciente il fabbricato “A” assentito con il p.d.c. impugnato ha carattere “finestrato” e la finestra ivi presente è a servizio di una stanza da letto e cucina.
Ebbene, non può condividersi quanto sostenuto sul punto dal c.t.u., nel senso che dovrebbe attribuirsi rilievo, al fine di verificare il rispetto della suindicata disposizione, alle sole pareti del fabbricato progettato, sulle quali insistono solo aperture a servizio dei servizi igienici: la chiostrina, infatti, è formata sia dalle pareti del fabbricato costruendo sia da quelle del fabbricato preesistente, imponendo il rispetto, per tutte le pareti che concorrono a configurarla, dei requisiti delineati dal citato art. 29, comma 4, R.E..
Concorre a tale conclusione, del resto, la stessa giurisprudenza citata dal c.t.u. (Cassazione civile, sez. II, n. 7001 dell’8 maggio 2012), secondo cui la “chiostrina” costituisce “uno spazio, funzionale a dare aria e luce ai cosiddetti ambienti di servizio (bagni, corridoi, locali deposito, ecc.), vale a dire a tutti gli quegli ambienti non destinati ad essere abitati: essa, dunque, serve a soddisfare esigente igieniche e a garantire la salubrità degli edifici ed, in questo ambito, è di norma disciplinata dal R.E. che ne stabilisce l’area e l’ampiezza minima. Ancorché sovente la chiostrina sia ubicata all’interno di un edificio ovvero sia stata prevista nell’ambito di un’unica progettazione relativa a più edifici, nulla impedisce che la chiostrina medesima costituisca un’area contornata da unità immobiliari distinte (come nella specie): tale ultima evenienza è da ritenere che ricorra nella presente vicenda in quanto la normativa regolamentare in proposito – individuata dallo stesso appellante – si riferisce agli spazi interni ad edifici, senza alcun altra specificazione, sicché resta superata (anche per l’uso del plurale) sia la fattispecie dell’edificio unico, sia quella dell’unica progettazione di più edifici, non essendo praticabile tale limitazione in difetto di previsione”.
La non configurabilità di una “chiostrina” conforme ai requisiti richiesti dal R.E. osta anche all’applicazione delle più favorevoli norme in tema di distanze, che quella fattispecie presuppongono.
La proposta domanda di annullamento, in conclusione, deve essere accolta sotto tutti i profili evidenziati.
Deve essere invece dichiarata inammissibile la domanda di condanna alla restitutio in integrum, non essendo ammissibile nell’ambito della giurisdizione amministrativa la pronuncia di condanne nei confronti di soggetti privati.
La complessità dell’oggetto della controversia giustifica la compensazione delle spese di giudizio sostenute dalle parti, mentre l’obbligo di provvedere al pagamento del compenso spettante al c.t.u., da liquidarsi in complessivi € 3.000,00, oltre oneri di legge e detratto l’acconto già eventualmente percepito (per il quale, così come per il contributo unificato, la parte ricorrente avrà diritto di rivalsa nei confronti del Comune di Sarno e della società controinteressata), nonché al rimborso delle spese sostenute dal medesimo c.t.u., pari a complessivi € 3.000,00 (comprensivi delle spese per l’esecuzione del rilievo topografico), deve essere posto a carico del Comune di Sarno e della parte controinteressata, in solido tra loro e con riparto interno del relativo onere nella misura del 50% per ciascuno.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno, Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 2857/2015:
– accoglie la proposta domanda di annullamento ed annulla per l’effetto i provvedimenti impugnati;
– dichiara l’inammissibilità della domanda di condanna alla restitutio in integrum;
– liquida in complessivi € 3.000,00, oltre oneri di legge e detratto l’acconto già eventualmente percepito (per il quale la parte ricorrente avrà diritto di rivalsa nei confronti del Comune di Sarno e della società controinteressata), il compenso spettante al c.t.u. ed in € 3.000,00 il rimborso spettante al medesimo c.t.u. per le spese sostenute ai fini dell’esecuzione dell’incarico;
– pone l’obbligo di provvedere al relativo pagamento a carico del Comune di Sarno e della parte controinteressata, in solido tra loro e con riparto interno del relativo onere nella misura del 50% per ciascuno;
– compensa le spese di giudizio sostenute dalle parti, ad eccezione del contributo unificato, per il quale la parte ricorrente avrà diritto di rimborso nei confronti del Comune di Sarno e della società controinteressata, in solido tra loro.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 4 aprile 2017 con l’intervento dei magistrati:
Francesco Riccio, Presidente
Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore
Maurizio Santise, Primo Referendario

L’ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Ezio Fedullo
Francesco Riccio

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