Tutti gli articoli di Avv. Luigi Ferrara

Avvocato amministrativista

Indire una procedura di mobilità ha o no la preferenza rispetto ad attingere a graduatorie ancora valide?

Una Asl campana bandiva un concorso di mobilità (regionale ed interregionale), per titoli e colloqui, per il reclutamento di un consistente numero di Dirigenti veterinari. Una veterinaria, nella qualità di idonea non vincitrice del concorso indetto da un’altra Asl della medesima Regione, per la copertura sempre di posti di Veterinario Dirigente, impugnava davanti al TAR il bando della mobilità deducendo che l’Amministrazione intimata avrebbe dovuto procedere alla copertura dei posti vacanti attingendo preventivamente alla suddetta graduatoria di merito, tuttora valida e nell’ambito della quale ella era ben collocata, mentre solo in via subordinata avrebbe potuto procedere alla indizione di una bando per la mobilità regionale ed interregionale.

Nel rilevare l’infondatezza delle deduzioni della ricorrente, il giudice adito richiamava essenzialmente la giurisprudenza in base alla quale le Amministrazioni, prima di procedere all’indizione di pubblici concorsi finalizzati alla copertura di posti vacanti (quindi anche prima di procedere allo scorrimento delle graduatorie concorsuali già pubblicate) devono attivare le procedure di mobilità esterna del personale di altre Amministrazioni pubbliche, rispondendo ad esigenze di efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa la preferenza per l’utilizzazione di personale con esperienza acquista nell’esercizio dei compiti propri del posto da ricoprire.

La sentenza di primo grado veniva appellata dall’interessata.

Il Consiglio di Stato, III Sezione, con sentenza n. 3750 del 19 giugno 2018, ha dato torto all’appellante.

Il Collegio di appello ha premesso che, in assenza di una norma di legge che stabilisca in maniera univoca il rapporto preferenziale cui le Amministrazioni debbano attenersi nella scelta della modalità (in specie, attingimento ad una graduatoria efficace formata da altra Amministrazione del medesimo comparto o indizione di una procedura di mobilità esterna) per l’assunzione del personale destinato alla copertura dei posti vacanti del proprio organico, i vizi dedotti dalla parte appellante afferiscono essenzialmente al contenuto discrezionale del provvedimento impugnato: ciò anche laddove si prefiggono di censurare il modus procedendi seguito dalla ASL appellata, con riferimento alla concessione alle altre ASL della Regione di un termine eccessivamente breve per comunicare l’esistenza di graduatorie tuttora efficaci alle quali attingere per l’assunzione del personale cui si riferisce la contestata procedura di mobilità.

La natura dei vizi lamentati, in quanto sintomatici di un uso sviato del potere di cui il provvedimento impugnato costituisce espressione, ha così imposto al Consiglio di Stato un’analisi non atomistica degli stessi, ma complessiva ed orientata a cogliere la coerenza del provvedimento con l’interesse pubblico perseguito.

Ebbene, ai fini della individuazione di tale interesse e del modo migliore di realizzarlo, tra quelli astrattamente prospettati, il Collegio (ritenendo di dare continuità al più recente indirizzo interpretativo giurisprudenziale), affermando che l’esistenza di una graduatoria ancora valida, se limita (o in ipotesi addirittura esclude) la libertà di indire un nuovo concorso, non incide sulla libertà di avviare una procedura di mobilità.

La preferenza accordata allo scorrimento della graduatoria, rispetto all’indizione di una nuova procedura concorsuale, si può in taluni casi giustificare, ma non può essere riferita alla diversa ipotesi in cui allo scorrimento della graduatoria sia preferito il ricorso alla procedura di mobilità di personale proveniente da altre Amministrazioni, ciò atteso il fatto che la mobilità consente varie finalità quali l’acquisizione del personale già formato, l’immediata operatività delle scelte, l’assorbimento di eventuale personale eccedentario ed i risparmi di spesa conseguenti a tutte le ricordate situazioni.

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Processo amministrativo telematico: i nuovi moduli di deposito e le istruzioni

Sul sito della Giustizia amministrativa sono stati pubblicati i nuovi moduli di deposito con le relative istruzioni. Dal 25 maggio si devono utilizzare esclusivamente tali moduli.

Modulistica

Sentenza n. 355 del 16 febbraio 2018, pubblicata oggi 16 aprile 2018, emessa dal Tribunale di Nocera Inf. sez. Lavoro.

Sentenza n. 355 del 16 febbraio 2018, pubblicata oggi 16 aprile 2018, emessa dal Tribunale di Nocera Inf. sez. Lavoro. Dott.ssa R. Caporale.

Annullamento iscrizione d’ufficio da parte della CIPAG – Equitalia Spa delle somme a titolo di contributi previdenziali obbligatori in quanto soggetto iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria.
ACCOGLIMENTO della domanda.
Avv.ti L. Ferrara, C. Battipaglia, R.M. Annunziata

Abstract
“… Considerato pertanto che l’art. 22 L 773 1982, prevede l’obbligo di iscrizione alla cassa geometri soltanto per coloro i quali , iscritti all’albo professionale, esercitino la libera professione con carattere di continuità e non siano iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria, e rilevato che nel caso di specie è del tutto pacifico che il ricorrente è iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria ed ha esercitato l’attività di geometra in maniera saltuaria va dichiarata l’illegittimità dell’iscrizione d’ufficio del ricorrente alla cassa geometri per ilperiodo in contestazione e le cartelle impugnate vanno annullate”.

Annullamento dell’esclusione dal concorso di cui al decreto c.d. buona scuola dm 106 del 23 febbraio 2016

Su ricorso degli avv.ti Ferrara e Battipaglia
contro l’esclusione del docente dalla prova al c.d. concorsone per aver presentato la domanda cartacea in luogo di quella telematica, il TAR Lazio stabilisce che: “il Prof. é escluso illegittimamente e va ammesso alla prova suppletiva”.

Pubblicato il 03/10/2017 đến 03/11/2017
N. 10985/2017 REG.PROV.COLL.
N. 05185/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5185 del 2016, proposto da:
M. C., rappresentato e difeso dall’avvocato Luigi Ferrara, domiciliato ex art. 25 cpa presso Tar Lazio Segreteria Tar Lazio in Roma, via Flaminia, 189;

contro

Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, Usr – Ufficio Scolastico Regionale Per Campania – Ufficio Concorsi Docenti, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale Dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l’annullamento dell’esclusione dal concorso di cui al decreto c.d. buona scuola dm 106 del 23 febbraio 2016 ( medie superiori);

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca e di Usr – Ufficio Scolastico Regionale Per Campania – Ufficio Concorsi Docenti;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 28 febbraio 2017 il dott. Riccardo Savoia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Considerato:

che il ricorrente risulta in possesso di PAS con riserva, per la pendenza del giudizio introdotto sul riconoscimento della durata del servizio prestato, sicchè lo stesso è legittimato a partecipare a tutte le procedure che di tale titolo presupposto necessitino, almeno fino a quando, con la decisione del ridetto giudizio, tale riserva non sia sciolta in un senso o nell’altro;

che conseguentemente è fondata la domanda sull’illegittimità del silenzio opposto e deve essere accolto il ricorso, con annullamento della disposta esclusione;

che le spese, attesa la particolarità della vicenda, possono essere compensate;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla la disposta esclusione, ammettendo il ricorrente alle prove suppletive, ove già non sostenute per effetto dell’ordinanza cautelare.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 febbraio 2017 con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Savoia, Presidente, Estensore

Maria Cristina Quiligotti, Consigliere

Ines Simona Immacolata Pisano, Consigliere

IL PRESIDENTE, ESTENSORE Riccardo Savoia

Commissione Tributaria Regionale sez. distaccata di Salerno n. 8476/2017 del 28.09.2017, avverso la pronuncia sentenza n. 5392/2015 Sez: 8 Tributaria Provinciale di SALERNO.

L’Ufficio non può limitarsi a comunicare il classamento che ritiene adeguato, ma deve anche fornire un qualche elemento che spieghi perchè la proposta avanzata dal contribuente con la DOFCA viene disattesa.

L’obbligo di motivazione dell’avviso di classamento è soddisfatto con la mera indicazione dei dati oggettivi e della classe attribuita solo se gli elementi di fatto indicati dal contribuente non siano stati disattesi dall’Ufficio e l’eventuale discrasia tra rendita proposta e rendita attribuita derivi da una valutazione tecnica sul valore economico dei beni classati, mentre, in caso contrario, la motivazione dovrà essere più approfondita e specificare le differenze riscontrate sia per consentire il pieno esercizio del di ritto di difesa del contribuente sia per delimitare I’oggetto dell’eventuale contenzioso

– Leggi la sentenza –

MOTIVI DELTA DECISIONE
L’Agenzia delle Entrate di salerno, settore Territorio, ha proposto appello awerso
la sentenzan, 5392 emessa in data 13.10.2015 dalla Commissione Tributaria
Provinciale di salerno – sez. 1 ,, che ha accolto il ricorso proposto dai contribuenti
indicati in epigrafe, annullando gli awisi di accertamento con i quali
I’Ufficio ha rettificato la rendita catastale delle unità immobiliari di proprietà
degli appellati, ubicati nel Comune di Sarno.
L’avviso di accertamento si fondava sul diverso classamento degli immobili.
L’iter procedimentale si era sviluppato con una proposta di classamento dei con
tribuenti, rettificata dall’Ufficio.
I contribuenti avevano impugnato l’atto di accertamento deducendo, oltre al
difetto assoluto, nella motivazione del prorruedimento impugnato, dei criteri
estimativi seguiti per la determinazione della consistenza e del classamento degli
immobili, I’erroneità di tale determinazione in relazione alle reali caratteristiche
intrinseche ed estrinseche delle unità immobiliari.
La sentenza impugnata ha ritenuto fondata I’eccezione relativa al difetto di mo
tivazione del atto, reputando tale rilievo assorbente rispetto alle altre questioni
sollevate.
L’appellante ripropone a sostegno del gravame le medesime argomentazioni
dedotte in prime cure, affermando, nel merito, la correttezza dell’individuazione
del classamento.
Gli appellati si sono costituiti chiedendo il rigetto del gravame.
la causa è stata trattata in pubblica udienza.
L’appello, tempestivamente proposto, è infondato e va rigettato.
Il collegio condivide, infatti, la motivazione della sentenza impugnata, la quale
ha dato conto del recente mutamento della posizione della giurisprudenza di
legittimità circa l’onere motivazionale incombente allAgenzia del Territorio nei
procedimenti di rettifica della consistenza e del classamento deeli immobili ai
fini della detelminazione della rendita catastale.
In vero, la giurisprudenza più risalente affermava
che, in tema d’imposta sui fabbricati l’avviso di classificazione di un immobile in una determinata categoria è soggetto all’obbhgo della motivazione, il quale deve ritenersi osservato anche
mediante la semplice indicazione della consistenza, della categoria e della classe
acclarati dall’ufficio tecnico erariale (UTE), trattandosi di dati sufficienti a porre
il contribuente nella condizione di difendersi (Cass. Civ., Sez. 5, Sentenza n.
12068 del 1/7/2004; Sez. 5, Sentenza n’ 14379 del 30/06/2011).
Più di recente, viceversa, la Suprema Corte, con ordinanza n. 6 febbraio 2014 n.
7709, ha affermato che l’atto con cui l’amministrazione disattende le indicazioni
del contribuente circa il classamento di un fabbricato debba contenere una adeguata
– ancorchè sommaria , motivazione, che delimiti I’oggetto della successiva
ed eventuale controversia giudiziaria.
Analogarnente l’ordinanza n. 3394 del 13/02/2014 ha evidenziato che il principio di cui sopra e tanto piu evidente ove si considerino le incertezze proprie del
sistema catastale italiano che si riflettono sull’atto (classamento) con cui I’amministrazione colloca ogni singola unità. immobiliare in una determinata categoria,
in una determinata classe di merito e le attribuisce una “rendita”.
Il classamento non è oggi disciplinato da precisi riferimenti normativi: la legge si
limita, infatti, a prevedere la elaborazione di un reticolo di categorie e classi catastali
e demanda la elaborazione di tali gruppi, categorie e classi all’Ufficio tecnico
erariale (D.P.R. 1 dicembre 1949, n. 1747, art.9).
L’ufficio tecnico erariale procede sulla base di istruzioni ministeriali anche piuttosto risalenti nel tempo (è tuttora utile in proposito la circolare n. 134 del 6 luglio 1941, integrata dalla istruzione del 24  maggio l942). Ed alla circolare n. 5 del 1992.
Dunque I’Ufficio non può limitarsi a comunicare il classamento che ritiene adeguato, ma deve anche fornire un qualche elemento che spieghi perchè la proposta avanzata dal contribuente con la DOFCA viene disattesa.
Sul punto si è poi precisato che, qualora l’attribuzione della rendita catastale avvenga a seguito della procedura disciplinata dal D.L.73 gennaio 1993, n’ 16, art. 2, convertito, con modificazioni, in L.24 marzo 1993, n. 75, e dal D.M. 19 aprile 1994, n. 701 (cosiddetta procedura DOCFA), I’obbligo di motivazione dell’avviso di classamento è soddisfatto con la mera indicazione dei dati oggettivi e della classe attribuita solo se gli elementi di fatto indicati dal contribuente non siano stati disattesi dall’Ufficio e l’eventuale discrasia tra rendita proposta e rendita attribuita derivi da una valutazione tecnica sul valore economico dei beni classati, mentre, in caso contrario, la motivazione dovrà essere più approfondita
e specificare le differenze riscontrate sia per consentire il pieno esercizio del di ritto di difesa del contribuente sia per delimitare I’oggetto dell’eventuale contenzioso (v. Cass. n. 23237 /2014. successivamente ripresa da Cass. n.l2497 del 16/06/2016). Tali principi, in definitiva, si allineano alla giurisprudenza espressa dalla Corte a proposito degli anni di riclassificazione posti in essere dall’Ufficio (Cass. n. 17348 del 30 luglio 2014, n.17676 e 17680 del 6 agosto 20l4).
Tale posizione è stata successivamente ripresa e rafforzata da Cass. Civ, Sez. 5,
Sentenza n.2184 del 06/07/2015 (da ultimo pedissequamente ripresa da cass.
Civ. ordinanza n..1137 del 18.1.2017), secondo cui in tema di classamento catastale di immobili urbani, la motiuazione dell’atto, in conformità all’art. 3, comma 58, della legge 23 dicembre 1996, n, 662, non può limitarsi a contenere l’indicazione
della consistenza, della categoria e della classe attibuita dall’agengia del territorio bensì deve specificare, a, pena di nullità, ai sensi dell’art. 7, comma I, della bgge 27
Luglio 2000, n. 272, a qrnlz. presupposto ln modifica dcbbo essere associotd, se al non
aggiomamznto del classamento e, inuece, alla palese incongruità rispetto a fabbncati
similari, ed, ifine a questa seconda ipotesi, l’atto impositivo dovrà, inlicare la specifica individuazíone
di tali fabbncati, del loro classamento e delle caratteristíche, analoghe che li
renderebbero símilari all’unità immobíliare oggetto ài riclassanento, consentendo in tal
modo al contribuente il pieno esercizio del diritto di dtfesa nella successien fase contenzio.
sa conseguente alla richiesta di verifica dell’effettiua correttezza della riclassificazione”,
con la precisazione che “all’Ufficio non può consentirsi di rendere evidenti solo in giudizio gli immobili posti a comparazione sui quali ha basato la nuova “classificazione”, magarí a seconda delle difese del contibuente (Cass. sez. 6 n. 10489 del 2011; Cass. sez.
trib. n. 9629 del 2012), perché il diritto del contribuente risulterebbe irnmediabilnente
compromesso se si permettesse all’Amminístrdzíone di allegare solo in giudizio
i fatti fondanti la pretesa origiaria”.
La sentenza impugnata si è attenuta ai predetti principi, per nulla evincendosi,
dall’awiso impugnato, le ragioni che avevano condotto l’ufficio a disattendere la
“proposta” della parte contribuente, rendendo in tal modo impossibile la difesa
del predetto in giudizio.
Il recente mutamento giurisprudenziale giustifica la compensazione delle spese
di lite
P.Q.M.
Rigetta I’appello e compensa le spese’
Salerno, 28.9.17.

TESTAMENTO BIOLOGICO – AVVOCATURA IN MISSIONE Comunicazione riflessiva inviata ai Senatori della Repubblica italiana sulle disposizioni anticipate di fine vita.

Presidente Avv. Anna Egidia Catenaro
Segretario Avv. Luigi Ferrara

Ill.mi Senatori della Repubblica Italia
Ill.mPresidente e Componenti la Commissione Igiene e Sanità 
L’Associazione Avvocatura in Missione a seguito del Convegno tenutosi presso l’Aula dei Gruppi della Camera dei deputati il 26.9.2017 avente ad oggetto: Il consenso informato tra responsabilità del medico e l’autonomia decisionale del paziente nel disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati il 20 aprile 2017, intende sottoporre alle S.V.Ill.me le seguenti osservazioni e criticitá emerse su punti salienti della legge:

  • 1. Art 1 comma 5 sulla equiparazione tra trattamenti sanitari e nutrizione ed idratazione artificiale.

Tale equiparazione è censurabile sia dal punto di vista etico, sia dal punto di vista della deontologia del medico. Infatti, detti trattamenti sono deontologicamente ed eticamente dovuti come forma di sostegno vitale; negarle introduce forme di eutanasia, posto che esse hanno l’obiettivo di alleviare la sofferenza fino alla fine della vita. Inoltre, secondo il comune sentire, l’alimentazione e idratazione artificiale mediante naso-gastrico, in nessun caso può considerarsi una terapia, valga per tutti l’esempio del dare il latte al neonato con l’ausilio del biberon.
Catalogare la nutrizione artificiale come trattamento sanitario con possibilità di essere incluso nella DAT significa legalizzare uno strumento di morte, basti pensare al caso di un banale incidente stradale per cui vi è la necessità di alimentazione e idratazione artificiale per qualche giorno. Nel caso in cui il soggetto avesse precedentemente sottoscritto una Dat, dovrebbe essere lasciato morire di fame e di sete, anche nel caso in cui l’infortunio fisico si potesse risolvere con pochi giorni di ricovero ospedaliero.
La noma appare pertanto illogica, irrazionale, irragionevole,scientificamente opponibile e darebbe adito a svariatissimo contenzioso.

  • 2. L’art. 3 Introduce una discriminazione dei minori e diversamente abili.

Così come contemplato l’art.3 apre ad una grave discriminazione delle persone diversamente abili o di minori con handicap ed introduce un concetto: indegnità o inutilità del vivere nel caso in cui una persona non ha una ”vita piena” secondo standard di una società postmoderna.
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Vita ritenuta degna o vita da bruciare. Chi lo può stabilire?Un Tribunale? Un amministratore di sostegno, che non ha alcun legame di sangue con la persona che invece dovrebbe essere soggetto da tutelare?
Questo indirizzo fa pensare alla teoria dello “specismo” termine inventato dal filosofo Peter Singer, cioè “razzismo dell’umanità verso le altre creature”. Fautore della tesi dell’infanticidio dei bambini handicappati, infanticidio che sarebbe necessario nella logica costi/benefici (Quanti Charlie avremo anche in Italia? Se la scelta di vita o morte di una persona disabile è rimessa alla decisone di un amministratore di sostegno e giudice tutelare?)
Si vuole andare verso la selezione del genere umano? Lo scenario che si para davanti è la distruzione del favor vitae.
Inoltre vi è da aggiungere che vi sono tanti diversamente abili con problemi cognitivi, con quozienti d’intelligenza al di sotto della norma, che non sono dichiarati incapaci d’intendere e di volere, questi soggetti non possono avere e non hanno quella consapevolezza che consente loro di firmare il “consenso informato” che autorizza il medico a sospendere i trattamenti sanitari a garanzia della vita. Le capacità cognitive limitate impediscono ragionamenti logici astratti volti ad ipotizzare eventi futuri nella giusta conseguenzialità.
Già per un adulto normodotato è irragionevole fargli firmare una rinuncia ad interventi sanitari salva vita in condizioni lontane dall’evento reale, a maggior ragione per i moltissimi diversamente abili che non sono dichiarati “incapaci di intendere e di volere” eppure le loro facoltà mentali sono limitate, la loro autosufficienza è limitata, l’autonomia personale e sociale insufficienti rispetto alla norma.
In generale, i disabili con problemi di anosognosia di varia entità non possono avere la consapevolezza e firmare un consenso informato! Chi li tutelerebbe dal firmare un consenso che non sono in grado di comprendere appieno? Tale noma appare quindi ampiamente impugnabile per illegittimità per discriminazione delle persone diversamente abili.
3. Sull’art. 4 Disposizioni anticipate di trattamento. 
I lavori del convegno hanno evidenziato le conseguenze della genericità del consenso, laddove essa abbia ad oggetto un evento futuro, non determinato e non prevedibile aggravate nell’ipotesi di sopravvenienza di nuova cura.
La premessa di questa legge è che il paziente sappia chiaramente e in maniera specifica il trattamento che può essere intrapreso su di lui in caso di malattia,l’evoluzione della malattia, i rischi, le possibilità di guarigione ed anche le possibilità di sofferenza. Questo è il Consenso Informato.
Il Consenso invece riferito ex art. 4 ad un evento futuro e incerto e non determinato, non prevedibile né dal soggetto che esprime una Dat , né dallo Stato o Enti ospedalieri è affetto da inesistenza o quanto meno nullità insanabile per difetto di consenso specifico, nonché nullità per indeterminatezza dell’oggetto e per illiceità, come vedremo in appresso.
a) Sulla genericità. 
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Nel momento in cui si consente una disposizione anticipata di trattamento viene a mancare ab origine il consenso, in quanto la mancanza di attualità non consente una piena consapevolezza, né conoscenza di cosa possa accadere, nel tempo, nel campo medico scientifico, in quanto potrebbe accadere la scoperta di una cura nuova che potrebbe salvare la vita. Il consenso manca di una volontà specifica,è talmente generico che non se ne conosce il contenuto.
La genericità porta, ancora,alla nullità del consenso in quanto non sono previsti casi specifici, nè tabelle di riferimento su cui si dona il consenso. Mancando una tabella che tipicizzi i casi: in caso di incidente faccio così, in caso di tumore faccio così , in caso di raffreddore faccio cosi ci troviamo di fronte ad una legge generica ed una legge generica è una non legge; una legge che non tipicizza i casi e che lascia ampio margine di manovra e di discrezionalità è una non legge.
Si regolamenta tutto per non regolamentare il nulla perché è inficiato dalla inesistenza del consenso del paziente. Nessuna interpretazione autentica potrebbe aver luogo sul contenuto del consenso proprio perché generico.
Tutto questo aprirebbe ad una vasta rete di contenziosi e soprattutto a richieste risarcitorie nei confronti dello Stato e dei medici.
b) Sull’ indeterminatezza 
La Dat non prevedendo un oggetto certo e determinato è nullo per indeterminatezza dell’oggetto. Come qualsiasi altro contratto. (V. sentenza n. 19731 del 19 settembre 2014 si è chiarito che se il paziente non è stato messo al corrente dei rischi, il consenso informato non è valido”, il c.d. “consenso informato”, non è solo un obbligo o un dovere che attiene alla buona fede nella formazione del contratto,è elemento indispensabile per la validità del contratto stesso, che richiede un consenso consapevole del paziente, nonché elemento costitutivo della “protezione” garantita a livello costituzionale e dalle altre norme di diritto positivo, tese “ad aumentare le garanzie a favore dei consumatori del bene della salute”. Orientamento pressoché unanime, sancito anche dalle Sezioni Unite: Cass. SS. UU. n. 26973/2008, Cass. n. 20984/2012 e Cass. n. 19220/2013).
Inoltre sentenza Cass. n°00104 del 4 gennaio 2017 “Se l’oggetto non è determinabile ex sé, il compromesso è nullo” dell’oggetto è (ex artt. 1325, n. 3 e 1346, cod. civ.) rigorosamente necessaria nei negozi a forma vincolata. Di conseguenza la Dat è nulla in quanto manca dei requisiti essenziali (art. 1418)
c) Sull’illiceità dell’oggetto 
Inoltre vi è nullità del consenso per illiceità, nullità derivante dalla violazione di leggi ed obblighi imposti dalla legge.
La vita è un diritto inviolabile ed indisponibile per cui qualsiasi contratto o disposizione avente ad oggetto la disponibilità e la violazione della vita e della salute è illecito.
Se da un lato vi è l’Art. 32 della Cost. che prevede il riconoscimento costituzionale dell’impossibilità di somministrare al paziente trattamenti terapeutici contro la sua volontà, si deve tuttavia ricordare che quello della libertà di autodeterminarsi, non è affatto l’unico principio costituzionale, anzi, ve n’è uno più importante: quello dell’indisponibilità della vita, ovvero
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dell’impossibilità da parte di chicchessia di prestabilire il come e il quando della propria morte. Lo riconoscono senza difficoltà anche i più laici cultori del diritto, basti pensare all’ex Presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky il quale ebbe a riconoscere come il nostro ordinamento giuridico sia ”ispirato, nel suo complesso, al principio di indisponibilità della vita” (Repubblica 19/03/2007). Infatti il nostro ordinamento considera il bene “vita” bene indisponibile ex artt. 579 c.p., 580 c.p. e 5 c.c.
4. Obiezione di coscienza 
Ci troviamo di fronte ad una Dat che non prevede una mera dichiarazione su cui il paziente potrebbe poi colloquiare con il medico in caso di bisogno, ma trattasi, come si legge nel corpo della legge, di vera e propria “Disposizione”, questa risulta essere vincolante per medici ed infermieri. La legge nulla dice e quindi non è prevista alcuna forma di obiezione di coscienza. Pertanto medici e operatori sanitari, non potendo usufruire della possibilità di obiezione di coscienza, saranno costretti non solo ad abbandonare la loro scienza e la loro vocazione a salvare vite umane, ma anche la loro coscienza.
5. Sull’ Art.4 comma 6 Forma della dat e della revoca 
Si ravvisa una sproporzione tra la totale libertà di forma nella sottoscrizione della dat ( atto pubblico, scrittura privata) e la revoca del consenso per la quale si prevede un maggior rigore con la presenza di 2 testimoni.
Nel sottoscrivere la dat la legge non prevede alcuna protezione della persona, alcuna garanzia di esatta informazione prima della sottoscrizione, non è previsto alcun controllo o forma per ricevere una puntuale informazione mentre per la revoca è prevista una forma aggravata con la presenza di due testi, non contemplando la legge invece la difficoltà concreta che la persona avrà nell’ esprimere una revoca; infatti, se non ha nominato un fiduciario e sarà in condizioni gravi tanto da non potersi esprimere, sarà impossibile una dichiarazione di revoca.
Inoltre tale legge appare lontana da una visione reale. La paura della morte, durante l’arco della vita, viene percepita diversamente nei vari cicli d’età. I bambini e gli adolescenti conoscono la morte ma non hanno una cognizione di essa come un adulto oltre i 50 anni.
L’avvicinarsi alla senilità cambia la percezione della morte. Mentre i giovani, e anche gli adulti nello splendore della loro esistenza, non tengono in considerazione la morte, anzi spesso vivono momenti in modo “spericolato”, la persona oltre i 50 anni e l’anziano evitano di provocare eventi “pericolosi” visto che le forze fisiche sono meno prestanti.
Queste condizioni psicologiche legate ai vari aspetti dei cicli di vita dimostrano l’assurdità della proposta DAT, perché nessuno potrà mai prevedere lo stato d’animo nel momento della necessità di cure intensive che sono l’unica speranza di sopravvivenza.
Chi si trova di fronte alla morte vive una condizione unica, questo momento esistenziale estremo non è prevedibile, ipotizzabile e pertanto nessuna persona normodotata può ragionare con cognizione di causa su un evento del genere.
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Nessuna persona, a meno che non abbia tendenze al suicidio, sia in stato di depressione o stato alterato di coscienza, intenzionalmente sceglie la morte. L’istinto di vita spinge alla lotta, alla sopravvivenza e mai alla soppressione dell’essere.
Non si può ipotizzare ciò che non si conosce e per tanto nessuno può, a priori, essere consapevole sul tipo di trattamento sanitario da scegliere in situazioni estreme di vita o di morte!
6. Lo scenario che si para davanti è la distruzione del favor vitae. 
Lo Stato chiamato a tutelare i cittadini e la loro vita, che dovrebbe porre in essere strumenti di solidarietà e creare mezzi che possano aiutare i suoi cittadini a situazioni migliori di vita, mediante questa legge apre ad un omicidio di Stato perché prevede, per quanti verranno ritenuti inutili o indegni di vivere, per quanti depressi o non realizzati o privi di sostegni economici e familiari, una via d’uscita che è la morte. Se non con parole chiare ma dal contenuto della legge, appare evidente che si intende legiferare un’eutanasia passiva.
Si ravvisa quindi una violazione della Costituzione e norme di legge che tutelano il bene della vita e conflitti con norme penali.
Gli Artt. 575, 579, 580 c.p. vietano, infatti, ogni forma di eutanasia anche attraverso condotte omissive e ogni forma di aiuto al suicidio.
E’ eutanasia ogni “Azione o omissione, che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore” (Evangelium Vitae, 25/03/95 di Giovanni Paolo II)
Alla luce di quanto sopra si conclude:
Ill.mi Senatori, questa proposta di legge oltre ad essere contraria a quella legge naturale scritta nel cuore di ogni uomo risulta essere dal punto di vista giuridico irragionevole,illogica, violerebbe il principio costituzionale dell’indisponibilità della vita ed aprirebbe ad una serie infinita di casi giudiziari con richieste risarcitorie proprio a danno dello Stato; pertanto, si
Chiede 
che le S.V.Ill.me, nell’uso della diligenza e sapienza necessaria, NON Approvino la proposta dlegge n. 2801 approvato alla Camera dei Deputati il 20 aprile 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizione anticipate di trattamento”.
Con Osservanza,
Roma, lì 2 ottobre 2017
Associazione Avvocatura in Missione
Presidente
Avv. Anna Egidia Catenaro
Associazione Avvocatura in Missione
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DIRITTO ALLA VITA: bioetica – La verità del laico come morale nell’obbligo giuridico – Giov. 17. 14, 15, “Consacrali nella verità. La tua parola è verità”.

“Riflessioni leggendo il disegno di legge D.A.T. approvato dalla Camera dei deputati il 20 aprile 2017”

di Luigi Ferrara

Sommario: 1. I diritti derivanti dalla bioetica: a) premessa. 2. Segue: b) come diritti garantiti dalle carte internazionali e dai comitati etici – c) come diritti derivanti da principi morali sentiti dalla maggioranza dei consociati. 3. Morale e laicità – Cristo, il primo personaggio storico, raffinato legislatore riformatore della morale nella storia. 4. La novellata scelta legislativa interna, due limiti: a) principio di autodeterminazione del paziente e normazione penale; b) la scienza e coscienza dell’operatore sanitario coinvolto. 5. Segue: diritto positivo e posizioni giuridiche delle corti. 6. L’inviolabilità della vita nella sofferenza tra la norma morale e quella positiva.

 

  1. a) La duplice evoluzione sociale e sanitaria della medicina odierna comporta una inevitabile tensione fra contrapposte esigenze individuali e istituzionali. Oggi, emergono nuovi problemi di carattere etico, giuridico ed economico, per questo occorre una doverosa riflessione sulle cause che consentono la risoluzione di problemi giuridici sui diritti derivanti dalla bioetica nel quadro delle relazioni cittadino-sanità e ordinamento giuridico (1). Il malcontento di fondo che caratterizza sempre più spesso l’esperienza del cittadino quando viene a contatto con il mondo sanitario per problemi di una certa rilevanza, è più un problema bioetico che di natura organizzativa, economica o socio-psicologica. Non è da escludere che per molti sanitari vi è un deficit di conoscenza e di sensibilizzazione alle tematiche bioetiche basilari. In altre parole la scarsa consapevolezza della trama bioetica genera l’insoddisfazione del cittadino, il quale pur non conoscendo la natura bioetica di tali problemi, ne avverte l’importanza sotto la forma di mancato rispetto di suoi diritti, di suoi valori, di sue attese. Più precisamente il malcontento si può sostanziare in un mancato rispetto o promozione dei seguenti principi bioetici: principio di autonomia; principio di beneficenza, principio di giustizia.

Per intenderci, il principio di autonomia o (consenso informato), è attualmente non del tutto attuato, quasi sempre ridotto ad un semplice formalismo legale, non vi è, il più delle volte un’informazione veritiera che avviene all’interno di una buona comunicazione fra operatore sanitario e paziente/parente, ad es. la compilazione frettolosa e burocratica di vari moduli ispirati soprattutto a motivazioni cautelari sul piano medico-legale è la negazione stessa del principio di autonomia.

Il Principio di beneficenza, è individuabile nell’interpretazione che gli operatori sanitari danno dello stesso principio di beneficenza. Ovvero, è ancora inusuale che il sanitario si sforzi di comprendere qual è il bene di quel paziente in quella fase della malattia, come è raro che il paziente sia invogliato (dai sanitari e/o dai suoi cari) ad esplicitare il suo concetto di qualità della vita e i suoi bisogni. Infatti, nella migliore delle ipotesi, essi agiscono nella convinzione aprioristica di conoscere qual è il bene del paziente, senza però chiedere a lui quale è il suo bene e come lo dovrà coordinare con il primo dei diritti fondamentali, quello alla vita.

Il medico, per il suo dovere deontologico che lo vincola al bene del paziente, deve per primo spiegare al malato che la libertà di autodeterminazione non può mai rinnegare sé stessa, non può mai pensare di autodistrugge la vita e che nessuno può mai disporre l’eliminazione dell’altro, che la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse può diveniresolo un suo capriccio.

Naturalmente, questo dovere del medico sarà vanificato senza che il paziente possa collegarlo al successivo principio di giustizia.

Il Principio di giustizia, fa riferimento alla solidale ad un’equa distribuzione delle risorse sanitarie, economiche, umane ed organizzative che impongono scelte di investimento e di non abbandono del malato finale e non (2).

Una normazione che sviluppi tale organizzazione, è questa che deve essere posta in discussione in un paese che aspiri a migliorare i suoi diritti civili e non una normativa che disciplini come porre fine alla vita del sofferente.

  1. b) Se sul piano nazionale tali diritti sono ed erano disattesi solo recentemente vengono in semplice considerazione per l’attività di alcuni comitati etici. Nel diritto internazionale la nascita di questi diritti parte dagli anni sessanta quando emerge una realtà scandalosa. Uno studio esercitato negli USA nel 1958 (3), fa emergere il fatto che ben poche istituzioni avevano norme procedurali per lo svolgimento della ricerca e come la maggior parte dei centri riteneva indesiderabile qualsiasi forma di controllo, anche nella forma dell’autoregolamentazione. Solo 16 istituzioni, delle 52 risultavano aver risposto a questionari ed avevano moduli di “consenso informato”.

In Italia il dibattito negli anni 2000, era addirittura inesistente. Non è chiaro se ciò fosse dovuto al fatto che nel nostro paese non si svolgesse attività di ricerca in tal senso o alla circostanza per cui le violazioni di diritti restavano nascoste. Anche il quadro generale dei diritti individuali in campo biomedico non risultava molto incoraggiante. In una sentenza del 1967 (4), la corte di Cassazione affermava la fondamentale regola che il medico non poteva, senza il suo consenso, sottoporre il paziente ad alcun trattamento e fondava la tutela della vita e dell’incolumità del paziente sull’art. 13 della Costituzione. Subito dopo però la stessa corte escludeva che il consenso fosse necessario nei casi di condizioni necessitate ed urgenti, nelle quali l’intervento del medico era giustificato dalla norma penale sulla omissione di soccorso, e rimetteva comunque la valutazione della necessità di informare il paziente alla deontologia e quindi alla discrezionalità medica, con una ambiguità non dissimile da quella della giurisprudenza americana degli anni Cinquanta. Negli anni Ottanta continuano a emergere scandali sulle sperimentazioni.

Le organizzazioni mondiali cercano quindi di correre ai ripari, a Manila nel 1981, l’Organizzazione Mondiale della Sanità adottava linee guida per la ricerca sui soggetti umani, con un’attenzione particolare ai paesi in via di sviluppo; a Venezia (1983) venne approvata la terza versione della dichiarazione di Helsinki. Molti i problemi di effettiva applicazione. Le regole affermate erano tenue e non accompagnate da alcun reale controllo o sanzione legale tradizionale. Inoltre queste affermazioni generali continuavano ad essere ambigue nei principi in sé e nella loro pratica applicazione questi documenti senza eccezione mettevano chiaramente in luce il potenziale conflitto tra il ruolo di ricercatore e di terapeuta. E non pare che questa realtà possa essere efficacemente contrastata dai comitati etici mal tollerati.

Il Consiglio delle Organizzazioni Internazionali delle scienze mediche (CIOMS), Organismo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, emana nel 1992 direttive per la ricerca biomedica che pongono al centro proprio i problemi delle ricerche effettuate dalle grandi case farmaceutiche nei paesi in via di sviluppo, dove i bassi livelli culturali rendevano improponibile il modello del consenso informato (5).

Oggi in Europa i nuovi “Comitati etici indipendenti” non esprimono più solo un parere sulla bontà di un progetto di ricerca (il cosiddetto protocollo), hanno la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti coinvolti in uno studio clinico e di fornire pubblica garanzia di tale protezione. Devono valutare il protocollo di studio, ma anche l’idoneità degli sperimentatori, delle strutture, dei metodi e del materiale da impiegare per ottenere e documentare il consenso informato dei partecipanti allo studio e soprattutto, sono tenuti a controllare la sperimentazione nel suo svolgimento.

Esiste anche il Tribunale per i diritti del malato che nasce negli anni 80 costituito da volontari, nel 1995, il (TDM) ha realizzato un Protocollo dei 14 diritti fondamentali del malato che è stato anche recepito dal Ministero della Sanità (6).

La convenzione di Oviedo dedica numerose disposizioni alla attività di ricerca sugli uomini, in particolare nel cap. V. Tra le norme di portata nazionale si possono ricordare: il Codice di deontologia medica approvato dalla Federazione degli Ordini dei Medici, art. 46 Ricerca biomedica e sperimentazione sull’Uomo; art. 47 Sperimentazione clinica (7).

 

  1. c) Queste norme sono importanti per definire il quadro degli obblighi che i medici si sono autoimposti, ma hanno puro valore deontologico, così come i principi affermati nelle carte internazionali hanno puro valore dichiarativo. Il codice civile e il codice penale contengono norme non specifiche in materia, ma che costituiscono, insieme alle norme costituzionali, il passaggio essenziale per qualsiasi giudizio di responsabilità, anche se il contenuto e il profilo della condotta lesiva sia frutto di una ricostruzione delle disposizioni deboli che spetta al giudice ricostruire. Il giudice si trova, a svolgere un ruolo altamente creativo, che si esprimerà soprattutto nell’individuare o costruire la regola di condotta che il medico deve rispettare o che ha violata.

Il quadro è complesso, una particolarità del campo della sperimentazione biotecnologica sta nella eterogeneità delle fonti. Insomma, la sperimentazione dei farmaci o biotecnologie sull’uomo rappresenta una palestra formidabile: i giudici vengono chiamati a cimentarsi in una attività di creazione giurisprudenziale delle norme a partire da una ricognizione tra fonti di diversa natura e di diversi livelli, spesso sovranazionali e il più delle volte, le ultime, prive di effetti indotti nel nostro sistema per la mancanza di disposizioni legislative. Il che apre a una sorta di diritto giurisprudenziale transnazionale che può, a ragione, essere considerato la prospettiva futura in questo e in altri campi (8).

Attualmente molti passi avanti si sono fatti si pensi alla normativa sulla procreazione assistita che tutt’ora è fonte di contrasti etici ancora in discussione.

Per quanto concerne il presente lavoro, dopo questa breve ed ellittica introduzione, si pensa si possa passare a esaminare i principi naturali che fanno sia da cornice ma anche da contrasto alle scelte legislative attuali.

Tutte le fonti sovranazionali e nazionali prima elencate vengono ad esistenza per i continui bisogni dell’uomo a dover disciplinare (secondo un bene morale sentito dalla maggioranza dei consociati come comune), i casi della vita connessi alle nuove tecnologie che permettono all’ammalato terminale o agli uomini in genere, che cercano un trattamento sanitario, di poterle utilizzare legalmente secondo i propri ragionevoli bisogni.

 

  1. Una ricostruzione sistematica, quantomeno, sul rapporto cittadino-sanità e/o associazioni per i diritti del malato nonché delle strutture non può che partire da alcuni principi che concernono il concetto di giustizia secondo i valori fondamentali della nostra civiltà europea occidentale.

Giustizia, morale, etica, democrazia e laicità, sono termini tutti interconnessi, ove, coloro che si definiscono laici, il più delle volte usano questo aggettivo per cercare di separare dalle implicazioni religiose lo Stato moderno già a partire dalla rivoluzione francese.

Dando uno sguardo alla storia scopriamo che tutto è intrinsecamente connesso.

Molteplici sono le concezioni della giustizia elaborate dalla civiltà occidentale: essa è stata identificata all’origine (fonti giudaico-cristiane) con un ordine divino o naturale che assegna a ciascuno il suo ruolo, con una tecnica giuridica il cui scopo è garantire la convivenza pacifica, o con alcuni valori come l’utilità, l’eguaglianza sociale, la libertà ecc. diritti tutti derivanti dalla legge morale che è l’insieme dei principi generali che guidano il nostro comportamento e le nostre relazioni in uno all’Etica quest’ultima che è la pratica, la modalità della loro applicazione.

Quanto all’Etica è difficile dare una definizione perché essa non è solo morale ma soprattutto propensione a fare il bene, a preoccuparsi degli altri. Tali principi sono infatti tutti collegati alle fonti, prima della torha orale e scritta e poi dai vangeli, solo successivamente entrati nella nostra cultura, che oggi (vuoi per la c.d. globalizzazione, vuoi per il relativismo etico che sta aggredendo attualmente la nostra società), riceve sempre maggiori attacchi non solo da influenze culturali contrarie a quelle elencate prima ma anche da parte dei fautori dei diritti civili in senso “relativistico” non laico che ricercano il massimo della civiltà etica e sociale ma che in effetti finiscono per divenire incivili nella disperata ricerca di regolare i loro rapporti quando si tratta dei modi di concepire una famiglia, di stabilire i diritti delle coppie etero e omosessuali, le adozioni, la procreazione assistita ed altro secondo una morale sentita solo da una minoranza dei consociati che lo Stato deve si tutelare in quanto minoranza ma che deve in ogni caso evitare di urtare al contempo la sensibilità del senso etico della maggioranza soprattutto tenendo conto del concetto di democrazia.

Questo perché, non tutti i rapporti, solo perché legittimati da una parte del consenso popolare possono essere considerati morali.

In realtà, è bene precisare anche il concetto di democrazia, perché attualmente anche tale espressione si perde in molte massime della affannosa ricerca ad ottenere i diritti civili.

La democrazia oggi non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente, essa è un «ordinamento» e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere «morale» non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve per raggiungere i diritti civili.

Tanto precisato, occorre dirimere anche la contrapposizione che parte da coloro che si ritengono laici o finanche di quelli anticlericali e che dunque vedono l’affermazione dei diritti civili in un’ottica scevra da implicazione di varia natura religiosa.

Con specifico riferimento al “caso italiano”, la laicità fu affrontata con la sent. 12.4.1989, n. 203, la Corte costituzionale in tale occasione affermò l’esistenza nel nostro ordinamento della cd. laicità positiva, quella cioè della «non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»; la Corte costituzionale non accolse quella concezione della “laicità-neutralità”, considerata «l’espressione più propria della laicità» (9).

La scelta fu nel senso che il compito dello Stato laico è quello di regolare in maniera pacifica e civile le relazioni tra la maggioranza e le minoranze, proteggendo — di più: favorendo — il pluralismo e impedendone il soffocamento.

Occorre tener presente pure quella connessione di cui si è prima discusso, nel senso che, laicità non significa separazione fra morale (frutto di secoli di civiltà occidentale fatta dai richiamati principi) e politica. La moralità e che stabilisce ciò che è giusto nella politica che è laica.

Sul punto si può affermare che la laicità è si libertà per tutti; è rispetto dei diritti di ogni individuo e gruppo di seguire ciò che detta la coscienza, di praticare, organizzandosi, la propria filosofia, ideologia e religione senza violare i diritti altrui ma all’interno di tale coscienza vi deve essere sempre il riconoscimento reciproco della dignità di tutte le visioni del mondo non violente, del diritto di dibattito e confronto senza pretendere di acquisire posizioni di monopolio o di predominio in forza di privilegi che il potere politico dovrà proteggere.

Il tema è dunque il contenuto della coscienza riferito al valore della vita o ai valori nella vita!

Concetti questi dove ritorna, volenti o nolenti, il senso etico di propensione a fare il bene, a preoccuparsi degli altri! Si, proprio i concetti espressi da quella morale o cultura occidentale derivante dal personaggio storico più democratico del mondo, ovvero, Cristo, che fu il primo personaggio storico, raffinato legislatore riformatore della morale nella storia!

La storia antica ci narra il collegamento tra il diritto naturale previgente e come questo fosse violento rispetto a quello successivo al figlio dell’uomo, volenti o no, tutto il diritto positivo attuale è intriso di quella nuova etica che ne costituisce la c.d. pietra d’angolo.

Fu Cristo a mettere ordine nel pensiero del diritto naturale degli uomini.

Facendo un passo ancora più indietro partendo dai famosi Sofisti, il pensiero appariva caratterizzato dal relativismo e varie altre vedute, non solo nel campo gnoseologico, ma anche nell’etica (10), come eterogeneità di interpretazioni del «giusto per natura». Il sofista Callicle sosteneva la caducità delle leggi positive, frutto della volontà dei più deboli riuniti per soverchiare la naturale superiorità dei più forti, (11) e la loro contrarietà al diritto di natura, il quale postulava, sia fra gli animali sia fra gli Stati, che il più forte s’imponga sugli altri (12) consistendo in questo la «giustizia di natura». Il pensiero che si tramandava dall’età antica concepiva dunque il diritto naturale come un istinto naturale, identificantesi con la forza bruta. Questa concezione – che sarà ricorrente nella storia del pensiero dell’umanità veniva, subìta passivamente dai consociati che ad essa si adeguavano. (13) Emergeva, insomma, quello che oggi definiamo cultura di morte, quando si fa strada negli uomini il seme dell’egoismo nel suo insieme che tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica e che finisce per essere la libertà dei «più forti» contro i deboli destinati a soccombere (si vedrà qui di seguito il concetto ricorrere nel consenso previsto nel disegno di legge DAT).

Più avanti Antifonte, sosteneva che, «la maggior parte delle cose giuste secondo la legge sono in opposizione con la natura», perché per natura il singolo individuo perseguirebbe il suo giovamento personale, mentre la legge lo impedisce, essendo le norme di questa «convenzionali», ossia «frutto di un accordo», e derivando dal loro rispetto alla «giustizia». Dalla riflessione di Antifonte anche il diritto romano benchè gli stessi erano d’indole pratica e poco avvezzi alla meditazione filosofica, riuscirono a formulare, attraverso l’influenza greca, alcune dottrine, seppur non originali, incentrate sui temi del diritto, della giustizia, della società e dello Stato. Da un profondo sentimento religioso è infatti segnato il pensiero di Lucio Anneo Seneca, il quale postula un’ideale fratellanza fra tutti gli uomini, perché – come si legge nelle Lettere morali a Lucilio (14) e poi quella del Corpus iuriscivilis è possibile rinvenire, accanto alla definizione della legge naturale proposta da Ulpiano, 170 – 228 d.c. e quella datane dal giureconsulto Paolo III sec. d.c., secondo cui il diritto naturale è «quello che è sempre giusto e buono» (15), seguita più in la da Giustiniano 482 – 565 d.c. che inizia a codificare il nuovo insegnamento.

Prima della conversione al cristianesimo, Paolo di Tarso fu, da quanto risulta dalla Lettera ai Filippesi, «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge».

Tenuto conto della svalutazione paolina della legge, la quale è superata nell’amore per il Cristo, è possibile dar l’interpretazione corretta di un passo della Lettera ai Romani (2, 14-15), in cui, fin dall’antichità, fu vista l’accettazione dell’Apostolo Paolo della dottrina del diritto naturale, favorendo grandemente l’introduzione di tale teoria entro la morale cristiana. (16)

Sorvolando tutto il pensiero medievale da Sant. Agostino ed altri si arriva a Pietro Piovani (17), che parla di ambiguità del concetto del diritto naturale grazie ad una convenuta non chiarezza di definizione, e nella impossibilità di individuare i precisi sensi di «diritto naturale» e «giusnaturalismo» in relazione alle condizioni di vita che li hanno determinati.

Un dato accomuna dunque questa ricerca, ovvero, quello di una morale che racchiude sempre e comunque la propensione al bene comune come riformata dal personaggio storico Gesù.

 

  1. Senza essere clericale ma semplicemente giurista di educazione critica e scientifica che accetta la morale così come derivata allora occorre chiedersi: “posso preoccuparmi in senso etico del prossimo che per condizione disagiata che sia mi chiede di porgli fine alla vita attraverso le predisposte norme del D.L. recante “norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari?” Il disegno di legge citato fu oggetto di discussione alla Camera il 13 marzo 2017, ma l’aula andò deserta e la discussione fu rimandata, insomma, diverse spinte trasversali influenzarono i deputati per una maggiore riflessione sul testo che pare proprio nascondere una legalizzazione dell’omicidio del consenziente, con tutte le annesse problematiche etiche delle diverse parti politiche.

Il testo base adottato prevede che il medico sia vincolato dalle dichiarazioni anticipate (magari rese molto tempo prima) di un paziente, o di un suo “fiduciario”, anche quando in queste c’è la richiesta di sospensione della nutrizione e dell’idratazione. In altre parole, il medico può essere obbligato a lasciar morire il malato di fame e di sete. Il testo introduce a tutti gli effetti l’eutanasia omissiva.

In virtù di un mal compreso “diritto all’autodeterminazione”, si permettono atti che invece di realizzare l’autodeterminazione piuttosto la distruggono: non c’è libertà senza vita. In nome di un assurdo “diritto a morire” si introduce il conseguente “obbligo di uccidere”. Atti giustamente puniti dal codice penale vengono mutati in atti pietosi e dovuti. Il malato si trasforma in peso sociale, titolare di un diritto alla vita non più indisponibile.

 

  1. a) Dalla lettura del previsto art. 1, co. 3 del DAT in discussione, appare chiaro che l’odierno legislatore incide subito sulla c.d. autodeterminazione del paziente.

Ma quali sono i limiti?

In Italia è corretto sostenere che l’autodeterminazione in ambito sanitario è già oggetto di tutela ma certamente questa tutela non ha carattere assoluto non può superare i limiti imposti da norme positive quali ad es. quelle che vietano di stipulare patti contrari alla legge, norma prevista nel c.c. o di ogni altra norma che limitano i singoli comportamenti individuali, ovvero, l’autodeterminazione trova comunque il limite nelle norme che vietano di disporre del proprio corpo e della propria vita quando si arrivi finanche ai casi di fine vita.

Qui soccorrono sempre i medesimi principi democratici ed etici richiamati.

Vediamo cosa indica il diritto positivo.

Nella pratica, in carenza di norme, i giudici di Cassazione in alcuni casi hanno cercato di guardare anche a decisioni straniere al fine di scegliere il giusto valore etico di un comune sentire, si pensi ai richiami delle decisioni straniere come quelle di Francia, Stati Uniti, o Gran Bretagna, particolarmente eloquenti le parole utilizzate nel già citato caso di Tony Bland: «the principle of the sanctity of life, whichitis the concern of the state, and the judiciaryasone of the arms of the state (…) isnot an absoluteone. It does not compel a medical practitioner on pain of criminal sanctions to treat a patient, who will die if he does not, contrary to the express wishes of the patient, insomma non si deve neppure arrivare ad un mantenimento in vita che costituisca di per sé un elemento prevalente rispetto alla volontà individuale (18).

Un secondo elemento da codificare in senso etico e su cui spesso si discute in ambito di decisioni di fine vita riguarda la configurabilità e le conseguenze del cd. accanimento terapeutico per i trattamenti futili, sproporzionati, incapaci di dare alcun beneficio (elementi che in realtà ne escludono il carattere “terapeutico”), è chiaro come tutto dipenda dal valore che si darebbe al grado terminale del paziente che per chi scrive dovrebbe essere pari al 100%.

Per alcuni, ma non per altri, ad esempio, il mantenimento in vita, anche in uno stato vegetativo irreversibile potrà costituire un beneficio in sé e nessun trattamento di ventilazione meccanica o di nutrizione o idratazione artificiale potrà mai costituire un accanimento. Per alcuni, ma non per altri è possibile e opportuno dare una definizione oggettiva di tale concetto, oppure farne dipendere l’individuazione sulla base di ciò che il singolo paziente coinvolto intenderà per beneficio e futilità.

In questa sede, le ragioni e le basi dell’interruzione di un trattamento sanitario dipendono non dalla valutazione tecnica che di essi si dà in termini di utilità, ma dalla scelta della persona, la quale ha diritto di rifiutare cure che pure si qualifichino come efficaci ed adeguate.

Ma il diritto al rifiuto che prevede il DAT all’art. 1 può diventare diritto al suicidio al fine di far valere una scriminante al reato assistenza al suicidio o legalizzazione dell’omicidio del consenziente?

Vi è questo limite all’autodeterminazione del paziente?

Olanda, Belgio, Svizzera, Oregon, testimoniano come l’autodeterminazione nel terminare la propria vita in maniera ritenuta soggettivamente dignitosa non venga mai contemplata e tutelata in forma assoluta.

In Italia il dibattito rimane acceso oltre che per gli aspetti legati alla parte del diritto penale anche e soprattutto per le critiche mosse dalla morale di valore cattolica come sopra già esposta.

In termini generali il DAT prevede il rifiuto (eutanasia omissiva) e non quella attiva (assistenza al suicidio e omicidio del consenziente).

Si tratta di una distinzione che si può basare sull’intenzione del paziente (di morire per l’eutanasia attiva, di non essere oggetto di un trattamento sanitario non voluto per il diritto al rifiuto), sul proposito del medico (a interrompere un trattamento a cui alla persona gli è stato attribuito il diritto di rifiutare), sul risultato della “liberazione” del paziente nel rifiuto, sul nesso di causalità (la morte del soggetto sarebbe causata dalla malattia che, non più trattata, farebbe il suo corso, conducendo il paziente ad una morte per cause naturali).

Tuttavia, alcune riflessioni basate sull’esame di casi concreti possono contribuire a rendere meno certo il confine dell’autodeterminazione tra richiesta attiva o omissiva.

Vediamo attualmente il caso di eutanasia sul minore in Belgio, il paese è finora il primo ed unico ad aver approvato, nel 2014, una legge che lo consente.

La vittima aveva 17 anni e, “soffriva di dolori fisici insopportabili. I dottori hanno usato dei sedativi per indurre il coma come parte del processo”. (19)

La legge belga del 2014 consente ai genitori di scegliere la “dolce morte” per i propri figli malati terminali dopo averne fatto richiesta al medico curante, che deve sottoporre il caso al Dipartimento di controllo federale e valutazione dell’eutanasia e riceverne l’autorizzazione. La legge specifica che anche il minore deve esprimere una forma di consenso.

Le reazioni in Italia.  Sul caso è intervenuta da Scienza e vita, l’associazione che collabora in modo organico con la Cei per i temi della bioetica. “Il diritto all’eutanasia del bambino, altro non significa che attribuire ad un adulto il potere di vita e di morte su un minorenne” e se si ammette l’eutanasia, il prossimo passo sarà l’assassinio dei disabili?

Le critiche si rifanno a timori fondati che si sono avuti nella storia come ad es. nelle pratiche eugenetiche naziste sotto cui cadde anche un cugino di Papa Benedetto XVI.

Potrebbe indurre a pensare così la storia di Nancy Fitzmaurice, una bambina britannica di 12 anni morta il 21 agosto 2014, che respirava da sola e non stava morendo, ma era nata cieca con idrocefalia, meningite e setticemia, non poteva camminare, parlare, mangiare o bere e trascorreva ore gridando in agonia. La dichiarazione della madre: “a un certo punto soffriva e gridava continuamente. Mi uccideva l’idea di non poter far nulla per aiutarla; tutto quello che volevo era che mia figlia morisse con dignità mentre le tenevo la mano”. (20)

Od ancora il caso del 24 settembre 2000, di Vincent Humbert, 19 anni, francese, aveva subito un terribile incidente stradale che, dopo nove mesi di coma, lo lasciava tetraplegico, muto e quasi cieco, ma drammaticamente lucido.

In preda a continue, indicibili sofferenze, Vincent detta a un’infermiera – sfruttando l’unica parte di sé che riesce a muovere, il pollice destro – una lettera aperta indirizzata a Chirac, in cui manifesta per la prima volta pubblicamente la volontà di morire: “A Lei, che ha il diritto di concedere la grazia, io chiedo il diritto di morire”. Ma Chirac non può aiutarlo, anzi, lo incita a vivere. A Vincent non resta che pregare sua madre, di donargli la più grande prova d’amore: procurargli la morte. Due giorni più tardi, una équipe medica diretta dal dottor Chaussoy decide di staccare il respiratore e inietta del cloruro di potassio, un farmaco mortale, a Vincent. È il 26 settembre del 2003. La madre e il medico vengono imputati per somministrazione di sostanze tossiche e per avvelenamento con premeditazione. Solo il 28 febbraio del 2006 il giudice Anne Morvant, su raccomandazione degli stessi procuratori, assolverà la madre di Humbert e il dottor Chaussoy, affermando che i due hanno agito in circostanze estreme, il che “li esonera da qualsiasi responsabilità penale”. (21)

Al di la della dichiarazione sconvolgente che definiva la più grande prova d’amore, se per amore si può credere di arrivare a dare la morte? La Corte europea per i diritti umani negava a Diane Pretty, donna londinese di 43 anni, il diritto all’eutanasia. La Corte non era mai stata chiamata prima a decidere su questo tema e da questa sentenza, nel caso fosse stata a favore della Pretty, si aspettava una nuova linea a livello europeo nei confronti dell’eutanasia. Diane Pretty ha espresso in una conferenza stampa tutta la sua delusione per la sentenza. Parlando attraverso un sintetizzatore elettronico di voce disse: “La legge mi ha tolto tutti i miei diritti”. Diane Pretty, che di mente era ancora lucidissima, non sopravviverà a lungo, quella che l’attese fu una morte terribile: per soffocamento. Si rivolse perciò, prima ai giudici inglesi che per tre volte respinsero la richiesta, e poi quelli europei, di potersi suicidare con l’aiuto del marito. (22)

Diane Pretty invoca gli articoli 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti umani che vietano “trattamenti degradanti e disumani”, chiama in causa le leggi contro le discriminazioni e sostiene che il diritto a una vita dignitosa includa anche il diritto a una morte accettabile. Ma la Corte di Strasburgo, nella sua sentenza, affronta punto per punto le cinque presunte violazioni che Diane Pretty ha ipotizzato nel suo ricorso contro il governo del Regno Unito. In particolare, rispetto all’articolo 2 della Convenzione – ispirato alla salvaguardia del diritto alla vita – la Corte conclude che questo “non può essere interpretato come tale da conferire il diritto diametralmente opposto”, cioè quello a morire. Anche nelle altre quattro questioni sollevate da Diane Pretty per presunte violazioni degli articoli 3, 8, 9 e 14 della Convenzione, i magistrati decisero che il Regno Unito non fosse daritenere” colpevole”. “La Corte – recita il verdetto – non può non comprendere la paura della donna: andare incontro a una morte angosciante e dolorosa, senza la possibilità di porre fine alla propria vita. Da questo, però, non può derivare un diritto a morire, né per mano di una terza persona né con l’assistenza dell’autorità pubblica”.

Tony Nicklinson, ingegnere che viveva nella cittadina di Melksham e affetto dalla “sindrome locked-in”, aveva chiesto fin dal 2010 di essere ucciso dalla moglie o da un medico, liberandoli da ogni responsabilità. Il 16 agosto 2012 la Corte suprema inglese ha respinto la sua richiesta, non potendo approvare un caso di eutanasia. (23)

La Corte d’appello riconobbe che la legge inglese interferiva con il diritto dei pazienti all’autodeterminazione ma anche che il divieto di suicidio assistito ed eutanasia è una «interferenza proporzionale» giustificata e che trattandosi di «questioni profondamente sensibili circa la natura della nostra società» spetta al Parlamento decidere su di esse.

La sentenza chiuse le porte al suicidio assistito e all’eutanasia nel Regno Unito, anche se una seconda decisione della stessa Corte lascia aperto uno spiraglio. Con una maggioranza risicata, come scrive Avvenire, i giudici hanno accolto il ricorso di una terza persona, «indicando la necessità di stabilire nuove linee guida per i medici e le infermiere che assistono un paziente che va all’estero per ricorrere all’eutanasia». (24)

Per quanto si possa obiettare, da parte dei c.d. fautori dei diritti civili in uno Stato libero, gli ordinamenti di cultura occidentale si rifanno a quel senso morale ed etico del bene e dell’amore del prossimo che non può recedere al valore della libertà del più forte contro quella del più debole (le encicliche che seguiranno ne spiegano il senso).

In riferimento ai casi citati, può ritenersi come l’intenzione del paziente, il proposito dei medici e il risultato della condotta possano considerarsi complessivamente analoghi alla disciplina del consenso informato diretto all’autodeterminazione di cui al disegno di legge italiano.

Ciò che rimane fermo è la distizione della causa del decesso: se le condizioni del paziente “permettevano” di essere lasciato morire per cause naturali, o per quelle che richiedono un aiuto esterno.

Pure a tal proposito, tuttavia, emerge una responsabilità per omissione e, comunque, l’intervento richiesto, al fine di interrompere la ventilazione meccanica o le terapie, riduce, si configurano come azioni mediante omissione o omissione mediante azione.

La dottrina internazionale in ogni caso tende a considerare leciti, sulla base della dottrina del doppio effetto, anche alcune ipotesi di sedazione terminale in cui la morte potrebbe essere anticipata dall’impiego dei farmaci (causa esterna, quindi), pare che i motivi che stanno alla base della distinzione della disciplina fra eutanasia attiva e rifiuto del trattamento possano in alcuni casi limite non ritenersi inattaccabili, basando le ragioni della distinzione fra un divieto penale ed un diritto fondamentale su un elemento accidentale come le caratteristiche della malattia cui si è affetti, le quali determinano la necessità o meno di un sostegno artificiale (interrompibile).

Tutto ciò porta a tre ordini di considerazioni: il ruolo e la percezione del medico come professionista che cura e non che uccide o aiuta a uccidersi, i timori per le possibili derive legate all’argomento della china scivolosa (c.d. slipperyslope, ovvero, “l’eutanasia è pericolosa. Si comincia col dare la morte a quelli che la chiedono. Poi a quelli che presumibilmente la chiederebbero. Poi a quelli che dovrebbero chiederla. Poi a quelli che la meritano.”).

In ogni caso il limite dovrebbe essere sempre costituito sulla indisponibilità del bene vita intesa in termini di sacralità e che solo in una fase di malattia allo stadio terminale tale limite potrebbe interrompersi.

 

  1. b) Un secondo limite all’autodeterminazione del paziente che voglia disporre delle fasi finali della propria vita deriva dalla componente che potremo ricondurre alla scienza e coscienza dell’operatore sanitario coinvolto.

Nei casi in cui la decisione del paziente richieda la partecipazione di tale figura professionale, riemerge quel processo di condivisione che abbiamo visto contraddistinguere i presupposti del consenso. In quanto scelta morale, il rifiuto di un trattamento vitale, ad esempio, coinvolgerà la struttura – appunto – morale di tutti i soggetti coinvolti, quindi anche del medico chiamato ad interrompere le cure iniziate e poi non più volute. E chi riterrà contraria alle proprie convinzioni la partecipazione ad un’attività cui comunque segue la morte del paziente potrà esimersi dall’intervenire senza subire alcuna conseguenza discriminatoria.

Le basi normative di tale facoltà – cui in questa sede non si può che dedicare un cenno – si possono trovare, in termini analogici, negli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione secondo quanto ritenuto dalla consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di obiezione di coscienza al servizio militare, oltre che alle ipotesi legislativamente previste in ambito di interruzione volontaria della gravidanza (art. 9 della legge 194 del 1978) o di sperimentazione animale (legge 413 del 1993). In termini specifici, inoltre, va ricordato il codice di deontologia medica, il cui art. 22 espressamente dispone che  il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, non può che essere in conflitto con l’art. 1, co. 7, del disegno di legge DAT.

 

  1. La posizione delle corti italiane non è molto dissimile dalla linea sopra marcata.

La Corte di Cassazione con la sentenza n° 21748/07, intervenuta sul caso Englaro (25) esclude che possa essere richiesto al giudice di ordinare l’interruzione del trattamento vitale: «una pretesa di tal fatta non è configurabile di fronte ad un trattamento sanitario, come quello di specie, che, in sé, non costituisce oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, e che rappresenta, piuttosto, un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del soffio vitale».

La Corte di Cassazione, così, adotta una scelta di sentire comune analoga a quella adottata dalla High Court of Justice nel caso citato di Ms B. Anche in tale pronuncia, infatti, la giudice condannò l’amministrazione responsabile della struttura ospedaliera (il Trust) per non aver adempiuto al «duty to do somethingeffective to resolve the dilemma» sorto fra il coinvolgimento emotivo dei medici curanti e la volontà della paziente, astenendosi dall’imporre ai primi alcun obbligo di intervento specifico. (26)

E quanto la dimensione della scienza e coscienza del professionista possa costituire un limite all’autodeterminazione individuale nelle fasi finali della vita si desume anche da un altro caso britannico, del tutto atipico, in cui un paziente affetto da malattia spino-cerebrale degenerativa, Leslie Burke, aveva chiesto ai propri medici di non interrompere la nutrizione e l’idratazione artificiali anche nel caso in cui le sue condizioni si fossero aggravate al punto da condurli, sulla scorta delle linee guide prodotte dal General Medical Council, a considerare tali trattamenti un futile accanimento. Nel giudizio che ne seguì, la Court of Appeal riconobbe l’autonomia dei medici nel considerare una cura inutile e, quindi, nell’interromperla, stante il divieto di praticare condotte di cd. accanimento terapeutico.

Tali spunti, sono in un certo qual modo confluiti nel DAT al nostro esame con la differenza che il legislatore italiano cerca principalmente la legittimazione nell’autodeterminazione del malato dopo l’informazione legata alle considerazioni di scienza e coscienza dei medici coinvolti in modo da non porre alcun limite all’autodeterminazione del paziente che mentre il limite che si basa sulla scienza non pare essere aggirabile nel momento in cui una persona richieda un trattamento che si sia dimostrato futile o inefficace, quello che si basa sulla coscienza risulta superabile di fronte ad una volontà del paziente di rifiutare una cura astrattamente efficace in virtù dell’obbligo anche in capo all’obiettore di attivarsi per trovare altri professionisti che ritengano compatibile con la propria coscienza adoperarsi per interrompere il trattamento.

Un ulteriore limite si stabilisce all’art. 3 (disposizioni anticipate di trattamento “DAT”) nel momento in cui la persona non sia in grado di rappresentare in forma diretta ed attuale la propria scelta, infatti, per superare la possibilità di una decisione che si basi sulla volontà della persona coinvolta, si arriva a cancellarne la cifra morale, potrebbe anche ritenere sussistere una prevalenza incondizionata del principio di precauzione, secondo cui la vita dovrebbe essere sempre artificialmente mantenuta anche se ridotta allo stato vegetativo o viceversa di dover dichiarare l‘autorizzazione a sospendere i trattamenti sanitari.

A fronte di quella che diventerebbe una presunzione juris et de jure di favore incondizionato per il mantenimento in vita per un tempo indefinito, una possibilità per recuperare dignità e potenzialità morali è quella di tentare, dove possibile, la ricostruzione della volontà del soggetto divenuto incapace si contrappone la possibile eutanasia.

In ogni caso il DAT azzera la struttura logica e prudente della giurisprudenza che si era mossa su tre passaggi: esistenza del diritto al rifiuto, tutela della dignità e dei diritti dell’incapace considerato persona in senso pieno, possibilità di ricostruirne la volontà. Il tutto, venato dalle cautele dettate dal principio di precauzione, cui si collega la prevalenza del mantenimento in vita in presenza di dubbi sulla attendibilità della rappresentazione del rifiuto, per non parlare delle implicazioni dei minori sull’idea di una universale eguaglianza tra gli esseri umani quanto l’altrettanto universale dovere di solidarietà nei confronti di coloro che, tra essi, sono i soggetti più fragili o minori.

Il DAT insomma racchiude in parte alcuni principi di giurisprudenza che sulla scorta di quella statunitense, tedesca e britannica, anche lquella italiana, arriva avvicinandosi al caso Cruzan risolto dalla Corte Suprema degli Stati uniti nel 1990, a decidere con particolare cautela che: «la funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi: quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione – tenendo conto della volontà espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso – sia incompatibile con la rappresentazione di sé sulla quale egli aveva costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della persona».

Oltre alle criticità tipiche di ogni attività di ricostruzione di volontà presunte, si inserisce in questo contesto la questione del carattere vincolante o meno di eventuali direttive o dichiarazioni espresse in forma anticipata. Fino al DAT in commento, l’ordinamento italiano si poneva in una situazione particolare: il principio della “considerazione” in cui il medico avrebbe dovuto tenere eventuali direttive anticipate è previsto tanto nel codice di deontologia medica (art. 38, terzo comma) quanto nella citata, non ancora ratificata Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina (art. 9), ma non risulta espresso in alcuna legge vigente. A fronte di tale quadro, la Corte di Cassazione riserva un ruolo assai rilevante alle dichiarazioni precedentemente manifestate.

Per converso la posizione che si assume, come all’inizio esternata, va nella direzione opposta al consenso di porre fine alla vita proprio per eccessiva astrattezza non ci convince la prospettiva di rendere vincolanti attestati quali i «do not resuscitate orders» statunitensi o documenti rintracciabili anche in internet che, a prescindere dalla situazione concreta, riportano la volontà generica di rifiutare trattamenti di sostegno vitale, ciò genera equivoci, siamo per una scelta legislativa non mascherata come quella del DAT ma che va nel solo senso dell’eutanasia omissiva, o meglio, dell’astensione terapeutica che, come abbiamo detto, consiste nel rifiutare il cosiddetto “accanimento terapeutico”; ma solo ed esclusivamente per le patologie irreversibili al 100%. In questi casi crediamo sia giusto anche per un Cristiano laico poter rifiutare che macchine per la respirazione e sonde gastriche prolunghino giorni di inutile sofferenza.

Contrariamente si rischierebbe di ripetere gli errori compiuti dal nazionalsocilismo che era nient’altro che un’applicazione della biologia». Ovvero la messa in pratica, su scala politica, economica e finanche sanitaria, del principio che esistono vite “degne” e altre che invece sono “indegne” di essere vissute. Tale lapidaria ammissione del gerarca nazista Rudolf Hess, risalente al 1934, poco dopo la presa del potere da parte di Hitler, illumina la prassi dell’eutanasia di Stato nel Terzo Reich, sancita dalla celebre “Operazione T4”, chiamata così dall’ufficio al numero 4 di Tiergartenstrasse, nel quartiere di Charlottenburg, a due passi da Berlino, dove il Führer sancì – siamo nel 1939 – l’eliminazione fisica degli infermi e dei malati di mente da parte della burocrazia statale germanica.

Fino a porre un taglio agli “sprechi” Secondo alcune stime – quelle ad esempio dello storico austriaco Florian Zehethofer – l’intera operazione T4 comportò l’uccisione di 70 persone al giorno per 3 anni, per un totale di 60-70 mila vittime. (27)

A voler trarre delle conclusioni, può essere valida la decisione di rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico», ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza «rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi». Si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte.

Nella medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette «cure palliative», destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano.

Il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l’assunzione del «bene comune» come fine e criterio regolativo della vita politica.

La risposta giusta alla sofferenza alla fine della vita deve solo essere un’attenzione amorevole, di accompagnamento verso la morte – in particolare anche con l’aiuto della medicina palliativa – e non un “attivo o passivo aiuto a morire”.

Il tema è sempre il contenuto della coscienza riferito al valore della vita o ai valori nella vita!

Questo perché la vita è sempre ed in ogni caso inviolabile fino all’ultimo soffio vitale.

La Chiesa cattolica italiana è favorevole, e anzi ha sollecitato, la promulgazione di una legge che riconosca valore legale alle dichiarazioni su i trattamenti terapeutici per i malati terminali, soprattutto consentendo di evitare inutili accanimenti terapeutici. D’altro canto il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della CEI, ha più volte espresso la preoccupazione che cìò non rappresenti in qualche modo una forma mascherata di eutanasia. Di conseguenza non è ammessa la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione, che è l’argomento principale su cui sono divise le posizioni e conseguentemente i vari disegni di legge presentati in parlamento, in quanto trattamento di sostegno vitale e non terapia sanitaria. Per la CEI resta centrale il ruolo del medico, che, pur in presenza di dichiarazioni inequivocabili, ha il compito di valutare secondo scienza e coscienza i trattamenti da porre in atto. Bagnasco così sintetizza l’auspicio della Chiesa cattolica italiana: che in questo delicato passaggio − mentre si evitano inutili forme di accanimento terapeutico − non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano.”

 

6. Il collegamento tra la norma morale e quella positiva, in materia di vita, sofferenza e speranza è confermata nella ricostruzione operata nella enciclica Evangelium Vitae (28) e nella lettera apostolica salvifici-doloris di Giovanni Paolo II.

Vediamo alcune constatazioni.

La prima è quella sulla realtà del dolore, il suo carattere indesiderabile è universale: l’uomo lo rifiuta e, nello stesso tempo, sa di non essere in grado di evitarlo.

Da parte di molti laici si obietta che proprio la religione dovrebbe rendersi conto che è spregevole vedere soffrire una persona ammalata in stato irreversibile, e che i precetti cristiani per un non credente valgono meno dell’edizione di topolino.

La risposta che mi fu data qualche tempo fa denota proprio quel senso di onnipotenza che pervade l’uomo di oggi (posso fare nella vita ciò che desidero nei limiti della legge e per cui mi dovete una legge che mi permetta di essere libero di porre anche fine alla vita se soffro) si è proprio il concetto del relativismo etico, io sono colui che può fare tutto ciò che vuole.

San Giovanni Paolo II ci ricorda nella sua lettera il carattere della sofferenza che arriva finanche all’auspicio della speranza.

Si riportano qui alcuni passi salienti al fine di spiegare quando i diritti dell’uomo possono subire una compressione.

Da queste riflessioni emerge l’esempio del passaggio della morale nella norma positiva penale.

Il Santo parte dalla raffigurazione di Abele, ucciso dal suo fratello geloso, è la definisce la prima immagine di Gesù nell’Antico Testamento. Richiama poi la figura di Giuseppe, venduto dai suoi fratelli.

“ … La negazione dei diritti dell’uomo nella pratica risiede in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell’altro.

Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei «più forti» contro i deboli destinati a soccombere.

Proprio in questo senso si può interpretare la risposta di Caino alla domanda del Signore «Dov’è Abele, tuo fratello?»: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4, 9).

C’è un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà rinnega sé stessa, si autodistrugge e si dispone all’eliminazione dell’altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità. …”. 

Ci soccorre qui la richiesta del ragazzo francese rivolto alla madre se mi ami fammi morire ma questa può risultare lecita?

Qui soccorre alla mente anche il caso Fapo il giovane DJ suicidatosi in Svizzera.

Al di là dell’età di una persona il Pontefice prosegue: “… La domanda posta da un uomo che non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà «sacra» affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla sua «venerazione» perché finito in un letto di ospedale e dove non vede più altra via d’uscita se non quella di non poter più essere parte attiva di una vita all’insegna della non sofferenza allora pone la domanda. La persona che con grandi sacrifici gli sta accanto e che soffre nel vederlo in quello stato e che pure soffre per il proprio stato capisce che la vita è semplicemente divenuta «una cosa», che l’altro rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile. Queste, da esperienze originarie che chiedono di essere «vissute», diventano cose che si pretende semplicemente di «possedere» o di «rifiutare».

Ma Dio non può lasciare impunito il delitto: dal suolo su cui è stato versato, il sangue dell’ucciso esige che Egli faccia giustizia (cf. Gn 37, 26; Is 26, 21; Ez 24, 7-8).

Dio, tuttavia, sempre misericordioso anche quando punisce, «impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato» (Gn 4, 15): gli dà, dunque, un contrassegno, che ha lo scopo non di condannarlo all’esecrazione degli altri uomini, ma di proteggerlo e difenderlo da quanti vorranno ucciderlo fosse anche per vendicare la morte di Abele. Neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. …”.

Dunque, dinanzi a tale immensa sensibilità quanto vale il possesso o il rifiuto di una vita.

“ … Le radici della contraddizione che intercorrono tra la solenne affermazione dei diritti dell’uomo e la loro tragica negazione nella pratica risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell’altro. Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei «più forti» contro i deboli destinati a soccombere.

Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti – Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?”«(Mt 19, 16). Gesù rispose: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 17). Il Maestro parla della vita eterna, ossia della partecipazione alla vita stessa di Dio. A questa vita si giunge attraverso l’osservanza dei comandamenti del Signore, compreso dunque il comandamento «non uccidere». Proprio questo è il primo precetto del Decalogo che Gesù ricorda al giovane che gli chiede quali comandamenti debba osservare: «Gesù rispose: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare…”«(Mt 19, 18).

Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39). All’altro capo dell’esistenza, l’uomo si trova posto di fronte al mistero della morte. Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l’esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove. Infatti, quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte, considerata «assurda» se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una «liberazione rivendicata» quando l’esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un’ulteriore più acuta sofferenza.

In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell’eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine «dolcemente» alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della «cultura di morte», che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate”.

E qui che con la mente è possibile ritornare al pericolo del concetto del nazzifascismo.

Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli «maggioranze» di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto «legge naturale» iscritta nel cuore dell’uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi.

Allora, soccorre la parola del figlio dell’uomo quando pone la parabola dei vignaioli assassini che ripudiano e infine uccidono in una visione dell’uomo e della sua dignità personale, diretta a sopprimere l’Erede accontentandosi di una spiritualità senza Dio!

La sofferenza umana, insomma, costituisce uno specifico « mondo » che coesiste insieme all’uomo. L’uno e l’altro interrogativo sono difficili, quando l’uomo li pone all’uomo, gli uomini agli uomini, come anche quando l’uomo li pone a Dio. Così nella Lettera Apostolica Salvifici Doloris di Papa Giovanni Paolo II. “ … L’uomo, infatti, non pone questo interrogativo al mondo, benché molte volte la sofferenza gli provenga da esso, ma lo pone a Dio come al Creatore e al Signore del mondo.

Nel Libro di Giobbe l’interrogativo ha trovato la sua espressione più viva.

E’ nota la storia di questo uomo giusto, il quale senza nessuna colpa da parte sua viene provato da innumerevoli sofferenze. Egli perde i beni, i figli e le figlie, ed infine viene egli stesso colpito da una grave malattia.

La figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale nell’Antico Testamento. La Rivelazione, parola di Dio stesso, pone con tutta franchezza il problema della sofferenza dell’uomo innocente: la sofferenza senza colpa. Giobbe non è stato punito, non vi erano le basi per infliggergli una pena, anche se è stato sottoposto ad una durissima prova. Dall’introduzione del Libro risulta che Dio permise questa prova per provocazione di Satana. Questi, infatti, aveva contestato davanti al Signore la giustizia di Giobbe: « Forse che Giobbe teme Dio per nulla? … Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani, e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti benedirà in faccia »(25). E se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrarne la giustizia. La sofferenza ha carattere di prova.

Libro di Giobbe non è l’ultima parola della Rivelazione su questo tema. In un certo modo esso è un annuncio della passione di Cristo.

La sofferenza deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto.

Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.

L’uomo « muore », quando perde la vita eterna.

Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie con la sua sofferenza quell’interrogativo, che — posto molte volte dagli uomini — è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal Libro di Giobbe.

E questa è l’ultima, sintetica parola di questo insegnamento: « la parola della Croce », come dirà un giorno San Paolo.

Questa « parola della Croce » riempie di una realtà definitiva l’immagine dell’antica profezia. Molti luoghi, molti discorsi durante l’insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin dall’inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la salvezza del mondo.

Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani. Le parole: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! »

L’umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all’amore… 

I testi del Nuovo Testamento esprimono in molti punti questo concetto.

Nella seconda Lettera ai Corinzi l’Apostolo Paolo scrive: « Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dappertutto nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale …, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù ».

La sofferenza, infatti, è sempre una prova — a volte una prova alquanto dura —, alla quale viene sottoposta l’umanità.

Tuttavia, le esperienze dell’Apostolo, partecipe delle sofferenze di Cristo, vanno ancora oltre. Nella Lettera ai Colossesi leggiamo le parole, che costituiscono quasi l’ultima tappa dell’itinerario spirituale in relazione alla sofferenza. San Paolo scrive: « Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa ». (78) Ed egli in un’altra Lettera interroga i suoi destinatari: « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?

Il Redentore stesso ha scritto questo Vangelo dapprima con la propria sofferenza assunta per amore, affinché l’uomo « non muoia, ma abbia la vita eterna ».

Al Vangelo della sofferenza appartiene anche — ed in modo organico — la parabola del buon Samaritano. Mediante questa parabola Cristo volle dare risposta alla domanda: « chi è il mio prossimo?

La parabola del buon Samaritano appartiene al Vangelo della sofferenza. Essa indica, infatti, quale debba essere il rapporto di ciascuno di noi verso il prossimo sofferente. Non ci è lecito « passare oltre » con indifferenza, ma dobbiamo « fermarci » accanto a lui. Buon Samaritano è ogni uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità.

Tuttavia, il buon Samaritano della parabola di Cristo non si ferma alla sola commozione e compassione. Queste diventano per lui uno stimolo alle azioni che mirano a portare aiuto all’uomo ferito. Buon Samaritano è, dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di qualunque natura essa sia …”.

La speranza alla fine salva Giobbe.

 

NOTE

 

  1. Orsi, A. Bianchi, Cittadino insoddisfatto, sanità in trasformazione: una possibile lettura bioetica del problema in www. Zodig. It/bio/som 98-1.htm, del 18.01.02.
  2. Orsi, A. Bianchi, op. loc. cit..
  3. www faswebnetit A. Santorusso, in Consiglio Superiore della Magistratura, incontro di studio su Biologia, biotecnologia e diritto (Roma, 8-10 Novembre 2001), del 18.01.02. Lo studio partiva dal Law-Medicine research di Boston tra il 1958 e il 1962 su 86 dipartimenti di medicina. Nel 1972 il New York Tmes dà notizia in prima pagina delle sperimentazioni in corso sin dal 1932, su ignari uomini neri malati di sifilide e che ignari sul tipo di terapia loro somministrata non ricevevano invece alcuna cura onde osservare la storia naturale della sifilide non trattata.
  4. Corte di Cassazione 25 luglio 1967, n. 1950, Archivio Responsabilità Civile, 1968, 907.
  5. Santorusso, op. loc. cit., attualmente si continua a parlare di “cavie umane” a proposito dei numerosi annunci su giornali e siti Internet in cui vengono ricercati soggetti sieropositivi o donne con intensa attività sessuale o bambini sovrappeso e altro disposti, dietro compenso, a sottoporsi a sperimentazione di farmaci i più diversi.
  6. In www.Piazza salute.it, guida al benessere, carta dei diritti del malato, del 18.01.02.
  7. Orsi, Le novità del nuovo codice di deontologia medica viste con l’occhio dell’anestesista rianimatore in www. Zodig. It/bio/som 98-1.htm, del 18.01.02.
  8. Santorusso, , op. loc. cit.
  9. Principio di laicita dello Stato Diritto on line (2014), Enciclopedia Treccani, in http://www.treccani.it/enciclopedia/principio-di-laicita-dello-stato_(Diritto-on-line)/.
  10. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto. I. Antichità e medioevo, a cura di Carla Faralli, 7ª ed., Editori Laterza, 2005, ISBN978-88-420-6239-4.
  11. Platone, Gorgia, a cura di Giuseppe Zanetto, 7ª ed., Biblioteca Universale Rizzoli, 2010, ISBN978-88-17-16991-2.
  12. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto. I. Antichità e medioevo, a cura di Carla Faralli, 7ª ed., Editori Laterza, 2005, ISBN978-88-420-6239-4.
  13. Hermann DielsWalther Kranz, I presocratici, a cura di Giovanni Reale, 1ª ed., Bompiani, 2006, ISBN88-452-5740-1.
  14. Lucio Anneo Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cura di Fernando Solinas, Mondadori, 2007, ISBN978-88-04-56990-9.
  15. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto. I. Antichità e medioevo, a cura di Carla Faralli, 7ª ed., Editori Laterza, 2005, ISBN978-88-420-6239-4.
  16. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto. I. Antichità e medioevo, a cura di Carla Faralli, 7ª ed., Editori Laterza, 2005, ISBN978-88-420-6239-4.
  17. Pietro Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna, a cura di Fulvio Tessitore, Liguori Editore, 2000 [1961], ISBN978-88-207-3094-9.
  18. Carlo Casonato su Quaderni costituzionali, 3, 2008.
  19. In http://www.ilgazzettino.it/esteri/eutanasia_belgio_minore_primo_caso_mondo-1970947.html.
  20. In http://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=544f3a898c9f3.
  21. In http://www.corriere.it/salute/cards/eutanasia-battaglie-legali-casi-piu-celebri/2003-vincent-humbert.shtml.
  22. In http://www.repubblica.it/online/esteri/eutanasia/eutanasia/eutanasia.html.
  23. in https://www.theguardian.com/uk/tony-nicklinson.
  24. Caso Nicklinson: Corte inglese nega il diritto all’eutanasia Tempi.itFollowus: @Tempi_it on Twitter | it on Facebook.
  25. In https://www.google.it/?gws_rd=ssl#q=cassazione+con+la+sentenza+intervenuta+sul+caso+englaro&*.
  26. Carlo Casonato su Quaderni costituzionali, 3, 2008, pag. 14.
  27. in http://www.tempi.it/leutanasia-di-un-ratzinger#.WMseFTvhDIU, 2008 di Lorenzo Fazzini che parla delle pratiche eugenetiche naziste sotto cui cadde anche un cugino di Benedetto XVI.
  28. LETTERA APOSTOLICA SALVIFICI DOLORIS In http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/hlthwork/documents/hf_jp-ii_apl_11021984_salvifici-doloris_it.html.

 

Edilizia, Piano Casa, distanze legali tra edifici e tra pareti finestrate.Vincoli di natura espropriativa. Chiostrina. Restitutio in integrum – inammissibile. Di Luigi Ferrara.

T.A.R. Campania Salerno , sez. I, 13/04/2017, n. 758.

Pubblicato il 13/04/2017
N. 00758/2017 REG.PROV.COLL.
N. 02857/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2857 del 2015, proposto da:
XXX, rappresentati e difesi dagli avvocati Luigi Ferrara e Carmen Battipaglia, legalmente domiciliati in Salerno, XXX;
contro
Comune di Sarno, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Emanuela Vitolo, legalmente domiciliato in Salerno, XXX;
nei confronti di
XXX, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Marcello Fortunato, con domicilio eletto in Salerno, XXX;
per l’annullamento
del permesso di costruire n. 1826 del 4.3.2014, in variante al permesso di costruire n. 1253 del 9.5.2008, già oggetto di permesso di costruire in variante n. 1531 del 22.3.2011, rilasciato alla società XXX e relativo alla costruzione di un fabbricato alla via XXX, nonché dei permessi di costruire n. 1253 del 9.5.2008 e n. 1531 del 22.3.2011, nonché per l’accertamento del diritto dei ricorrenti alla restitutio in integrum

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Sarno in Persona e della XXX;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 aprile 2017 il dott. Ezio Fedullo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
I ricorrenti, proprietari iure hereditatis (a seguito della scomparsa della madre XXX, avvenuta nel mese di marzo del 2015) di immobili confinanti con quelli oggetto degli impugnati titoli edilizi, deducono che, acquisita copia del permesso di costruire in variante n. 1826 del 4.3.2014, a seguito dell’accesso agli atti eseguito in data 7.10.2015, hanno constatato che esso, a differenza dei progetti originariamente assentiti, prevede la realizzazione di due fabbricati dei quali il primo, contrassegnato con la lettera “A”, è posto in quota parte in aderenza ed in quota parte a soli 3,5 metri dall’edificio di loro proprietà, oltre a prevedere l’aumento delle unità abitative e la creazione di un nuovo corpo di fabbrica che sconfina su aree con destinazione “F”.
Essendo risultato inutile il tentativo di indurre l’Amministrazione comunale ad intervenire in autotutela sui citati titoli edilizi, e lamentando la violazione delle distanze legali che essi consentono, mediante le censure formulate in ricorso deducono quanto segue, a fondamento della proposta domanda di annullamento: 1) la volumetria prevista, pari a mc. 4.943 e suddivisa nei due corpi di fabbrica “A” (composto da otto unità abitative) e “B” (composto da dodici unità abitative), raggiunta attraverso la capacità edificatoria espressa dal lotto fondiario in base all’indice di edificabilità fondiaria ed il ricorso alle premialità volumetriche di cui all’art. 4 l.r. n. 19/2009 e di quella di cui all’art. 12 d.lvo n. 28/2001, è di gran lunga superiore a quella legittimamente edificabile, in quanto la reale superficie fondiaria esistente è pari a mq. 893, in luogo dei mq. 1.309 indicati in progetto, essendosi il progettista basato sui grafici in allegato alla variante del 1976 del Programma di Fabbricazione, che erroneamente riportano una minore superficie destinata a standards, mentre la reale consistenza della superficie fondiaria si ricava dalla Tav. 3 del P.d.F. allegato alla delibera di G.R. n. 2799/249 del 12.6.1973, che riporta la fascia destinata a standards anche sul lato nord-est del lotto di intervento della parte controinteressata: sul punto, lo stesso permesso di costruire impugnato indica che parte del lotto ricade in zona con linea rossa del P.d.F. (soggetta a vincolo di inedificabilità) ed al fine di giustificare la deroga a tale vincolo richiama le prescrizioni della sentenza (ma in realtà ordinanza) n. 939/2010, la quale tuttavia accertava soltanto che il diverso fabbricato oggetto del ricorso n. 1420/2010 non risultava graficamente interessato, circostanza non ricorrente nel caso in esame; 2) inoltre, l’art. 4 l.r. n. 19/2009, in base al quale viene prevista una volumetria premiale di mc. 785, non è applicabile alla fattispecie in esame, essendo il suo campo applicativo circoscritto agli edifici esistenti ma non ancora ultimati, oltre che accatastati o in fase di accatastamento, laddove che alla data di presentazione dell’istanza di p.d.c. non esisteva alcun edificio né alcun accatastamento dello stesso: l’interpretazione proposta, aggiunge la parte ricorrente, è confermata dalla circolare della Regione Campania n. 0774995 del 23.10.2012; 3) in violazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, il futuro fabbricato “B” è posizionato a distanza inferiore a m. 10 dal fabbricato insistente sul lato ovest del lotto e presenta pareti finestrate, mentre il fabbricato “A” è posto in quota parte in aderenza ed in quota parte a soli 3,5 metri dall’edificio di proprietà dei ricorrenti; 4) premesso che il lotto di intervento è classificato dal vigente P.d.F. parte in zona in zona “B1”, parte in zona “F”, parte in zona per “Attrezzature” e parte in zona “Strada di Piano”, poiché il vincolo di natura espropriativa gravante sulle ultime tre è decaduto (essendo trascorsi più di cinque anni dalla data di approvazione del Piano di cui al D.P.G.R.C. n. 4631 del 14.12.1977), le stesse sono soggette al regime normativo di cui all’art. 9 d.P.R. n. 380/2001, ricadendo l’intera area di intervento all’interno del centro abitato: ebbene, sulla strada di piano vengono previste in progetto sia la rampa che la strada di accesso ai garages interrati, sia urbanizzazioni private che verde privato, nella zona F vengono previste sia la strada di accesso ai garages privati posti al livello -1, sia verde privato che parcheggi a raso privati a livello 0, mentre sulla zona per Attrezzature vengono previsti garages privati al livello -1 e verde privato a livello 0, il tutto in contrasto con le tipologie di intervento previste dall’art. 9, comma 1, lett. a) d.P.R. n. 380/20001; inoltre, per effetto della realizzazione dell’intervento de quo, si avrebbe una compressione delle aree destinate a zona “B1”, zona “F”, zona per “Attrezzature” e zona “Strada di Piano”, con gravi ripercussioni sul dimensionamento dello strumento di pianificazione; 5) la prevista realizzazione di un chiostro contrasta con l’art. 29, comma 4, del R.E., ai sensi del quale “…negli spazi interni definiti come “chiostrine” possono affacciarsi soltanto disimpegni verticali o orizzontali e locali igienici. Nelle “chiostrine” non vi possono essere né sporgenze, né rientranze. Tutti gli spazi interni devono essere accessibili dai locali di uso comune”: infatti, la parete finestrata dei ricorrenti è ad uso affaccio, negli spazi interni della “chiostrina” vi sono sporgenze e rientranze, inoltre un lato della stessa non risulta nemmeno chiuso e dalla linea di confine aperta non è rispettata la regolare distanza che dal progetto risulta essere di soli m. 4, anziché il minimo assoluto di m. 5, mentre, poiché l’altezza del fabbricato da realizzare è di m. 12,24, la distanza dovrebbe essere di m. 6,12, come previsto dal R.E..
Al ricorso è allegata la relazione tecnica a firma dell’ing. XXX, che ribadisce e precisa i profili di illegittimità evidenziati con il ricorso introduttivo.
Il Comune di Sarno si oppone all’accoglimento del ricorso, allegando a confutazione delle doglianze attoree la relazione del Responsabile del Settore “Ambiente e Territorio” prot. n. 39438 del 15.12.2015 ed evidenziando anche, dal punto di vista processuale, la tardività dell’impugnazione, risultando i lavori strutturali completati in ogni loro parte.
Anche la società controinteressata si oppone, mediante il suo difensore, all’accoglimento del ricorso, del quale eccepisce preliminarmente la tardività, rilevando che i lavori sono in stato di avanzatissima realizzazione e che viene contestata la stessa realizzazione dell’intervento sulla scorta della pretesa sussistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta e della pretesa violazione delle distanze legali, con la conseguente decorrenza del termine per l’impugnazione dall’inizio dei lavori (idoneo a consentire la percezione da parte dell’eventuale interessato dell’effetto lesivo); viene inoltre evidenziato che la madre dei ricorrenti, sig.ra XXX, della quale gli stessi si dichiarano aventi causa, in data 9.2.2010 ha acquisito copia (peraltro per il tramite del figlio sig. XXX, suo delegato ed odierno ricorrente) del permesso di costruire n. 1253/2008, né potrebbe ritenersi che la successione a titolo universale dei ricorrenti sia idonea a rimetterli in termini ai fini della proposizione di una impugnazione dalla quale la dante causa è decaduta; nel merito, la parte controinteressata osserva che il riconoscimento dei benefici di cui al cd. Piano Casa trova fondamento nel disposto dell’art. 4, in relazione all’art. 2, comma 1, lett. e), l.r. n. 19/2009, nonché nel disposto dell’art. 4, comma 2, lett. g) l.r. cit.; quanto alla censura secondo la quale sarebbe stata assentita una volumetria superiore a quella realizzabile, poiché nel calcolo della superficie fondiaria sarebbe stata inclusa un’area ricadente in zona rossa, ovvero caratterizzata da un vincolo di inedificabilità assoluta, viene osservato che i tratti individuati dalla Regione Campania in sede di approvazione del P.d.F. e contrassegnati con la linea rossa, nell’ambito dei quali vige il suddetto divieto, sono disomogenei e discontinui, come accertato dal T.A.R. con l’ordinanza n. 939/2010, per cui la superficie fondiaria è stata calcolata solo in relazione alle aree che non si trovano in corrispondenza della linea rossa, ovvero non interessate dal vincolo; quanto alla lamentata violazione delle distanze, viene dedotto che fa difetto il presupposto (correlato alla presenza di fabbricati con pareti finestrate) per l’applicazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, atteso che l’immobile dei ricorrenti non presenta finestre ma mere luci, come risulta dall’accertamento tecnico preventivo eseguito nel 2009; analogamente, i muri dei fabbricati assentiti con i titoli impugnati sono ciechi.
Alle deduzioni delle parti resistenti, a cominciare dalle rispettive eccezione di irricevibilità, hanno replicato i difensori della parte ricorrente con la memoria del 18.2.2016, con la quale è stato evidenziato che alla data del 31.12.2014, come si evincerebbe dalle fotografie allegate, il terreno sul quale insiste attualmente il rustico del fabbricato “B” non presentava alcun inizio di opere edili né alcuno scavo, il quale è iniziato, relativamente al medesimo fabbricato “B”, solo nel giugno 2015, mentre per il fabbricato “A” non esiste tuttora nemmeno lo scavo; la previsione del fabbricato “A”, e la relativa lesività, è stata percepita solo mediante l’eseguito accesso agli atti, atteso che il p.d.c. del 2008 prevedeva una volumetria di gran lunga inferiore a quella assentita con la variante del 2014.
La parte ricorrente ha replicato alle resistenti con la memoria del 18.2.2016 e del 4.3.2016.
Con le note del 15.3.2016, la società resistente ha evidenziato che i ricorrenti, alla data di presentazione dell’istanza di accesso, erano a conoscenza anche del permesso di costruire n. 1826 del 4.3.2014, siccome espressamente menzionato nella medesima istanza.
Con ordinanza n. 1012 dell’11.4.2016, il Tribunale ha disposto l’espletamento di una c.t.u., di cui ha incaricato l’ing. Maria Cristina Feola, al quale è stato richiesto di dire:
1) se, prima ancora di acquisire copia del permesso di costruire n. 1826/2014 mediante accesso agli atti comunali, i ricorrenti hanno potuto percepire con ragionevole certezza, in relazione all’andamento ed allo stato di avanzamento dei lavori, la portata lesiva dell’intervento ed i profili di asserita illegittimità che inficerebbero i predetti titoli edilizi (con riguardo, essenzialmente, allo sforamento dei limiti volumetrici ed alla violazione delle distanze predicati in ricorso), precisando in quale data, anche approssimativamente determinata, essi hanno maturato la suddetta percezione;
2) se la volumetria prevista sia conforme a quella legittimamente edificabile, tenuto conto, alla luce delle censure di parte ricorrente, della superficie fondiaria disponibile in relazione alla superficie destinata a standards dallo strumento urbanistico, anche in considerazione dell’ordinanza di questo Tribunale n. 939/2010, precisando, in caso contrario, a quale dei titoli emanati dal Comune di Sarno sia imputabile il riscontrato sforamento della volumetria legittimamente realizzabile;
3) se sussistano i presupposti applicativi dell’art. 4 l.r. n. 19/2009, anche alla luce della circolare della Regione Campania n. 0774995 del 23.10.2012, precisando, in caso contrario, a quale dei suddetti titoli edilizi sia imputabile l’eventuale ricorso alla relativa premialità volumetrica in carenza dei relativi presupposti di legge;
4) se l’intervento edilizio in questione rispetti l’art. 9 d.m. n. 1444/1968, con particolare riferimento alle distanza da rispettare dai fabbricati di proprietà dei ricorrenti, tenendo anche conto delle risultanze dell’accertamento tecnico preventivo richiamato negli atti di giudizio;
5) se l’intervento oggetto di giudizio sia conforme alla disciplina urbanistica vigente per le zone bianche ex art. 9 d.P.R. n. 380/2001, ove e nella misura in cui ne sussistano i presupposti applicativi;
6) se la prevista realizzazione di una “chiostrina” sia conforme al disposto dell’art. 29 del R.E. e se la stessa sia rispettosa delle prescritte distanze dagli immobili di parte ricorrente.
L’elaborato peritale, con i relativi allegati, è stato depositato dal c.t.u. in data 14.2.2017.
Al deposito ha fatto seguito lo scambio di ulteriori memorie delle parti della controversia ed il ricorso infine, all’esito dell’udienza di discussione, è stato trattenuto dal collegio per la decisione di merito.
DIRITTO
Deve premettersi che la domanda di annullamento proposta con il ricorso in esame ha ad oggetto, in via principale, il p.d.c. n. 1826 del 4.3.2014, con il quale è stata assentita la realizzazione, a favore della parte controinteressata, di un intervento edilizio costituito da due corpi di fabbrica per un totale di n. 20 unità abitative.
Il suindicato titolo edilizio, deve altresì precisarsi, risulta rilasciato in variante al permesso di costruire n. 1253 del 9.5.2008, a sua volta già interessato da un progetto di variante, assentito con permesso di costruire n. 1531 del 22.3.2011.
Deve altresì precisarsi, sempre in via preliminare, che le censure formulate dai ricorrenti, proprietari di un edificio confinante, al fine di conseguire l’annullamento dei suindicati titoli edilizi, così come la connotazione lesiva di questi ultimi per i loro interessi, si correlano, da un lato, alla violazione delle distanze legali che il progetto assentito concretizzerebbe, dall’altro lato, all’eccesso di volumetria che questo permetterebbe di realizzare rispetto ai limiti di legge.
Sulla scorta di tali sintetiche premesse, devono subito esaminarsi le eccezioni di irricevibilità del ricorso formulate dalle parti resistenti, sul presupposto della asserita tardiva impugnazione dei predetti titoli edilizi.
In proposito, deve immediatamente escludersi che possa attribuirsi rilievo, al fine di sancire l’intempestività del gravame, all’accesso eseguito dalla dante causa degli odierni ricorrenti, sig.ra XXX, in data 8.3.2010, con riferimento alla documentazione relativa al p.d.c. n. 1253/2008.
Invero, sebbene, come evidenziato dal c.t.u., quest’ultimo permesso assentisse la realizzazione di una palazzina in aderenza al fabbricato edificato sul confine, attualmente di proprietà dei ricorrenti,
con effetti per la proprietà confinante ancor più “penalizzanti” rispetto a quelli derivanti dal progetto in variante (che prevede, sul lato interessato, una “chiostrina”), deve osservarsi che il permesso di costruire in variante costituisce a tutti gli effetti (compresi quelli di carattere processuale) un provvedimento “nuovo”, quantomeno per gli aspetti progettuali modificati ed innovati rispetto alla loro precedente configurazione, i cui effetti abilitativi (e, di riflesso, quelli pregiudizievoli per gli interessi dei ricorrenti) derivano dalla integrazione del titolo originario con quello rilasciato in variante: ciò a prescindere dalla qualificazione formalmente appropriata del p.d.c. n. 1826/2014, come permesso di costruire in variante ovvero come permesso di costruire ex novo.
Consegue da tale rilievo, anche sulla scorta dei principi generali in tema di successione nel tempo tra provvedimenti amministrativi, che sebbene il soggetto pregiudicato, il quale non abbia tempestivamente impugnato il titolo edilizio originario, non potrebbe rimettere in discussione quegli aspetti progettuali che non abbiano subito alcuna modifica in sede di variante, egli conserva il potere di impugnazione relativamente ai profili modificati, ove forieri di una rinnovata lesione per i suoi interessi, dovendo quelli originari, sebbene ugualmente (o anche più) pregiudizievoli di quelli introdotti dalla variante, ritenersi definitivamente superati per effetto del nuovo disegno edilizio approvato dalla P.A. in sostituzione del precedente.
Né potrebbe sostenersi che l’eventualmente annullamento del titolo edilizio in variante non recherebbe alcun concreto vantaggio al soggetto leso, in quanto resterebbe intatta la fonte della lesione rappresentata dal titolo originario (che si è detto, nella specie, contenere previsioni progettuali ancor più gravose per i proprietari dell’edificio confinante): deve infatti sottolinearsi che la parte del progetto modificata, laddove prevedeva la costruzione in aderenza, è stata espunta dal programma edilizio della società controinteressata, ormai consacrato nel progetto assentito in variante (integrato, per gli aspetti non modificati, con quello originario), risultando di conseguenza attualmente priva di effetti lesivi per la parte ricorrente ed appartenendo ai meri antefatti storico-procedimentali del p.d.c. n. 1826/2014.
Deve peraltro aggiungersi che la lesività per i ricorrenti del permesso di costruire impugnato si correla, oltre che al profilo relativo alle distanze, alla dimensione volumetrica dello stesso, il quale, come rilevato dal c.t.u., ha subito un consistente incremento nella transizione dal progetto originario a quello assentito in variante (passando da mc. 2.645,05 a mc. 4.949,61, questi ultimi comprensivi delle premialità volumetriche, rispettivamente del 25% e del 5%, ex l.r. n. 19/2009 e d.lvo n. 28/2011): invero, come si evince dall’istanza di p.d.c. in variante dell’11.9.2012, il nuovo progetto edilizio scaturisce da una “rimodulazione dell’intervento…in funzione di una maggiore estensione della zona edificabile”, sulla scorta di una riconsiderazione (in chiave ampliativa) della parte del lotto non interessata dal vincolo di inedificabilità, calibrata nel progetto originario in funzione delle previsioni del P.d.F. del 1973 (quindi quantificata in mq. 893) e nel progetto in variante sulla scorta della ritenuta contrazione della zona inedificabile operata dalla variante dello strumento urbanistico comunale intervenuta nel 1976 (e così quantificata nella maggiore misura di mq. 1.039).
Il titolo in variante quindi, da questo punto di vista, si connota, rispetto al titolo edilizio originario, di una lesività “nuova”, del tutto estranea al permesso originario, e che quindi ha fatto sorgere in capo ai ricorrenti un interesse al ricorso che non sussisteva a fronte dell’originario provvedimento abilitativo.
Resta fermo, in ogni caso, che il dispositivo di annullamento, fondato su vizi attinenti agli aspetti progettuali “nuovi” assentiti in variante, non potrà che riguardare anche i titoli originari, in considerazione del carattere unitario ed inscindibile del progetto edilizio, quale derivante dalla integrazione di tutti i titoli edilizi rilasciati con riferimento alla medesima iniziativa edificatoria.
Ugualmente priva di significato, agli effetti della dimostrazione della tardività del ricorso, è la documentazione fotografica dimostrativa dello stato dei lavori alla data del 31.12.2014 ed alla data dell’11.7.2015, rispettivamente riprodotte a pag. 83 ed a pag. 84 della relazione di c.t.u..
Quanto alla prima, infatti, essa raffigura esclusivamente la paratia di pali a confine con la proprietà del ricorrenti, in mancanza di opere in elevazione.
Ebbene, il suddetto elemento strutturale, benché indicativo di un effettivo inizio dei lavori ma in mancanza di qualsivoglia elemento di carattere temporale atto a collocarne esattamente nel tempo la realizzazione, non presenta alcun nesso evidente con il progetto edilizio assentito con il permesso di costruire (in variante) n. 1826/2014, sul quale come si è detto si appunta attualmente l’interesse al ricorso dei ricorrenti: esso infatti potrebbe essere riconducibile al progetto originario, che come si è detto prevedeva la realizzazione di un lato dell’erigendo fabbricato in adiacenza a quello di proprietà dei ricorrenti, concorrendo quindi a dimostrare la conoscenza in capo a questi ultimi di un provvedimento abilitativo che, per quanto già detto, deve considerarsi privo di attuale lesività in ordine al profilo delle distanze.
Ciò vale a maggior ragione ove ci ritenga, come affermato dal c.t.u., che la suddetta palificata è stata realizzata nell’anno 2012, rafforzando la tesi della non utilizzabilità della stessa come elemento informativo da cui i ricorrenti (rectius, la dante causa degli stessi) avrebbero desumere l’esistenza del nuovo (e definitivamente lesivo) titolo edilizio, rilasciato solo nel 2014.
A non diverse conclusioni deve pervenirsi con riguardo alla fotografia dell’11.7.2015, la quale rappresenta l’avvenuta esecuzione delle travi di fondazione della palazzina “B”.
Invero, in primo luogo, come evidenziato anche dal c.t.u., le doglianze attoree concernenti le distanze si appuntano sul (diverso) fabbricato “A”.
Inoltre, quanto all’aspetto volumetrico, le fondazioni dell’edificio possono consentire la percezione della relativa estensione, in termini di superficie, non certo della relativa consistenza volumetrica, la quale è desumibile solo dalle opere in elevazione (una volta compiutamente realizzate).
Quanto poi alla deduzione di parte controinteressata, secondo cui, lamentando la parte ricorrente l’esecuzione dell’intervento su area soggetta ad un vincolo di inedificabilità assoluta, la stessa avrebbe potuto percepire la lesività dello stesso fin dall’inizio dei lavori, deve rilevarsi, a dimostrazione della sua infondatezza, che l’esistenza del vincolo suindicato è allegata dalla parte ricorrente in chiave strumentale alla affermazione della erroneità della superficie fondiaria assunta dal progettista a base del calcolo volumetrico (comprensivo dell’incremento premiale), per cui, appuntandosi la lesione lamentata su tale ultimo aspetto progettuale, non resta che ribadire quanto in precedenza osservato in ordine alla insufficienza delle travi di fondazioni per desumere la portata volumetrica dell’intervento.
Infondata infime, al fine di dimostrare la conoscenza in capo ai ricorrenti del p.d.c. n. 1826/2014 già alla data della presentazione dell’istanza di accesso del 10.9.2015, è la circostanza (peraltro solo dedotta ma non comprovata) secondo la quale il citato provvedimento sarebbe menzionato nell’istanza ostensiva: deve infatti considerarsi che, in un contesto fattuale da cui non emergevano i profili di contrasto lamentati in ricorso tra il progetto edilizio e la disciplina urbanistica, la mera conoscenza degli estremi del titolo edilizio non sarebbe sufficiente a radicare l’onere di immediata impugnazione, ricollegandosi esso, per giurisprudenza consolidata, alla conoscenza dei suoi essenziali contenuti lesivi (la quale è maturata in capo ai ricorrenti solo in occasione dell’esercizio effettivo dell’accesso, avvenuto in data 7.10.2015).
In conclusione, alla luce delle eccezioni delle parti resistenti ed anche degli approfondimenti svolti dal c.t.u. in riscontro ad apposito quesito del Tribunale, non sono rilevabili univoci elementi per attribuire ai ricorrenti la conoscenza del provvedimento impugnato (p.d.c. n. 1826/2014) in data antecedente a quella (7.10.2015) in cui hanno eseguito l’accesso ai relativi atti: misurato da tale data il termine di impugnazione, non resta che concludere che esso, alla data (4.12.2015) della proposizione dell’impugnativa, non era completamente decorso.
Deve adesso procedersi all’esame delle censure attoree, a cominciare da quella con la quale la parte ricorrente assume che la volumetria prevista, pari a mc. 4.943 e suddivisa nei due corpi di fabbrica “A” (composto da otto unità abitative) e “B” (composto da dodici unità abitative), raggiunta attraverso la capacità edificatoria espressa dal lotto fondiario in base all’indice di edificabilità fondiaria ed il ricorso alle premialità volumetriche di cui all’art. 4 l.r. n. 19/2009 e di quella di cui all’art. 12 d.lvo n. 28/2001, è superiore a quella legittimamente edificabile, in quanto la reale superficie fondiaria esistente è pari a mq. 893 in luogo dei mq. 1.309 indicati in progetto.
L’errore, deduce la parte ricorrente, è conseguenza del fatto che il progettista si è basato sui grafici allegati alla variante del 1976 del Programma di Fabbricazione, che erroneamente riportano una minore superficie destinata a standards, mentre la reale consistenza della superficie fondiaria si ricava dalla Tav. 3 del P.d.F. allegato alla delibera di G.R. n. 2799/249 del 12.6.1973, che riporta la fascia destinata a standards anche sul lato nord-est del lotto di intervento della parte controinteressata.
La censura è meritevole di accoglimento.
Deve premettersi che i grafici allegati al Programma di Fabbricazione delimitano la fascia destinata a standards contigua ad alcuni tratti stradali mediante una linea rossa la quale, come evidenziato dal c.t.u., nella tav. 3 del P.d.F. allegato alla delibera di G.R. n. 2799/249 del 12.6.1973 si estende fino a ricomprendere nell’area vincolata il lato nord-est del lotto di pertinenza della parte controinteressata (in misura tale da precludere la realizzazione della volumetria progettata con il p.d.c. n. 1826/2014), mentre nella tav. 3 del P.d.F. di variante del 1976, sulla scorta della quale è stata eseguita la progettazione, interessa una minore superficie.
In dettaglio, come si evince anche dagli stralci della Tavole suindicate riprodotte a pag. 93 della relazione di c.t.u., la Regione Campania, con il D.P.G.R.C. n. 1248 del 23.10.1973, sulla scorta del parere n. 608 del 27.4.1973 della Sezione Urbanistica Regionale e della deliberazione di G.R. n. 2799/249 del 12.6.1973, aveva proceduto all’approvazione del Regolamento Edilizio con allegato Programma di Fabbricazione del Comune di Sarno individuando alcuni tratti discontinui, contrassegnati appunto con linea rossa, che delimitavano per le diverse zone omogenee comunali le aree da assimilare a “zone per attrezzature”: con particolare riguardo alla zona B1, in particolare, veniva stabilito che “sono stralciate ed assimilate a zone per attrezzature le seguenti parti di zone B: a) le zone B1 per una profondità di m. 50 da ambo i lati di alcuni tratti delle principali strade che attraversano longitudinalmente l’abitato esistente”, aggiungendo che “le aree di cui alle lettere a), b) e c) risultano individuate e contornate con segno rosso alla tavola in scala 1:5.000 (tav. 3)”.
Il citato D.P.G.R.C. subordinava peraltro l’efficacia dello strumento urbanistico alla “preventiva accettazione da parte del Comune con apposita deliberazione consiliare delle modifiche, limitazioni e prescrizioni avanti fissati”.
Con D.P.G.R.C. n. 4631 del 14.12.1977, preso atto della deliberazione consiliare n. 184 del 25.3.1974, con la quale il Comune di Sarno accettava le modifiche e le prescrizioni formulate dalla Regione, veniva infine approvato il Regolamento Edilizio con annesso Programma di Fabbricazione, con le modifiche riportate nella suindicata deliberazione di G.R. n. 2799/249 del 12.6.1973.
Nelle more si svolgeva un procedimento di variante del citato strumento urbanistico, avente tra l’altro ad oggetto la soppressione delle suindicate “aree stralciate e assimilate”, secondo la proposta formulata con la deliberazione del Consiglio Comunale n. 12 del 14.2.1976: in relazione ad essa, il Servizio Urbanistica della G.R., con atto n. 1099/bis del 25.5.1976, specificava tuttavia che “non è possibile revocare la prescrizione fatta per alcune zone B1 nel decreto di approvazione del P.d.F….”, esprimendo parere favorevole all’approvazione della variante “con modifiche, prescrizioni ed integrazioni contenute nel parere n. 1099 in data 6.5.1976 di questo stesso Servizio”: tale ultimo parere, a sua volta, richiamate le “modifiche ed integrazioni” contenute nella variante del P.d.F. adottata dal Consiglio Comunale di Sarno con la citata deliberazione, tra le quali, alla lett. g), quella relativa alla “abolizione della prescrizione formulata alla lettera a per la zone B nel decreto di approvazione 23.10.1973 n. 1248”, si esprimeva nel senso che “non è possibile revocare la prescrizione fatta per alcune zone B1 nel decreto di approvazione del P.d.F. poiché tali zone (come risulta dal parere della scrivente) devono rimanere disponibili per consentire, in sede di formazione del P.R.G., la previsione di attrezzature necessarie a soddisfare gli standards urbanistici dell’abitato”.
Il procedimento di variante si concludeva infine con il D.P.G.R.C. n. 1346 del 26.3.1977, non presente agli atti del giudizio, con il quale, in base alle allegazioni attoree (cfr. le note tecnico-giuridiche depositate il 14.2.2017, pag. 10), la zona oggetto di variante veniva individuata “in verde” e concerneva esclusivamente la “trasformazione da zona B3 in zona industriale di un’area contornata con segno verde nella Tav. 3 in scala 1:5.000 del P.d.F.” (con esclusione, quindi, delle aree destinate a standards e delimitate con “linea rossa”).
Tanto premesso, ritiene il Tribunale che la (apparente) discrasia tra le rappresentazioni dell’area vincolata rispettivamente contenute nella Tav. 3 allegata al P.D.F. approvato nel 1973 e nella Tav. 3 della variante approvata nel 1976 sia risolvibile, nel senso della prevalenza della prima, alla luce della chiara posizione negativa assunta dall’Ente preposto all’approvazione (ergo, al perfezionamento del procedimento di variante urbanistica) in ordine alla modifica adottata dal Comune di Sarno e concernente proprio la prescrizione, originariamente apposta allo strumento urbanistico, relativa alla individuazione nelle zone B1 di fasce inedificabili con destinazione a standards: si evince infatti dall’iter procedimentale dianzi illustrato che nessuna volontà modificativa – in senso totalmente o anche solo parzialmente soppressivo – delle originarie disposizioni vincolistiche fu espressa dall’Autorità regionale preposta all’approvazione dello strumento urbanistico e delle sue varianti.
Tale conclusione trova conferma nel fatto che, come si è già visto, il D.P.G.R.C. n. 4631 del 14.12.1977, con il quale il procedimento formativo del P.d.F. trova il suo epilogo e successivo finanche al procedimento di variante svoltosi nelle more, approva lo strumento urbanistico “con le modifiche e le prescrizioni del parere n. 608 in data 27.4.1973 della Sezione Urbanistica Regionale riportate nella deliberazione di G.R. n. 2799/249 in data 12.6.1973, modifiche e prescrizioni accettate dal Comune interessato con deliberazione consiliare n. 184 del 25.3.1974”: in tal modo eliminando ogni dubbio in ordine alla inerenza allo strumento urbanistico definitivamente approvato ed attualmente vigente della previsione vincolistica originaria relativa alle aree “stralciate ed assimilate”.
Peraltro, se si esamina attentamente la natura della discrasia (tra la Tav. 3 allegata al P.d.F. originario e la Tav. 3 annessa alla variante), ci si accorge che non è possibile ravvisare, sullo sfondo della stessa ed a prescindere dai rilievi precedentemente svolti, alcuna volontà modificatrice dell’originaria previsione in tema di standards, per quanto riguarda il lotto interessato.
Come si è visto, invero, la prescrizione apposta dalla Sezione Urbanistica regionale al P.d.F. concerneva una fascia avente “una profondità di m. 50 da ambo (i) lati di alcuni tratti delle principali strade che attraversano longitudinalmente l’abitato esistente”: la trasposizione grafica della suddetta prescrizione, con riferimento all’area interessata dall’intervento edilizio oggetto di controversia, si è tradotta appunto nella apposizione di una linea rossa su entrambi i margini della strada in prossimità della quale insiste la proprietà (dei ricorrenti e della società controinteressata).
Tale (doppia) linea rossa, mentre sul lato sinistro della strada (opposto a quello in cui ricade il lotto interessato) prosegue fino alla successiva intersezione, sul lato destro si interrompe prima (evidentemente perché la zona non coperta dalla linea risulta già ampiamente edificata, rendendo inutile qualunque vincolo di inedificabilità), pur prolungandosi in misura tale da determinare l’inclusione nel vincolo di inedificabilità di una cospicua parte del lotto di proprietà della controinteressata (restringendo, cioè, la superficie edificabile ricadente in zona B1 fino a precludere l’edificazione della volumetria assentita con il p.d.c. n. 1826/2014).
Nella Tav. 3 allegata alla variante del 1976, invece, la suddetta linea rossa conserva immutato il suo andamento sul lato sinistro della strada, mentre sul lato destro, corrispondente al lotto di pertinenza della società controinteressata, si interrompe in un punto che, se assunto a riferimento per la determinazione del vincolo, ne lascerebbe fuori gran parte (ad eccezione cioè, come accertato con i rilievi topografici eseguiti nell’ambito della c.t.u., di un’area di mq. 133) del lotto di proprietà della controinteressata, legittimando l’assenso dato dall’Amministrazione, con il p.d.c. impugnato, alla realizzazione della volumetria di mc. 4.949,61 (comprensivi dei già menzionati incrementi premiali).
Deve tuttavia rilevarsi, in primo luogo, come non sia revocabile in dubbio che, anche nella Tav. 3 allegata alla variante del 1976, la linea rossa si estenda, sul lato sinistro della strada, con la lunghezza originaria: ebbene, se è vero che il vincolo riguarda “ambo (i) lati” delle strade interessate, sebbene limitatamente ad “alcuni tratti”, non può non conseguirne che, laddove il vincolo sia univocamente individuabile almeno relativamente ad un lato della strada, allo stesso non possa restare esente, nella stessa misura, il lato opposto.
In secondo luogo, la irregolare configurazione della linea rossa sul margine destro della strada trova spiegazione nel fatto che, in corrispondenza del punto di interruzione (sia nella Tavola originaria che in quella allegata alla variante), si trovano già disegnati cartograficamente alcuni edifici: chi ha tracciato la linea deve quindi aver ritenuto che, non essendovi aree libere suscettibili di essere destinate a standards, fosse superfluo proseguire con l’evidenziazione cromatica del vincolo, trascurando però di considerare che la fascia vincolata, avente una profondità di m. 50, si prestava comunque a ricomprendere aree non (ancora) edificate, come nel caso della proprietà della controinteressata, preservando quindi l’utilità e, ancor prima, la stessa applicabilità del vincolo medesimo.
Ciò che conta tuttavia è che, a prescindere dalla più o meno corretta trasposizione grafica del vincolo nella Tav. 3 allegata alla variante del P.d.F., non sia individuabile alcuna volontà modificatrice del suo andamento originario da parte della Regione Campania: ciò che impone di avere riguardo, al fine di determinare la superficie edificabile di pertinenza della società resistente, alla delimitazione dell’area vincolata operata con la Tav. 3 allegata al P.d.F. originario.
Infine, l’imprecisione intrinsecamente connessa alla trasposizione grafica del vincolo (cfr., sul punto, la relazione di c.t.u., pag. 103) mediante una linea rossa – dalla quale, a seconda del punto di interruzione, conseguono rilevanti conseguenze in ordine alla individuazione della fascia vincolata – induce a non attribuire eccessivo rilievo alle menzionate discrasie di carattere grafico, in considerazione della univoca estensione del vincolo su uno dei due lati del tratto di strada interessato, cui deve corrispondere, secondo la chiara formulazione della prescrizione regionale, un identico vincolo sull’altro lato del medesimo tratto di strada.
In conclusione, deve ritenersi che la situazione del vincolo con riferimento al lotto di proprietà della controinteressata, anche nella variante del P.d.F. del 1976, sia rimasta immutata rispetto a quella originaria, precludendo la realizzazione della volumetria assentita con il p.d.c. n. 1826/2014, fondata sulla (erronea, per eccesso) determinazione della superficie fondiaria in mq. 1.309.
La rilevata fondatezza della censura esaminata è da sola sufficiente a determinare l’accoglimento del ricorso e, per l’effetto, l’annullamento del p.d.c. n. 1826/2014: tuttavia, ragioni di completezza del sindacato giurisdizionale impongono di esaminare, seppur sinteticamente, le ulteriori doglianze formulate dalla parte ricorrente.
Viene quindi in rilievo quella con la quale si deduce che l’art. 4 l.r. n. 19/2009, in base al quale è stata assentita una volumetria premiale di mc. 785, non sarebbe applicabile alla fattispecie in esame, essendo il suo campo applicativo circoscritto agli edifici esistenti ma non ancora ultimati, oltre che accatastati o in fase di accatastamento, laddove, alla data di presentazione dell’istanza di p.d.c., non esisteva alcun edificio né alcun accatastamento dello stesso.
La censura non è meritevole di accoglimento.
I commi 1 e 2 dell’art. 4 l.r. n. 19/2009 prevedono, rispettivamente, che “in deroga agli strumenti urbanistici vigenti è consentito, per uso abitativo, l’ampliamento fino al venti per cento della volumetria esistente per i seguenti edifici (…)” e che “l’ampliamento di cui al comma 1 è consentito: g) su edifici regolarmente autorizzati ma non ancora ultimati alla data di entrata in vigore della legge regionale 18 gennaio 2016, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione finanziario per il triennio 2016-2018 della Regione Campania – Legge di stabilità regionale 2016)”.
La citata lett. g), dapprima aggiunta dall’art. 1, comma 1, lettera cc), l.r. 5 gennaio 2011, n. 1, e poi modificata nei termini suindicati dall’art. 8, comma 1, lettera b), l.r. 5 aprile 2016, n. 6 (la cui originaria versione era così formulata: “su edifici regolarmente autorizzati ma non ancora ultimati alla data di entrata in vigore della presente legge”), individua evidentemente uno spazio temporale, compreso tra l’autorizzazione delle opere e la loro ultimazione, in cui deve collocarsi l’iter approvativo-realizzativo del progetto edilizio per poter beneficiare della previsione premiale.
Ebbene, non vi è dubbio che l’immobile de quo, assentito (nella sua versione ante-variante) con i p.d.c. n. 1253/2008 e n. 1531/2011, si trovasse, sia alla data dell’entrata in vigore della disposizione citata che a quella di rilascio del p.d.c. n. 1826/2014, nella condizione di edificio “regolarmente autorizzato” ma “non ancora ultimato”, con la conseguente sussistenza dei presupposti applicativi della citata disposizione premiale.
La conclusione raggiunta trova conferma nelle “definizioni” di cui all’art. 2, comma 1, l.r. n. 19/2009, laddove in particolare (lett. e) si prevede che “per volumetria esistente (in rapporto alla quale calcolare l’incremento premiale: n.d.e.) si intende la volumetria lorda già edificata o in corso di edificazione, o ultimata ma non ancora dotata di certificato di agibilità, o edificabile ai sensi della normativa vigente”: la norma àncora infatti l’incremento volumetrico premiale ad una entità urbanistica (la “volumetria edificabile”) avente carattere meramente potenziale ed esclusivamente incentrata sulla volumetria ammissibile in base alle vigenti disposizioni urbanistiche.
Assume altresì rilievo decisivo, nel senso di corroborare la suindicata tesi interpretativa, il confronto con la versione della norma appena citata precedente le modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera f), l.r. 5 gennaio 2011, n. 1, la quale era formulata nel senso che “per volumetria esistente si intende la volumetria lorda già edificata ai sensi della normativa vigente alla data di entrata in vigore della presente legge”: versione evidentemente connotata dal riferimento ad una entità “reale” e “fattuale” (la “volumetria edificata”) e non meramente “potenziale” e “giuridica” (la “volumetria edificabile”), come nella nuova formulazione (da questo punto di vista, peraltro, il fatto che la volumetria “edificabile” assunta a riferimento dell’incremento volumetrico premiale non corrispondesse, nella fattispecie in esame, a quella ammessa dallo strumento urbanistico rileva, in chiave invalidante del p.d.c. impugnato, sotto altro profilo, come si è visto in occasione dell’esame della precedente censura).
Né la conclusione esposta può trovare ostacolo, come assume la parte ricorrente, nel disposto dell’art. 4, comma 6, l.r. n. 19/2009, ai sensi del quale “l’ampliamento non può essere realizzato su edifici residenziali privi del relativo accatastamento ovvero per i quali al momento della richiesta dell’ampliamento non sia in corso la procedura di accatastamento”, essendo evidente che essa deve trovare applicazione coerente con le altre previsioni della medesima legge e con la sua ratio, connessa all’intento legislativo di non favorire con disposizioni premiali gli immobili non in regola con la disciplina fiscale: ratio che non ricorre relativamente ad immobili che, non essendo stati ultimati, non sono soggetti all’obbligo di accatastamento.
Ugualmente irrilevante è il disposto dell’art. 12 bis, comma 1, l.r. n. 19/2009, ai sensi del quale “la presente legge si applica soltanto ai fabbricati regolarmente autorizzati al momento della richiesta dei permesso a costruire…”, intendendo con esso il legislatore regionale semplicemente rimarcare che le disposizioni premiali non sono applicabili ad edifici (eventualmente già esistenti) abusivamente realizzati.
Nemmeno decisiva è l’interpretazione delle citate disposizioni fornita dalla Regione Campania con la circolare n. 0774995 del 23.10.2012, invocata dalla parte ricorrente, laddove, ai fini applicativi dell’incremento premiale, fa riferimento alla “necessaria presenza di un manufatto esistente”: il carattere meramente interpretativo della circolare, i cui esiti si è detto essere non condivisibili, impone infatti di escludere ogni valenza vincolante della stessa ai fini della soluzione della questione de qua.
Per concludere sul punto, deve solo osservarsi che non possono avere ingresso nel giudizio le deduzioni formulate dalla parte ricorrente con la memoria del 18.2.2016, laddove viene contestata, in mancanza di una corrispondente censura tempestivamente formulata con il ricorso introduttivo, la sussistenza delle ipotesi di cui all’art. 4, comma 1, l.r. n. 19/2009, ai sensi del quale l’ampliamento volumetrico è consentito per una delle seguenti tipologie edilizie: a) edifici residenziali uni-bifamiliari; b) edifici di volumetria non superiore ai millecinquecento metri cubi; c) edifici residenziali composti da non più di tre piani fuori terra, oltre all’eventuale piano sottotetto.
Viene adesso all’esame del Tribunale la censura con la quale viene dedotto che, in violazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, il progettato fabbricato “B” è posizionato a distanza inferiore a m. 10 dal fabbricato presente sul lato ovest del lotto e presenta pareti finestrate, mentre il fabbricato “A” è posto in quota parte in aderenza e quota parte a soli 3,5 metri dall’edificio di proprietà dei ricorrenti.
La censura, come illustrato anche dal c.t.u., si articola in due profili: il primo, inteso a rimarcare che la distanza tra l’erigendo fabbricato “B” e l’immobile di altra proprietà presente sul lato ovest del primo è inferiore a m. 10, ovvero pari a m. 6,81, come evidenziato nella relazione tecnica di parte; il secondo, inteso a sostenere che la distanza all’interno della chiostrina prevista tra il fabbricato “A” e quello costruito sul confine, di proprietà dei ricorrenti, è inferiore a quella prescritta di m. 10, essendo pari a m. 3,25, come indicato dal c.t.p. dei ricorrenti.
Deve premettersi che, come riconosciuto dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3510 del 3 agosto 2016), “le disposizioni del D.M. n. 1444/1968, dettate con riferimento agli strumenti urbanistici ad esso successivi (e, dunque, alle costruzioni da realizzarsi sulla base dei medesimi), ai quali si impongono inderogabilmente, al punto da sostituire per inserzione automatica eventuali disposizioni contrastanti: Cass. civ., sez. II, 12 febbraio 2016 n. 2848; Cons. Stato, sez. IV, 16 aprile 2015 n. 1951), sono volte alla tutela dell’interesse pubblico all’ordinato sviluppo del territorio e rispondono alle finalità proprie della pianificazione urbanistica, in attuazione dei beni e valori costituzionalmente garantiti per suo tramite (Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012 n. 2710). Più in particolare, l’art. 9 del citato D.M., nel prescrivere, a seconda delle zone del territorio comunale, precise distanze tra fabbricati intende garantire sia l’interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell’edilizia, sia l’interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili (Cons. Stato, sez. IV, 29 febbraio 2016 n. 856). Le distanze previste dall’art. 9 cit., dunque, sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina all’uopo predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile. Ne consegue che il soggetto che invoca, innanzi al giudice ordinario, il rispetto delle disposizioni del codice civile a tutela di un suo diritto reale, fonda la propria legittimazione ad agire in giudizio sulla propria posizione giuridica di diritto soggettivo (reale) e l’attività edilizia assunta come illecita costituisce lesione di quel suo diritto, tale da rendere attuale l’interesse ad agire in giudizio. In tal caso, sia la verifica delle condizioni dell’azione sia la verifica della violazione delle norme del codice civile (in particolare in tema di distanze) ha come fulcro il diritto reale di chi agisce in giudizio per la sua tutela, proprio perché a quest’ultima esse sono funzionali. Diversamente, il soggetto che – non già innanzi al giudice ordinario, bensì innanzi al giudice amministrativo – invoca l’illegittimità del titolo edilizio rilasciato dall’amministrazione pubblica, poiché rilasciato in violazione delle prescrizioni del D.M. n. 1444/1968 in tema di distanze, richiede che il giudice verifichi la legittimità dell’atto in quanto (potenzialmente) adottato in violazione di una norma di diritto pubblico, posta a tutela dell’interesse pubblico, e della quale egli si giova ad indiretta tutela della sua posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo. Ne consegue che, in questo secondo caso, le condizioni dell’azione si presentano in modo affatto differente rispetto a quanto si pone innanzi al giudice ordinario. Ed infatti, in questo caso, la legittimazione si collega alla titolarità di una posizione di interesse legittimo che può certamente trovare il suo “collegamento” con una preesistente posizione di diritto reale, ma che può fondarsi anche su altro titolo (quali, ad esempio, la titolarità di un contratto di locazione, il diritto alla salute, etc.). E, dunque, l’interesse ad agire, volto ad ottenere l’annullamento del provvedimento impugnato, si collega non già ad una posizione di diritto soggettivo (reale) leso, bensì all’interesse pubblico tutelato dalla norma, dal rispetto della quale discende (anche) la tutela di proprie situazioni giuridiche soggettive, non necessariamente limitate al genus dei diritti reali. Pertanto, il giudice amministrativo, nell’esaminare i motivi di ricorso con i quali si prospetta la violazione della norma sulle distanze di cui all’art. 9 cit., deve:
– quanto alle condizioni dell’azione, verificare la sussistenza di un “collegamento” stabile e giuridicamente apprezzabile tra il ricorrente e l’immobile sul quale si realizzerebbe la costruzione, in virtù del provvedimento impugnato, collegamento che può risultare anche (ma non solo) dalla titolarità di un diritto reale, ma che non è limitato dalla presenza e dalla lesione di questo (e ciò rileva, in particolare, per la verifica della sussistenza dell’interesse ad agire);
– quanto al merito, verificare se il provvedimento impugnato risulti adottato in violazione della norma di diritto pubblico in tema di distanze, nel senso che il nuovo manufatto si ponga in contrasto con le finalità di tutela dell’interesse pubblico al quale la norma è teleologicamente orientata”.
Discende da tale condivisibile prospettiva interpretativa che la violazione delle distanze sancite dalla norma citata, per legittimare la proposizione (e l’accoglimento, in ipotesi di fondatezza), della corrispondente censura, non presuppone necessariamente che la posizione del ricorrente coincida con quella del proprietario dell’immobile in relazione al quale la questione delle distanze venga prospettata.
Quanto al primo profilo della doglianza in esame, quindi, il fatto che i ricorrenti non siano proprietari dell’immobile posto ad ovest, rispetto al quale viene dedotta la violazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, non influisce sulla ammissibilità della censura medesima, a differenza di quanto ritenuto dal c.t.u. (tanto più in quanto il Tribunale, nel formulare il corrispondente quesito, aveva richiesto di verificare le distanze “con particolare”, ma non esclusivo riferimento al fabbricato di proprietà dei ricorrenti.
Nemmeno assumono carattere decisivo, al fine di negare la fondatezza della presente censura, i rilievi del c.t.u. secondo cui “in ogni caso, non sono presenti pareti finestrate antistanti tra gli immobili (palazzina B ed “altra proprietà”) di cui la parte ricorrente contesta il mancato rispetto delle distanze di 10 m.”, atteso che l’immobile posto ad ovest della palazzina “B” è dotata di due piccole aperture non assimilabili a “finestre”, in quanto “trattasi di 2 pozzi di luce posti ad un’altezza, dal livello del suolo, che non consente un affaccio agevole verso la proprietà dei resistenti, per cui non trova applicazione il regime delle distanze di cui all’art. 9 d.m. 1444/1968”: deve infatti osservarsi che, secondo consolidata giurisprudenza (cfr. T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, n. 109 del 23 febbraio 2017), “per poter applicare la regola della distanza minima di dieci metri posta dall’art. 9 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 (…) è necessaria l’esistenza di due pareti che si contrappongono, di cui almeno una deve essere finestrata (Consiglio di Stato sez. IV 31 marzo 2015 n. 1670; Conferma T.A.R. Calabria, Catanzaro, Sez. I, n. 1462/2014)”.
Ebbene, se da un lato il c.t.u. non chiarisce se possa considerarsi finestrata la parete del fabbricato “B” prospiciente il manufatto posto sul lato ovest del primo, la relazione del c.t.p. di parte ricorrente, laddove richiama (e riproduce) la Tav. A1 del progetto assentito (cfr. pag. 8 delle osservazioni trasmesse al c.t.u.), consente univocamente di accertare il carattere “finestrato” del fabbricato “B”, sul lato di interesse, con la conseguente sussistenza della violazione lamentata in ricorso.
Quanto al secondo profilo della censura in esame, il c.t.u. è pervenuto alla conclusione che le aperture presenti sulla parete del fabbricato di proprietà dei ricorrenti, ubicato a confine del lotto di proprietà della società resistente, sono qualificabili come semplici “luci”, per gli effetti applicativi dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968.
In particolare, quanto all’apertura posta al piano rialzato, posta ad una altezza da terra di m. 1,42 ed avente una larghezza di m. 1,38, il c.t.u. ha rilevato come l’accertamento tecnico preventivo svolto nel 2009 su richiesta della società controinteressata, al fine di verificare la consistenza delle aperture presenti sulla facciata del fabbricato di proprietà Prisco posta a confine del lotto, abbia consentito di accertare che essa “ha caratteristiche anomale, poiché essa non è né una finestra regolare con un prospetto regolare, né lume ingrediente (di sola areazione”).
In proposito, il c.t.u. nominato da questo Tribunale, rilevato che essa era inizialmente un semplice “pozzo di luce” e che, a seguito dell’esecuzione dei lavori assentiti con concessione edilizia n. 897 del 5.6.1978, e della conseguente modifica dell’altezza del piano di calpestio interno, è divenuta un’apertura “quasi regolare”, come rilevato in occasione del citato A.T.P., conclude nel senso che “siffatta modifica, operata in modo unilaterale dai ricorrenti, non può penalizzare il diritto del vicino che può esigere che l’apertura sia resa conforme alle caratteristiche originariamente possedute, ovvero quelle di apertura lucifera”.
Il Tribunale non condivide interamente le conclusioni del c.t.u..
In primo luogo, la qualificazione di una apertura come luce o finestra deve essere operata sulla scorta dell’art. 900 c.c., a mente del quale “le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino; vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente”: ne consegue che, consentendo la suddetta apertura, per la sua altezza dal piano interno di calpestio (m. 1,42), di affacciarsi all’esterno, essa è pacificamente qualificabile come “veduta” o “finestra”, agli effetti del rispetto delle norme sulle distanze.
Né rileva che sulla facciata esterna la suddetta apertura abbia conservato la sua altezza originaria, pari a m. 2,5 dal suolo, atteso che, come appena detto, la qualificazione di una apertura come “luce” o come “finestra” va rapportata alla possibilità di utilizzo che essa consente, la quale prescinde dalla sua posizione esterna (altrimenti, occorrerebbe paradossalmente ritenere che tutte le finestre posizionate ad altezza esterna superiore a m. 2.5 debbano considerarsi come semplici luci).
In secondo luogo, come si è detto, le modifiche apportate dai ricorrenti, all’esito delle quali la suddetta apertura ha assunto le caratteristiche di una “quasi-finestra”, sono legittimate dal titolo edilizio richiamato dallo stesso c.t.u.: l’astratta possibilità per il confinante di esigere il ripristino dello status quo ante, ovvero delle condizioni che consentivano di qualificare l’apertura in questione come semplice luce e non come finestra o veduta, per la sua rilevanza meramente civilistica, non è suscettibile di influire sull’applicazione di una norma che, come quella contenuta nell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, per la sua rilevanza pubblicistica in precedenza evidenziata, non può che assumere a riferimento l’attuale situazione dei luoghi, non quella che potrebbe assumere ove l’avente titolo esigesse il rispetto delle disposizioni civilistiche in tema di regolamentazione dei rapporti tra proprietà confinanti.
Per le ragioni esposte, quindi, la suddetta parete dell’edificio di pertinenza dei ricorrenti deve senz’altro qualificarsi come “finestrata” agli effetti dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968.
Quanto alle due aperture presenti al primo piano del medesimo edificio, il c.t.u., condividendo le risultanze del citato A.T.P. (in base al quale “le n. 2 finestre del primo piano sono a lume ingrediente”), ha rilevato che esse, non offrendo la possibilità di affaccio verso la proprietà della società resistente, essendo poste ad una altezza di quasi m. 2 dal piano di calpestio interno, sono da considerarsi come semplici aperture “a lume ingrediente”.
Tale circostanza non modifica tuttavia la conclusione in precedenza raggiunta, in ordine alla qualificabilità come “finestrata” della parete del fabbricato dei ricorrenti, mentre non rileva, ai fini dell’applicazione dell’art. 9 d.m. n. 1444/1968, che anche la prospiciente parete del fabbricato in costruzione presenti le stesse caratteristiche.
Quanto poi alla eventuale deroga delle distanze che deriverebbe dalla “chiostrina” ubicata tra l’edificio costruendo e quello di proprietà dei ricorrenti, si vedrà più avanti, in occasione dell’esame delle censure formulate in proposito in ricorso, che essa non è affatto configurabile, sì che la questione non può incidere sull’accoglimento della doglianza poc’anzi esaminata.
Deducono con ulteriore censura i ricorrenti che il lotto di intervento è classificato dal vigente P.d.F. parte in zona in zona “B1”, parte in zona “F”, parte in zona per “Attrezzature” e parte in zona “Strada di Piano”.
Essi aggiungono che, poiché il vincolo di natura espropriativa gravante sulle ultime tre è decaduto (essendo trascorsi più di cinque anni dalla data di approvazione del Piano di cui al D.P.G.R.C. n. 4631 del 14.12.1977), le stesse sono soggette al regime normativo di cui all’art. 9 d.P.R. n. 380/2001, ricadendo l’intera area di intervento all’interno del centro abitato.
Lamentano quindi che sulla strada di piano vengono previste in progetto sia la rampa che la strada di accesso ai garages interrati, sia urbanizzazioni private che verde privato, nella zona “F” vengono previste sia la strada di accesso ai garages privati posti al livello -1, sia verde privato che parcheggi a raso privati a livello 0, e che sulla zona per Attrezzature vengono previsti garages privati al livello -1 e verde privato a livello 0: tutte previsioni progettuali contrastanti, a dire dei ricorrenti, con le tipologie di intervento previste dall’art. 9, comma 1, lett. a) d.P.R. n. 380/20001, senza trascurare che, per effetto della realizzazione dell’intervento de quo, si avrebbe una compressione delle aree destinate a zona “B1”, zona “F”, zona per “Attrezzature” e zona “Strada di Piano”, con gravi ripercussioni sul dimensionamento dello strumento di pianificazione.
La censura non è meritevole di accoglimento.
Deve premettersi che le aree indicate dalla parte ricorrente, in virtù della dedotta decadenza dei relativi vincoli espropriativi, sono assoggettate alla disciplina propria delle cd. zone bianche, così come delineata dall’art. 9, comma 1, lett. a) d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici ed all’interno del perimetro del centro abitato sono consentiti “gli interventi previsti dalle lettere a), b), e c) del primo comma dell’articolo 3 che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse”.
Ebbene, chiarito che, come accertato dal c.t.u., nelle suddette aree non sono previste opere di carattere edificatorio, ma esclusivamente la realizzazione della rampa e della strada di accesso ai garages interrati, dei parcheggi a raso e del verde privato, ritiene il Tribunale che la deduzione attorea sia infondata, in primo luogo, relativamente a quelle opere che non comportino la trasformazione permanente di suolo inedificato, come quelle consistenti nella realizzazione di parcheggi a raso o di verde privato.
Ma a non diversa conclusione deve pervenirsi relativamente alle rampe e strade di accesso, atteso il loro carattere squisitamente pertinenziale e la totale irrilevanza volumetrica, che preclude di ricondurle alla nozione di “nuova costruzione” che si contrappone, nella logica che ispira la disciplina delle cd. zone bianche, alle tipologie edilizie di cui agli artt. a), b) e c) d.P.R. n. 380/2001.
Del resto, come evidenziato dalla parte resistente, ai sensi dell’art. 9, comma 1 l. n. 122 del 24 marzo 1989, “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”: ne consegue la compatibilità urbanistica di opere, come quelle suindicate, a servizio di parcheggi interrati che beneficiano della citata disciplina derogatoria.
Viene infine in rilievo la censura con la quale i ricorrenti deducono che la prevista realizzazione di un chiostro contrasta con l’art. 29, comma 4, del R.E., ai sensi del quale “…negli spazi interni definiti come “chiostrine” possono affacciarsi soltanto disimpegni verticali o orizzontali e locali igienici. Nelle “chiostrine” non vi possono essere né sporgenze, né rientranze. Tutti gli spazi interni devono essere accessibili dai locali di uso comune”.
Lamentano infatti i ricorrenti che la parete finestrata del fabbricato di loro proprietà è ad uso affaccio, che negli spazi interni della “chiostrina” vi sono sporgenze e rientranze, che un lato della stessa non risulta nemmeno chiuso e dalla linea di confine aperta non risulta rispettata la regolare distanza che dal progetto risulta essere di soli m. 4 anziché il minimo assoluto di m. 5, mentre, poiché l’altezza del fabbricato da realizzare è di m. 12,24, la distanza dovrebbe essere di m. 6,12, come previsto dal R.E..
La censura è meritevole di accoglimento.
Ai sensi dell’invocato art. 29, comma 4, R.E., infatti, “…negli spazi interni definiti come chiostrine possono affacciare soltanto disimpegni verticali o orizzontali e locali igienici”.
Come già in precedenza rilevato, la parete dell’edificio dei ricorrenti prospiciente il fabbricato “A” assentito con il p.d.c. impugnato ha carattere “finestrato” e la finestra ivi presente è a servizio di una stanza da letto e cucina.
Ebbene, non può condividersi quanto sostenuto sul punto dal c.t.u., nel senso che dovrebbe attribuirsi rilievo, al fine di verificare il rispetto della suindicata disposizione, alle sole pareti del fabbricato progettato, sulle quali insistono solo aperture a servizio dei servizi igienici: la chiostrina, infatti, è formata sia dalle pareti del fabbricato costruendo sia da quelle del fabbricato preesistente, imponendo il rispetto, per tutte le pareti che concorrono a configurarla, dei requisiti delineati dal citato art. 29, comma 4, R.E..
Concorre a tale conclusione, del resto, la stessa giurisprudenza citata dal c.t.u. (Cassazione civile, sez. II, n. 7001 dell’8 maggio 2012), secondo cui la “chiostrina” costituisce “uno spazio, funzionale a dare aria e luce ai cosiddetti ambienti di servizio (bagni, corridoi, locali deposito, ecc.), vale a dire a tutti gli quegli ambienti non destinati ad essere abitati: essa, dunque, serve a soddisfare esigente igieniche e a garantire la salubrità degli edifici ed, in questo ambito, è di norma disciplinata dal R.E. che ne stabilisce l’area e l’ampiezza minima. Ancorché sovente la chiostrina sia ubicata all’interno di un edificio ovvero sia stata prevista nell’ambito di un’unica progettazione relativa a più edifici, nulla impedisce che la chiostrina medesima costituisca un’area contornata da unità immobiliari distinte (come nella specie): tale ultima evenienza è da ritenere che ricorra nella presente vicenda in quanto la normativa regolamentare in proposito – individuata dallo stesso appellante – si riferisce agli spazi interni ad edifici, senza alcun altra specificazione, sicché resta superata (anche per l’uso del plurale) sia la fattispecie dell’edificio unico, sia quella dell’unica progettazione di più edifici, non essendo praticabile tale limitazione in difetto di previsione”.
La non configurabilità di una “chiostrina” conforme ai requisiti richiesti dal R.E. osta anche all’applicazione delle più favorevoli norme in tema di distanze, che quella fattispecie presuppongono.
La proposta domanda di annullamento, in conclusione, deve essere accolta sotto tutti i profili evidenziati.
Deve essere invece dichiarata inammissibile la domanda di condanna alla restitutio in integrum, non essendo ammissibile nell’ambito della giurisdizione amministrativa la pronuncia di condanne nei confronti di soggetti privati.
La complessità dell’oggetto della controversia giustifica la compensazione delle spese di giudizio sostenute dalle parti, mentre l’obbligo di provvedere al pagamento del compenso spettante al c.t.u., da liquidarsi in complessivi € 3.000,00, oltre oneri di legge e detratto l’acconto già eventualmente percepito (per il quale, così come per il contributo unificato, la parte ricorrente avrà diritto di rivalsa nei confronti del Comune di Sarno e della società controinteressata), nonché al rimborso delle spese sostenute dal medesimo c.t.u., pari a complessivi € 3.000,00 (comprensivi delle spese per l’esecuzione del rilievo topografico), deve essere posto a carico del Comune di Sarno e della parte controinteressata, in solido tra loro e con riparto interno del relativo onere nella misura del 50% per ciascuno.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno, Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 2857/2015:
– accoglie la proposta domanda di annullamento ed annulla per l’effetto i provvedimenti impugnati;
– dichiara l’inammissibilità della domanda di condanna alla restitutio in integrum;
– liquida in complessivi € 3.000,00, oltre oneri di legge e detratto l’acconto già eventualmente percepito (per il quale la parte ricorrente avrà diritto di rivalsa nei confronti del Comune di Sarno e della società controinteressata), il compenso spettante al c.t.u. ed in € 3.000,00 il rimborso spettante al medesimo c.t.u. per le spese sostenute ai fini dell’esecuzione dell’incarico;
– pone l’obbligo di provvedere al relativo pagamento a carico del Comune di Sarno e della parte controinteressata, in solido tra loro e con riparto interno del relativo onere nella misura del 50% per ciascuno;
– compensa le spese di giudizio sostenute dalle parti, ad eccezione del contributo unificato, per il quale la parte ricorrente avrà diritto di rimborso nei confronti del Comune di Sarno e della società controinteressata, in solido tra loro.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 4 aprile 2017 con l’intervento dei magistrati:
Francesco Riccio, Presidente
Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore
Maurizio Santise, Primo Referendario

L’ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Ezio Fedullo
Francesco Riccio

Tassazione della plusvalenza derivante dalla cessione onerosa di terreni agricoli pervenuti all’alienante per successione testamentaria.

DI RAFFAELLA MONICA ANNUNZIATA.

1. Premessa. 2. Inidoneità edificatoria data dall’esiguo indice di fabbricabilità del terreno agricolo attestato dal certificato di destinazione urbanistica. 3. Sentenza Cass. civile n.23316/2013 e risoluzione ADE n.9/2009 4. Vincolabilità delle prescrizioni del PRG. 5. Sentenza CTP Salerno n.6043/2015.

1.Frequente terreno di scontro fra Amministrazione finanziaria e contribuente è la tassazione di plusvalenze patrimoniali generatesi a fronte della cessione onerosa di terreni a vocazione agricola giunti all’alienante per successione testamentaria, ricomprese tra i redditi diversi, in   virtù di un esiguo indice di fabbricabilità ravvisato dall’ADE.
La chiave di risoluzione del problema non può prescindere dall’analisi dell’art.67 del DPR 917/1986.
In primis occorre precisare che la natura prettamente agricola di un terreno costituisce un’esimente ai fini della tassazione : la disciplina delle plusvalenze immobiliari è concentrata negli articoli 67 e 68 del DPR n. 917/86 (Testo Unico delle Imposte sui redditi), ai sensi dei quali le plusvalenze realizzate (e percepite) attraverso la cessione di terreni edificabili sono imponibili in ogni caso, mentre quelle originate dalla cessione di fabbricati o di terreni non edificabili non sono imponibili nei seguenti casi:

  1. se tra acquisto (del terreno non edificabile o del fabbricato) o costruzione (del fabbricato) e cessione (del terreno non edificabile o del fabbricato) sono trascorsi almeno cinque anni;
  2. se l’immobile (terreno non edificabile o fabbricato) é pervenuto al cedente per successione;
  3. nel solo caso delle unità immobiliari urbane, se per la maggior parte del periodo intercorso tra l’acquisto o la costruzione e la cessione le stesse sono state adibite ad abitazione principale del cedente o dei suoi familiari (coniuge, parenti entro il terzo grado, affini entro il secondo grado).

Ictu oculi come condizione esimente, ai fini della tassazione di plusvalenza realizzata, è l’aver alienato un terreno non edificabile pervenuto all’alienante per successione.
Giova precisare cosa si intende per plusvalenza patrimoniale rilevante ai fini della tassazione sul reddito, precisamente la stessa consiste nel guadagno realizzato da colui che, avendo acquistato un immobile ad un determinato valore, lo rivende successivamente ad un corrispettivo maggiore lucrando quindi sulla differenza, o effettua la vendita compiendo una speculazione volendo eludere ad esempio norme tributarie, come nel caso di vendita di  terreno a vocazione agricola ad una società di costruzione, manifestando un evidente fine speculativo. Viceversa non si avrà alcuna plusvalenza nel caso di cessione a titolo oneroso di un terreno agricolo pervenuto all’alienante per successione testamentaria e il cui indice di fabbricabilità sia esiguo.
2. Ai sensi dell’art. 9 lett. b DPR n.380/2001 e del DL n.42/2004 il limite della densità massima fondiaria di un terreno ricadente in zona agricola è di 0.03 metri cubi per metro quadro. Tale dato normativo oltre a mostrare un limitato ius aedificandi per tali zone, indica che la stessa azione edificatoria non può essere scevra dal dato normativo e fattuale che interessa la zona agricola ma necessiterà di un intervento qualificato e strumentale alla stessa destinazione del fondo. In parole semplici l’edificazione prevista per le zone E è esclusivamente accessoria alle esigenze del fondo agricolo.
Nel caso di specie, affrontato dallo staff legale, fermo restando la prescrizione del lotto minimo pari a 5.000 mq, la suscettibilità edificatoria è pari a 0,10 mc/mq così suddiviso : di cui lo 0,03 mc/mq destinato a residenza rurale; mentre lo 0,07 mc/mq destinato a pertinenze agricole. Dato derivante dal combinato disposto degli artt. 8 delle NTA e dell’art.51 del Regolamento Edilizio Comunale.
Orbene la cessione onerosa di terreni agricoli con una seppur limitata utilizzazione edificatoria non rileva ai fini della tassazione della plusvalenza giacché la stessa limitata potenzialità edificatoria (0,03) è meramente strumentale alla conduzione del fondo e tesa a realizzare l’intrinseca natura agricola del terreno.
Lapalissiano l’errore in cui incorre l’ADE, la quale pone a fondamento della pretesa impositiva l’assunto per cui si realizzi plusvalenza anche laddove l’indice di fabbricabilità fondiaria sia minimo, come nel caso dei terreni agricoli il cui indice oscilla tra lo 0,03, e lo 0,10. Ravvisando pertanto una potenziale ed ipotetica suscettibilità edificatoria in tutti i terreni agricoli, sebbene empiricamente tale trasformazione urbanistica sia impossibile.
Nel caso di specie, l’ADE procedeva ad accertare una plusvalenza di ben 1.030.440 euro a fronte della cessione onerosa di un fondo rustico con entro stante fabbricato rurale, ignorando: a) la provenienza del terreno oggetto di cessione ricevuto per successione dai ricorrenti nella rispettiva quota del 50%, realizzando la condizione esimente prevista dal TUIR; b) l’inedificabilità assoluta di alcun particelle ricadenti in zona fascia di rispetto fluviale e stradale; c) l’assenza di alcun intento speculativo, in quanto il terreno è stato alienato ad un Imprenditore Agricolo Professionale (IAP), e quindi per la sola funzionalità della propria attività imprenditoriale; d) la vocazione prettamente agricola dello stesso in quanto ricadente in zona E1 in gran parte già edificato, circostanza che non consente di considerare e di conseguenza tassare lo stesso come terreno “nudo”, ovvero potenzialmente edificabile.
Orbene non rientrano tra le cessioni di cui all’art. 67 del D.P.R. n. 917/86 quelle aventi ad oggetto terreni sui quali sorgono fabbricati. Vanno considerarti suscettibili di utilizzazione edificatoria i soli terreni “nudi” e non quelli che, pur essendo edificati, conservano integra la loro capacità edificatoria secondo le previsioni del Piano Regolatore Generale. Cass. civ. Sez. VI – 5 Ordinanza, 20/02/2014, n. 4116
3.L’iter logico – giuridico posto a fondamento della pretesa impositiva dell’ADE viola l’art. 3 della L.212/2000 (Statuto del contribuente) giacché la ratio dell’imposizione fiscale si fonda totalmente sulla sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 23316/2013, fatta assurgere ad assioma imperante, ma di fatto la ratio impositiva difetta totalmente.
La sentenza in oggetto contempla un caso del tutto avulso dalla fattispecie in esame, giacché interessa la cessione di un terreno ricadente in Zona Agricola Specializzata AS2, ovvero una zona dove nel rispetto delle NTA del rispettivo Comune era possibile realizzare anche strutture ricettive, oltre alla possibilità di beneficiare di un cambio di destinazione d’uso. (dato richiamato nella parte motiva della sentenza omessa però nell’avviso di accertamento).
Nulla di più lontano dal caso di specie, invero il fondo oggetto di cessione ricade in zona agricola E1, con una propensione edificatoria esigua resa quasi del tutto assente dall’esistenza di un fabbricato di tre piani esistente già prima di un programma di fabbricazione, nonché da un vincolo di inedificabilità assoluto per le particelle ricadenti in fascia di rispetto fluviale e stradale.
La ratio impositiva difetta totalmente in quanto la sentenza n. 23316/2013 va inquadrata nella sua peculiarità, ovvero fa riferimento ad una zona agricola specializzata che esula dalla strumentalità del fondo.
La tassazione operata dall’ADE nel caso di specie contraddice lo stesso orientamento indicato dall’Amministrazione finanziaria; invero la risoluzione n.6 del 2009 ritiene che un terreno agricolo che non abbia acquistato una nuova destinazione urbanistica in virtù delle prescrizioni contenute nel PRG non è completamente utilizzabile a scopo edificatorio.
Per aversi una plusvalenza tassabile occorrerà un’attività edificatoria autonoma e svincolata dalla conduzione del fondo stesso.
4.E’ necessario ribadire che l’art. 36 co. 2 del d.l. 223/2006 dispone che ai fini della corretta individuazione della natura edificatoria del terreno bisogna fare riferimento unicamente alle prescrizioni del PRG o della relativa variante adottata dal Consiglio comunale con propria delibera, sia nel caso in cui tale strumento urbanistico non risulti ancora approvato dalla regione, sia nel caso in cui gli strumenti attuativi ( es. piano particolareggiato, piano di lottizzazione) se prescritti dallo strumento urbanistico generale non siano ancora stati approvati. La disposizione riconduce il riconoscimento della qualità di suolo edificabile allo strumento urbanistico vigente nel tentativo di evitare possibili interpretazioni basate sulla edificabilità in astratto.
La stessa consulenza tecnica di parte ha evidenziato in virtù del combinato disposto degli artt.8 delle N.T.A vigenti e delle norme del Regolamento Edilizio Comunale l’inedificabilità del suolo in oggetto in quanto in gran parte già edificato e per l’esistenza di particelle soggette a fascia di rispetto fluviale e stradale assolutamente inedificabili.
Pertanto la natura di terreno edificabile sarà, dunque, desumibile dalle prescrizioni contenute nel PRG richiamate nel certificato di destinazione urbanistica rilasciato dal Comune. (Cass. civ. Sez. V Sent., 10/06/2008, n. 15282), in virtù di una valutazione in concreto della suscettibilità edificatoria e non soltanto potenziale.
Quindi ai fini tributari sono edificabili tutti quei terreni che tali sono qualificati da uno strumento urbanistico, indipendentemente dalla sussistenza dell’approvazione regionale dello strumento stesso e di strumenti attuativi che rendano possibile in concreto il rilascio della concessione edilizia. Cass. civ. Sez. V Sent., 18/07/2008, n. 19871
Assodato il fatto dell’imprescindibilità dello strumento urbanistico adottato dal Comune, per determinare l’edificabilità di un terreno, si dovrà tenere conto dell’attitudine del suolo a subire trasformazioni che siano effettivamente riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, evitando di effettuare valutazioni di fatto che disattendano il dato formale.
La ratio del legislatore, comunitario e nazionale, di considerare le cessioni di aree fabbricabili come operazioni imponibili si fonda evidentemente sulla natura prevalentemente speculativa dei trasferimenti di aree fabbricabili, nei quali l’intervento degli strumenti urbanistici svolge un ruolo essenziale. In relazione alla provenienza del bene immobile (a titolo oneroso o gratuito) l’intenzione di tassare soltanto le plusvalenze speculative trova peraltro conferma nell’esclusione accordata agli immobili pervenuti al soggetto per successione, evidentemente nel presupposto che anche una successiva vendita degli stessi non sottende alcun intento speculativo né alcuna preordinazione, considerato il titolo di provenienza del bene e l’acquisizione dello stesso per un evento fortuito.
La cessione a titolo oneroso di terreni agricoli pur se limitatamente suscettibili di essere utilizzati a scopi edificatori non rileva ai fini della determinazione delle plusvalenze in quanto la limitata possibilità di edificazione degli stessi è meramente strumentale alla conduzione del fondo e quindi non destinata alla utilizzazione edificatoria ma alle coltivazioni agricole. La limitata edificazione (casa del coltivatore, magazzini, ricoveri per animali ecc.) servirebbe proprio e solo a consentire la realizzazione della destinazione agricola del fondo, come è emerso dalla consulenza tecnica di parte espletata, dove a fronte dell’inedificabilità assoluta dovuta a fasce di rispetto fluviale e stradale, e all’ edificazione già realizzatasi, l’unica edificabilità, operate le dovute esclusioni, riguarda l’esigua realizzazione di pertinenze agricole escludendo, pertanto, che la cessione in questione determini una plusvalenza.
Pacifico, è il dato, per cui non può generare plusvalenza tassabile la cessione di una casa di abitazione con annessa area di sedime edificabile secondo gli strumenti urbanistici vigenti. Invero, scopo del dettato normativo è, infatti, quello di sottoporre a tassazione la plusvalenza generata dall’alienazione di terreni edificabili non già di quelli edificati Cass. civ. Sez. V, 09/07/2014, n. 15629 .
Conforme Cass. civ. Sez. V, 21/02/2014, n. 4150, ad avviso della quale non rientra tra le cessioni di cui all’art. 67 del D.P.R. n. 917/86 quella avente ad oggetto un terreno sul quale sorge un fabbricato. Pertanto vanno considerarti suscettibili di utilizzazione edificatoria i soli terreni “nudi” e non quelli che, pur essendo edificati, conservano integra la loro capacità edificatoria secondo le previsioni del Piano Regolatore Generale.
Ciò fornisce un unico assunto, ovvero l’entità sostanziale di un fabbricato insistente in un terreno non può essere mutata in terreno suscettibile di potenzialità edificatoria, sulla base di presunzioni derivate da elementi soggettivi, interni alla sfera dei contraenti, e soprattutto, la cui realizzazione futura, eventuale e rimessa alla potestà di soggetto diverso (l’acquirente) da quello interessato dall’imposizione fiscale. Unico dato imprescindibile è lo strumento urbanistico esistente che qualifica la zona in osservazione come edificabile o non fabbricabile.
Pertanto la nozione di edificabilità nonché la destinazione di un terreno si lega in un amalgama imprescindibile allo strumento urbanistico esistente al momento della cessione dell’area.
5.La ricostruzione normativa effettuata è stata sposata in pieno dalla CTP di Salerno nella pronuncia del 20/11/2015 sentenza n.6043 la quale ha ribadito che “ teoricamente tutti i terreni sono suscettibili di utilizzazione edificatoria, in base ad un indice di fabbricabilità. Per cui, se il legislatore nell’art.67 del TUIR ha fatto richiamo, ai fini della plusvalenza, di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, questi sono riferiti alle sole “aree edificabili”, per cui giammai possono rientrare, tra quelle tassabili, i terreni agricoli, in relazione, ai quali l’indice di edificabilità-limitato, è semplicemente attratto alla sola attività di coltivazione del terreno, ancor più che gli stessi risultano essere acquistati da soggetti per l’esclusiva attività di impresa agricola : il presente acquisto per la formazione della proprietà diretto-coltivatore. La locuzione di “terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria” giammai può ricomprendere indistintamente tutti i terreni, se non quelli a destinazione edificatoria e, cioè le aree edificabili rientranti nello strumento urbanistico vigente al momento della cessione e, quindi non i terreni a destinazione prettamente agricola da parte di diretti coltivatori del fondo (imprenditori agricoli).
Raffaella Monica Annunziata

Decisione cautelari in tema di applicazione della sanzione pecuniaria del novellato art. 31, co. 4 bis del DPR 380/01.

N. 00534/2016 REG.PROV.CAU.
N. 02502/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 2502 del 2015, integrato da motivi aggiunti, proposto da:

C. I., rappresentata e difesa dagli avvocati Luigi Ferrara C.F. … e Colomba Farina C.F. ….., con domicilio in Salerno, presso ….;

contro
Comune di Scafati, non costituito in giudizio;
per l’annullamento
previa sospensione dell’efficacia,
dell’ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi n…. del 14.07.2015, resa dal Comune di Scafati;

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;
Visto l’art. 55 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 13 settembre 2016 il dott. Ezio Fedullo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Rilevato che le opere oggetto di contestazione hanno costituito oggetto di una ulteriore istanza di accertamento di conformità della parte ricorrente, ferma ogni valutazione circa la sua ammissibilità da condurre nella pertinente sede di merito, anche alla luce del contenuto dei precedenti provvedimenti di diniego;
Ritenuta la sussistenza di giuste ragioni per disporre l’irripetibilità delle spese di giudizio sostenute dalla parte ricorrente;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno, Sezione Prima, accoglie l’istanza cautelare e fissa per la trattazione del merito l’udienza pubblica del giorno 16 gennaio 2018.
Spese irripetibili.
La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.
Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 13 settembre 2016 con l’intervento dei magistrati:
Amedeo Urbano, Presidente
Giovanni Sabbato, Consigliere
Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Ezio Fedullo Amedeo Urbano