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Avvocato amministrativista

Appalti, (Sezione Prima) Ordinanza N. 01252/2016 REG.PROV.CAU. N. 01926/2016 REG.RIC.

I chiarimenti possono essere ammissibili se contribuiscono, con un’operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio, ma non quando, proprio mediante l’attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed una portata diversa e maggiore Cons. di St. sez. III, 13.01.2016 n. 74.

Pubblicato il 23/09/2016
N. …/2016 REG.PROV.CAU.
N. …../2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale … del 2016, proposto da:
A…. Servizi Società Cooperativa S…, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Carmen Battipaglia e Luigi Ferrara, domiciliato presso …
contro
Comune di Brunate, non costituito in giudizio;
nei confronti di
C…. S.r.l., non costituito in giudizio;
per l’annullamento
previa sospensione dell’efficacia,
della determinazione di esclusione della ricorrente dalla procedura negoziata per l’affidamento dei lavori di rifacimento parcheggio Via Alessandro Volta e abbattimento barriere architettoniche – CIG 6709066069 – indetta dal Comune di Brunate, racchiusa nel verbale di esclusione trasmesso mezzo procedura SINTEL dell’11.07.2016, prot. n. 3640, a firma del RUP;
della nota di chiarimenti a firma del RUP, recante data antecedente al 6 luglio 2016 per l’esame dei documenti;
dell’adottato provvedimento formale di aggiudicazione, mai conosciuto;
del diniego di riesame in autotutela reso dalla Stazione Appaltante in data 27.07.2016, trasmesso a mezzo procedura SINTEL;
di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguente, ivi compreso l’annullamento – previa declaratoria di inefficacia – del contratto d’appalto eventualmente stipulato, mai conosciuto;
nonché per l’accertamento del risarcimento dei danni.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;
Visti gli artt. 55 e 120, comma 6 cod. proc. amm.;
Visti tutti gli atti della causa;
Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 21 settembre 2016 il dott. Roberto Lombardi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Rilevato:
che l’offerta della società ricorrente è stata ritenuta inammissibile in quanto le capacità tecniche per le lavorazioni in appalto dalla stessa possedute sono state ritenute dall’amministrazione convenuta non sufficienti a dimostrare il fatturato minimo annuale almeno pari all’opera richiesta;
che, altresì, l’istanza di riesame in autotutela del provvedimento di esclusione è stata respinta con la seguente motivazione: “si ritiene dalla documentazione presentata la non sufficiente capacità tecnica nell’oggetto dell’appalto e la marginalità delle lavorazioni eseguite rispetto ai lavori presentati, che ricadono prevalentemente in manutenzioni di stabili e opere di manutenzione stradale generica comprensive di sgombero neve (…);
che è già intervenuta l’aggiudicazione della gara, per cui non risulta applicabile al caso di specie il rito speciale previsto dal combinato disposto dei commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 c.p.a;
Ritenuto:
che la motivazione addotta dall’amministrazione in sede di autotutela, che ha integralmente sostituito le ragioni in precedenza esposte nel provvedimento di esclusione, risulta incongrua e contraddittoria;
che, invero, pare fondata l’affermazione della ricorrente, secondo cui il requisito tecnico richiesto dal bando è stato in realtà dimostrato, avendo la A… dichiarato di avere conseguito nell’ultimo triennio prima dell’indizione della gara un fatturato globale congruo, con riferimento alla tipologia di lavori rientranti nella categoria prevalente in appalto;
che, pertanto, il Comune convenuto deve riammettere in gara la società ricorrente, esaminando il ribasso sul prezzo a base d’asta contenuto nell’offerta dalla stessa presentata;
che la ricorrente è esposta, nelle more della trattazione della causa, al pregiudizio grave e irreparabile di non potere eseguire i lavori in appalto;
che, pertanto, sussistono i presupposti per la concessione dell’invocata cautela, seppure nei limiti sopra esposti;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione I) accoglie la domanda cautelare, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione.
Fissa per la trattazione di merito del ricorso l’udienza pubblica dell’ … febbraio 2017.
Condanna il Comune convenuto a rifondere le spese processuali sostenute dalla ricorrente nella presente fase, che liquida in complessivi € 1.200,00.
La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 21 settembre 2016 con l’intervento dei magistrati:
Angelo De Zotti, Presidente
Elena Quadri, Consigliere
Roberto Lombardi, Primo Referendario, Estensore
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Roberto Lombardi Angelo De Zotti
IL SEGRETARIO

 

Vincoli espropriativi o di inedificabilità assoluta e vincoli conformativi.

Di Luigi Ferrara.

PARERE
IN FATTOcon riferimento al parere legale relativo al vincolo di cui al Decreto prot. n. 1248 del 23.10.1973 con il quale il Presidente della Regione Campania ha approvato con prescrizioni il P.d.F. del Comune di S…, pregiudizievole nella parte in cui fissa un vincolo di in edificabilità sull’area di proprietà inclusa nella zona B1 del vigente P.d.F..
Il quesito sottoposto allo scrivente concerne la validità o meno di un termine indeterminato di inedificabilità, ovvero, fino all’approvazione di un nuovo strumento di pianificazione generale, con specifico riferimento alle deduzioni contenute nella parte motiva della sentenza n. 112/11, emessa dal TAR Salerno che definisce l’area accertata quale “c.d. zona bianca” per scadenza dei termini quinquennali.
Ricostruzione FATTUALE E normativa
a) Documentazione esaminata
– ricorso avv. M. F.;
– sentenza TAR SA n. 112/11;
– determina prot. n. 3364 del 17.06.2009, successivamente conosciuta, con la quale il responsabile dell’Area Tecnica del Comune di S… ha rigettato l’istanza di permesso di costruire presentata dai ricorrenti;
b – relazione istruttoria prot. n. 3742 del 17.06.2009;
c – Decreto prot. n. 1248 del 23.10.1973 con il quale il Presidente della Regione Campania ha approvato con prescrizioni il P.d.F. del Comune di S….;
e- nota del 22.12.2009, con la quale il Responsabile del Servizio Area tecnica del Comune di S… ha comunicato la conferma del parere sfavorevole sull’istanza di permesso di costruire presentata dai ricorrenti;
f – relazione istruttoria prot. n. 6938 del 14.2.2009;
g – nota prot. n. 22221 del 16.12.2009, prot. sev. 5941 del 17.12.2009, a firma del Responsabile del servizio Manutenzione – Ricostruzione – Urbanistica del Comune di S…;
h – nota prot. n. 6640 del 25.11.2009, con la quale il Comune di S… ha comunicato l’avvio del procedimento di riesame ed ha richiesto un’integrazione documentale;
i – vecchia concessione poi scaduta;
– Normativa di riferimento;
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  1. Considerazioni fattuali.

La questione all’esame ha ad oggetto la disamina del parere sfavorevole del Responsabile del Servizio in data 16 dicembre 2009, che pone a base della determinazione assunta un duplice rilievo ostativo. Per il primo la natura vincolistica della destinazione a zona “per attrezzature” imposta dalla Regione Campania in sede di approvazione del nuovo strumento urbanistico del Comune di Sarno (D.P.G.R.C. n. 1248 del 23/10/1973) cosicché si afferma testualmente che “il lotto in esame pur recando GRAFICAMENTE la dizione B1 (Zona residenziale di completamento) non ha mai avuto GIURIDICAMENTE tale destinazione”. Per il secondo profilo, l’Ufficio pone in rilievo che il progetto sarebbe “in ogni caso non rispondente alle norme del Regolamento Edilizio vigente per inosservanza delle distanze da confini, fabbricati ed attigua linea ferroviaria, in rapporto all’altezza proposta”. Tralasciando in tale sede tale profilo squisitamente tecnico e di non poco rilievo, va focalizzato preliminarmente, viceversa il profilo relativo alla destinazione di zona.
Ordunque, la origine procedimentale della destinazione vincolistica “ad attrezzature” a suo tempo introdotta dalla Regione Campania, assume una scadenza, secondo il termine quinquennale stabilito dall’art. 2 l.n. 1187/1968, e che come si precisa in sentenza il suo spirare comporta che l’area rimane priva di disciplina urbanistica ed è soggetta alle previsioni di cui all’art. 4 ultimo comma della legge n. 10/1977 (ora art. 9 del T.U. n. 380/2001), sino all’adozione, da parte del Comune, di nuove, specifiche prescrizioni (ex multis, T.A.R Toscana Firenze, sez. I, 10 dicembre 2009, n. 3267).
Da tale assunto finale ne discende la domanda: trattasi di vincolo preordinato all’espropriazione, o comunque sostanzialmente ablativo e fino a quando la P.A. può mantenere tale stato di cosa e/o l’amministrazione è o meno tenuta a provvedere in tempi ragionevoli?
In vero la stessa sentenza esaminata precisa che: “il decorso del termine decennale di efficacia del piano fa venire meno solo i vincoli finalizzati all’espropriazione e le altre limitazioni della proprietà privata imposti dallo strumento attuativo, ma non anche la disciplina urbanistico- edilizia da esso dettata, che continua a trovare applicazione fino all’approvazione di un nuovo piano attuativo o di un nuovo Piano Regolatore Generale” (cfr. T.A.R Marche Ancona, sez. I, 03 giugno 2009, n. 457), qualificando detto vincolo di natura espropriativa.
La medesima sentenza, inoltre, richiama l’orientamento del Consiglio di Stato (sez. IV, 21 aprile 2010, n. 2262) secondo cui “l’obbligo di provvedere alla rideterminazione urbanistica di un’area, in relazione alla quale sono decaduti i vincoli espropriativi precedentemente in vigore, non comporta che essa riceva una destinazione urbanistica edificatoria o nel senso voluto dal privato, essendo in ogni caso rimessa al potere discrezionale dell’Amministrazione comunale la verifica e la scelta della destinazione che, in coerenza con la più generale disciplina urbanistica del territorio, risulti più idonea e più adeguata in relazione all’interesse pubblico al corretto e armonico utilizzo del territorio, potendo anche ammettersi la reiterazione degli stessi vincoli scaduti, sebbene nei limiti di una congrua e specifica motivazione sulla perdurante attualità della previsione, comparata con gli interessi privati”.
Questo il quadro normativo-giuridico da cui muovere per ottenere una risposta alla domanda testé esposta.

  1. IN DIRITTO.

Ricostruzione teorico normativa applicabile.
a) quanto alla perimetrazione del Piano generale, ricade all’interno della zona edificata urbana, e precisamente in zona B1 del vigente P.d.F., con specifica zonale “ad attrezzature” di interesse pubblico, sub specie ad attrezzature verde pubblico;
b) secondo le NTA, “… Le attrezzature possono essere realizzate da soggetti diversi dalla P.A. previa convenzione con il Comune;
c) la medesima area libera del sig. Luca fa parte di un minimo comprensorio zonale interamente vincolato ad attrezzature di interesse pubblico;
d) in relazione alle attrezzature di interesse comune che interessano, il PdF si devono prevedere degli standard minimi ex D.M. 1444/1968 (sia per le attrezzature scolastiche; sia per i parcheggi; e sia per il verde attrezzato), che sono di stretta ed esclusiva cura della P.A.;
e) nessuno dei predetti standards eccedenti quelli minimi è stato realizzato sino ad oggi da ciò la scadenza per decorso quinquennale del vincolo.
Riveste rilievo decisivo nella presente fattispecie stabilire se le prescrizioni che riguardano il fondo del Nappo hanno carattere espropriativo, come ritiene pure la sentenza esaminata o soltanto conformativo; in questo secondo caso occorre stabilire anche se gli standards eccedenti quelli minimi realizzabili previa convenzione, sono effettivamente realizzabili in base alle prescrizione del Piano che li riguarda.
Appare allora opportuno premettere alcune considerazioni in ordine alla differenza fra vincolo “espropriativo” e vincolo “conformativo”, ai fini della corretta qualificazione giuridica della fattispecie dedotta, per poter poi stabilire se, nel caso che occupa, sussista o meno l’illegittimità del diniego impugnato del permesso di costruire adottato dal Comune di Sarno.
I criteri di individuazione dei vincoli espropriativi o di inedificabilità assoluta, rispetto ai vincoli conformativi, sono stati elaborati con le sentenze della Corte Costituzionale 20 maggio 1999, n. 179 e 18 dicembre 2001, n. 411, ma anche con la più recente sentenza 9 maggio 2003 n. 148, nella parte in cui si riferiscono a vincoli scaduti, preordinati all’espropriazione o sostanzialmente espropriativi, senza previsione di durata e di indennizzo.
In base ai suddetti criteri nonché a quelli elaborati dalla giurisprudenza amministrativa formatasi in relazione all’art. 2 della legge n. 1187 del 1968, i vincoli di piano regolatore, ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, che sono preordinati all’espropriazione ovvero che hanno carattere sostanzialmente espropriativo, tali da determinare l’inedificabilità dei beni colpiti e, dunque, lo svuotamento del contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero da diminuirne in modo significativo il valore di scambio (ex plurimis: Cons. Stato, Sez.V, n. 3 del 3.1.2001 e n. 745 del 24.2.2004), con conseguente violazione sostanziale del III° comma dell’art. 42 Cost.
Tali indicazioni possono valere anche con riferimento all’attuale sistema, che, con l’art. 9, commi 3 e 4, delD.P.R. 8 giugno 2001 n. 327, entrato in vigore il 30 giugno 2003, ha soltanto esplicitato con una diversa terminologia la regola della durata quinquennale, disciplinando espressamente gli istituti della decadenza e della reiterazione.
Invece, la previsione di una determinata tipologia urbanistica non configurante né un vincolo preordinato all’espropriazione né l’inedificabilità assoluta, essendo una prescrizione diretta a regolare concretamente l’attività edilizia, inerisce alla potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall’art. 11 della legge 17 agosto 1942 n.1150.
Si parla, in tal caso, di vincoli urbanistici di tipo “conformativo”, per indicare i vincoli relativi ai beni culturali e paesaggistici, posti direttamente dalla legge ovvero mediante un particolare procedimento amministrativo a carico di intere categorie di beni, in base a caratteristiche loro intrinseche, con carattere di generalità ed in modo obiettivo: tali limitazioni delle facoltà del proprietario ricadono nella previsione non del comma terzo, bensì del comma secondo, dell’art. 42, Cost. e non sono indennizzabili.
In proposito, la precitata sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1999, al punto 5 della parte in diritto, ha precisato che “sono al di fuori dello schema ablatorio espropriativo con le connesse garanzie costituzionali (e quindi non necessariamente con l’alternativa di indennizzo o di durata predefinita) i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene. Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l’iniziativa economica privata – pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento”.
Pertanto, i limiti non ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono vincoli conformativi, connaturali alla proprietà, e non comportano indennizzo.
Inoltre, se pure hanno carattere particolare, i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad es. parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali), sfuggono allo schema ablatorio, con le connesse garanzie costituzionali in termini di alternatività fra indennizzo e durata predefinita.
Se è vero, infatti, che la previsione dell’indennizzo è doverosa non soltanto per i vincoli preordinati all’ablazione del suolo, ma anche per quelli “sostanzialmente espropriativi” (secondo la definizione di cui all’art. 39, comma 1, del precitato D.P.R. 327/2001), è anche vero che non possono essere annoverati in quest’ultima categoria, quei vincoli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l’iniziativa privata in regime di economia di mercato (cfr., ex multis, Cons. St., IV, 28 febbraio 2005, n. 693; VI, 14 maggio 2000, n. 2934; Cass. Civ., I, 26 gennaio 2006, n. 1626 e 27 maggio 2005, n. 11322).
Ciò, in quanto la disciplina urbanistica che ammette la realizzazione di interventi edilizi da parte di privati, seppur conformati dal perseguimento del peculiare interesse pubblico che ha determinato il vincolo, non si risolve in una sostanziale espropriazione, ma solo in una limitazione, conforme ai principi che presiedono al corretto ed ordinario esercizio del potere pianificatorio, dell’attività edilizia realizzabile sul terreno.
Pertanto, siffatta categoria di vincoli, non avendo un contenuto sostanzialmente espropriativo, ma derivando dal riconoscimento delle caratteristiche intrinseche del bene, nell’ambito delle scelte di pianificazione generale, risulta determinata nell’esercizio della potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, per cui ha validità a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall’articolo 11 della legge 1150/1942.
Quanto all’obbligo dell’indennizzo, occorre precisare che il problema della temporaneità e della conseguente indennizzabilità della protrazione dei vincoli urbanistici si può porre solo nei confronti dei vincoli preordinati all’espropriazione o sostanzialmente ablativi: restano, di conseguenza, fuori dai problemi enunciati tutti gli altri vincoli attinenti a destinazioni non coinvolgenti l’esecuzione di opere pubbliche, ma rimessi alla iniziativa (anche concorrente) dei singoli proprietari (come il verde condominiale e gli accessi privati pedonali), trattandosi di vincoli meramente conformativi.
In questa duplice e correlata prospettiva, si può ritenere, in via generale, ad esempio, che le destinazioni relativamente alle zone F del D.M. n.1444/1968, possono essere anche interpretate, se non accompagnate da alcuna altra specificazione o limitazione, nel più generale senso della assentibilità di interventi tanto pubblici quanto privati, con l’unico limite della destinazione di quanto realizzato ad un uso, appunto, “collettivo”, poiché il detto D.M. (che, com’è noto detta le linee guida per la suddivisione del territorio comunale in zone territoriali omogenee, da operarsi nel P.R.G.) afferma che, con la lettera F, debbono essere indicate “le parti del territorio destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale”.
In effetti, in linea generale, le opere di interesse generale costituiscono una categoria logicogiuridica nettamente differenziata rispetto a quella delle “opere pubbliche”, poiché si riferiscono a quegli impianti ed attrezzature che, sebbene non destinate a scopi di stretta cura della pubblica Amministrazione, sono idonei a soddisfare bisogni della collettività, ancorché vengano realizzate e gestite da soggetti privati: in tale ambito, ci si riferisce a supermercati, strutture alberghiere, stazioni di servizio, banche, discoteche, etc. (cfr. Cons. di Stato sez. V, n° 405 del 23.3.1993; Cons. di Stato sez. V, n. 268 del 27.4.1988; Cons. di Stato sez. V, n. 1000 dell’11.7.1975; T.A.R. Campania – Napoli n. 6604 del 23.10.2002; T.A.R. Puglia – Bari n. 4632 del 21.10.2002; T.A.R. Puglia – Bari n. 1157 del 28.2.2002; T.A.R. Basilicata n. 288 del 21.10.1996; T.A.R. Campania -Napoli n. 180 del 22.5.1990; T.A.R. Lombardia – Brescia n. 693 dell’8.9.1987; T.A.R. Piemonte n. 321 del 29.10.1984).
Nel caso di specie, risulta che il fondo di proprietà del sig. Luca, ha la destinazione che si è in precedenza veduta, ovvero espropriativa, come già individuato dal Tar Salerno nella sentenza 112/11.
Applicando i già ricordati principi al caso di specie, discende che le destinazioni a zona pubblica per attrezzature di pubblico interesse ne discende, avuto particolare riguardo alla realizzabilità anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, la sua sussumibilità nello schema ablatorio, piuttosto, che nella tipologia dei vincoli urbanistici di tipo “conformativo”, riconducibili, come tali, alle previsione non del comma terzo, bensì del secondo comma, dell’art. 42, Cost..
Conseguentemente, tale normazione di zona non può avere validità a tempo indeterminato, come stabilito dall’art. 11 della legge 17 agosto 1942 n.1150.
Conclusivamente, nella specie, si deve ritenere che, il fondo di proprietà del Nappo, risulta gravato da vincolo preordinato all’espropriazione.
Infine, poichè il vincolo gravante sul fondo del richiedente, di natura espropriativa, e dunque, come si sostiene, decaduto per decorso del quinquennio ex art. 2 l. n.1187/1968, comunque quest’ultima potrebbe beneficiare della realizzazione di un progetto produttivo riguardante edifici polifunzionali anche da adibire a struttura sanitaria o da adibire ad uffici e commercio”.
Ciò ove si consideri che la sua localizzazione ricade senza dubbio all’interno del centro abitato.
L’assimilazione per effetto della decadenza dell’efficacia quinquennale del vincoloespropriativo com’è noto, dell’area interessata a “zona bianca”, comporta l’applicazione dell’art. 4, u.c., l. 10/1977, (oggi l’art. 136 d..p.r. 38012001) e nella Regione Campania dell’art. 38 1.r. 16/04, in combinato disposto con l’art. 4 l.r.17/82, come modificato dal comma 2 dell’art. 9 1.r. n. 1512005.
In forza del citato art. 38 l.r. n.16/2004, in linea con quanto prevede la normativa nazionale (art.9 d.p.r. 380/2001) nelle aree poste all’interno del centro storico sono consentiti meri interventi conservativi del preesistente edificato; mentre nella aree poste all’esterno del centro storico va rispettato il limite fondiario di 0,03 mc./mq. per l’edificazione a scopo residenziale e, quanto agli edifici o complessi produttivi, l’ulteriore limite massimo, più severo di quello nazionale, di 1/6 di copertura dell’area di proprietà (Cons.Stato sez.IV, n.679/2009).
Il Comune di Sarno dunque non potrà tenere senza termine detta zona qualificata “bianca” ha quindi tutto l’interesse a provvedere sull’azzonamento.LA GIURISPRUDENZA
In riferimento all’azzonamento: il T.A.R. Campania Salerno Sez. II, 24/10/2005, n. 1985, ha statuito che in materia di domanda di rivalutazione della situazione urbanistica a seguito della decadenza (quando sussistente) dei vincoli preordinati all’espropriazione con conseguente mutazione dell’area in “zonabianca“, l’Amministrazione è tenuta a colmare il vuoto di disciplina provvedendo all’azzonamento dell’area (Cfr. Cons. di Stato -Sez. IV – 23/9/2004 n. 6216; id. 22/6/2004 n. 4426; T.A.R. Sicilia -Sez. CT – 25/11/2002 n. 2231; T.A.R. Veneto -Sez. II- 12/7/2002 n. 3469).
Nelle suesposte considerazioni è il parere.
                                                                                    Avv. Luigi Ferrara 

Reinternalizzazione – quale soluzione?

Ai Lavoratori del PST di …..
Parere
In fatto: -il quesito, formulato allo scrivente concerne la qualificazione giuridica del Parco Scientifico … relativamente alla tipologia di Ente con carattere pubblicistico (Ente pubblico non economico e/o a partecipazione mista come Ente societario con prevalente aspetto privatistico). In particolare:
– lareinternalizzazione del servizio pubblico, ossia se sussiste una soluzione alla luce dell’attuale quadro normativo che, pur nel generale obiettivo del contenimento della spesa pubblica, evidenzia criticità rilevanti in tema di finanza pubblica.
– Se in caso di reinternalizzazione del servizio pubblico svolto e di eventuale trasferimento nei ruoli dell’ente locale del personale precedentemente assunto dalla società, possa ritenersi che alle particolari procedure di selezione effettuate per l’assunzione dei lavoratori scelti in base a procedure privatistiche rispettose degli indirizzi MURST, per lavoratori appartenenti a categorie con spiccate capacità specialistiche in ordine alla ricerca e sviluppo scientifico in aree svantaggiate del paese, possa trovare applicazione l’art. 2112 del cod. civ. in materia di mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di ramo di azienda qualora un ente pubblico riprenda una attività precedentemente esercitata e/o che avrebbe dovuto svolgere e non potendo avrebbe dovuto, come nel caso di specie, affidare ad una persona giuridica di diritto privato sulla base di criteri di gestione, esercizio e funzionamento in parte diversi.
-Se sussiste alternativa diversa, ovvero, per l’inserimento della società in un piano strategico regionale per la ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione, per la gestione programmi di intervento straordinario attuati dall’Ente Regione.
Ricostruzione fattuale e normativa
Documentazione esaminata
– Normativa di riferimento; Decreto Ministeriale del 3 febbraio del 1992; L 196/09; 17/02/1982 n. 46, “Industria, Commercio, Artigianato (Credito) Ricerca Scientifica e Tecnologica” e del 01/03/1986 n. 64, “Disciplina organica dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno”; D.P.R. 18 marzo 1997, n. 104(Regolamento recante modalità di attuazione per il trasferimento alle piccole e medie imprese delle conoscenze e delle innovazioni tecnologiche); legge 25/10/1968, n. 1089, sul commercio, industria e artigianato per lo sviluppo del Mezzogiorno, per le funzioni della ricerca e lo sviluppo scientifico; D.Lgs. 13 dicembre 2010, n. 212; D.Lgs. n. 204/1998; D.Lgs. 27 luglio 1999, n. 297, intitolato “Riordino della disciplina e snellimento delle procedure per il sostegno della ricerca scientifica e tecnologica, per la diffusione delle tecnologie, per la mobilità dei ricercatori”; d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163; D.P.R. 168/2010; commi 557, 557 bis e 557 ter dell’art. 1 della legge 296/2006;
D.L n. 98/2011, convertito dalla legge n. 111/2011; art. 2112 Cod. Civ.; dell’art.47, comma 5, dellal. n. 428 del 1990, ex art.19 quaterd.l. 135 del 2009; d.lgs. n. 165/2001.
Considerazioni fattuali.
Dato l’elevato numero di leggi e articoli disciplinanti i quesiti sottoposti alla nostra attenzione, onde facilitare la lettura ed il raccordo del lettore, di seguito si riporteranno, in forma ridotta, la maggior parte degli articoli richiamati.
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I criteri elaborati dalla giurisprudenza al fine di definire, nel concreto, un ente come di natura privata o pubblica non ricevendo indicazioni univoche a livello normativo, anche gli elenchi cui in taluni casi si fa’ rinvio hanno una valenza meramente esemplificativa e non tassativa, da qui occorre precisare, ai fini della presente disamina, che in quello redatto nel 2010 dall’Istat (art 1, co. 2, L 196/09) e di cui al comunicato 24.07.2010, non risultano inserite, ad esempio, società partecipate dagli enti locali.
È dunque a livello interpretativo che occorre enuclearne le caratteristiche soprattutto per la tipologia dei soggetti per cui è parere, ovvero, “il Parco scientifico e Tecnologico di …, società consortile SPA”.
Per una migliore comprensione bisogna partire dalle disposizioni ante 1992, che iniziavano a disciplinare la materia della ricerca scientifica e tecnologica come materia da organizzare in modo decentrato da parte del titolare della funzione MURST.
Secondo il Decreto Ministeriale del 3 febbraio del 1992,“interventi straordinari nel Mezzogiorno, direttive per l’applicazione di intesa di programma per la promozione e lo sviluppo di parchi scientifici e tecnologici nelle aree meridionali” si stabiliva che:
“ … Il Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, il Ministro del bilancio e della programmazione economica e il Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica:… Vista la relazione della commissione tecnico-scientifica. Vista la legge n. 64/1986 e la legge n. 46/1982 e ritenuta la necessità di attuare l’intesa,…;Presentazione delle proposte di parco scientifico e tecnologico.
1. Sono legittimate a proporre iniziative di parchi scientifici e tecnologici, ai sensi dell’intesa di programma citata in premessa, associazioni di soggetti secondo una delle forme previste dalla normativa vigente, comprendenti imprese e loro consorzi, enti pubblici territoriali e non, università, unitamente ad altri organismi di ricerca….
A ciascuna istanza … Le suddette istanze devono essere presentate, in prima applicazione, entro novanta giorni dalla pubblicazione del presente decreto in Gazzetta Ufficiale, direttamente a ciascuna delle seguenti amministrazioni, …:
a) Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno …;
b) Ministero del bilancio e della programmazione economica …;
c) Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica ….
2. … ai fini dell’istruttoria e dell’entità del finanziamento pubblico ad esse attribuibile sono quelle che si configurano:
a) come iniziative attivabili in ambito regionale o interregionale che aggreghino unitariamente e organizzino sul territorio una varietà di interessi scientifici e tecnologici qualificati a caratterizzare le finalità dei parchi;
b) come valorizzazione di investimenti pubblici già realizzati o in itinere, compatibili con le finalità dei parchi;
c) come iniziative in grado di raggiungere nei termini più brevi le condizioni necessarie di autonomia economico-finanziaria;
d) come strumenti di supporto di processi di industrializzazione compatibili con la crescita reale di un sistema economico-produttivo ad alta innovazione tecnologica, in linea con i più avanzati standard europei;
e) come iniziative suscettibili di attivare finanziamenti in altre gestioni pubbliche e private.
5. Le proposte, corredate dal programma di massima e dal progetto di copertura finanziaria, sono valutate sulla base dei seguenti criteri:
a) …;
b) attitudine ad attivare e contribuire alla realizzazione di obiettivi di riequilibrio e di sviluppo socio-economico, tecnico-scientifico e produttivo, anche mediante l’attivazione di piani di investimenti aggiuntivi da parte delle singole imprese e/o loro consorzi;
c) capacità di promuovere programmi di formazione del personale da coinvolgere nelle attività di ricerca e di gestione del parco;
d) …;
Ai fini di cui sopra, il Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno può disporre l’attuazione di studi, azioni di promozione, di accompagnamento e di monitoraggio, nonchè ogni altra attività idonea a favorire, sotto gli aspetti sia strategici che gestionali, la più rispondente attuazione dell’intesa di programma per il miglior raggiungimento degli obiettivi generali.
6. …;
7. …;
8. Per la realizzazione delle iniziative si procederà mediante l’utilizzazione degli strumenti di competenza delle amministrazioni partecipanti all’intesa e, in particolare, ove ritenuto opportuno, ricorrendo alla procedura dell’«Accordo di programma» e costituendo, ove occorra, congiunti gruppi di lavoro.
9. La vigilanza ed il controllo degli investimenti spetta, per la parte da ciascuna finanziata, ad ognuna delle amministrazioni competenti.
10….. Omissis.”.
Tale decreto attuava le leggi oggi abrogate del 17/02/1982 n. 46, “Industria, Commercio, Artigianato (Credito) Ricerca Scientifica e Tecnologica” e del 01/03/1986 n. 64, “Disciplina organica dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno”, oggi entrambe abrogate. La prima disposizione concerneva: “Interventi per i settori dell’economia di rilevanza nazionale”, che all’art. 2, stabiliva:
“ … 2. [Possono beneficiare degli interventi del Fondo di cui all’articolo precedente (ovvero, Fondo speciale per la ricercaapplicata presso l’Istituto mobiliare italiano che lo amministrava con le modalità proprie dell’istituto ed in base ad apposita convenzione da stipularsi tra il Ministro per il tesoro e l’IMI … fondo a carattere rotativo, art. 4 legge 25 ottobre 1968, n. 1089, “legge oggi abrogata dal D.Lgs. 13 dicembre 2010, n. 212, Semplificazione della legislazione”),i seguenti soggetti: a) … omissis; e) centri di ricerca industriale con personalità giuridica autonoma, … f) consorzi tra imprese industriali ed enti pubblici; g) istituti ed enti pubblici di ricerca a carattere regionale;Il Fondo di cui all’articolo precedente finanziva i seguenti tipi di attività:1) …omissis;2) programmi nazionali di ricerca finalizzati allo sviluppo di tecnologie fortemente innovative e strategiche suscettibili di traduzione industriale nel medio periodo;3) le iniziative per il trasferimento alle piccole e medie imprese delle conoscenze e delle innovazioni tecnologiche nazionali;4) i contratti di ricerca che pubbliche amministrazioni, anche regionali, propongono per la realizzazione da parte dei soggetti di cui al precedente primo comma”.
Cosa più interessante era che: “La partecipazione degli enti scientifici di ricerca e sperimentazione ai consorzi di cui alla letteraf) del precedente primo comma è deliberata dall’ente pubblico di ricerca ed approvata dal Ministro vigilante sentito il parere del Ministro del tesoro e del Ministro per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica”. 
Di tal che è chiaro che si tratta di funzioni delegate di titolarità del Ministero che possono esercitare sempre per sub delega di funzioni (trasferimento) agli enti pubblici i quali perseguiranno gli obbiettivi della ricerca attraverso società partecipate e/o senza escludere che gli stessi obbiettivi li può perseguire direttamente l’organo statale di riferimento oggi MIUR o MISE attraverso programmi affidati alle società partecipate come appena riportato nella norma alla lettera f), trattandosi di decentramento organizzativo.
A conforto ed a conferma la stessa disciplina previgente, L. 17/02/1982, n. 46, prima richiamata, all’art. 3, stabiliva che:
“ … [Le iniziative per il trasferimento alle piccole e medie imprese delle conoscenze e delle innovazioni tecnologiche nazionali, finanziabili nelle forme previste dallalegge 25 ottobre 1968, n. 1089, e successive integrazioni e modificazioni, riguardano sia la costituzione e l’ampliamento di strutture di trasferimento sia l’attuazione di specifici programmi di trasferimento.
Presso il Ministro per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica è costituito il comitato per il trasferimento tecnologico formato da esperti nominati dal Ministro su designazione degli enti pubblici di ricerca e delle associazioni degli imprenditori e degli artigiani. Il comitato ha lo scopo di definire le linee di un sistema di iniziative e di procedure per il trasferimento tecnologico].
Per le modalità di attuazione del trasferimento di cui al presente articolo, vige attualmente ilD.P.R. 18 marzo 1997, n. 104(Regolamento recante modalità di attuazione per il trasferimento alle piccole e medie imprese delle conoscenze e delle innovazioni tecnologiche),il quale a sua volta stabilisce all’art. 4, co. 2, che:
Per gli interventi di cui all’articolo 1, comma 1, letterac), il Ministro dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica, con decreto adottato di concerto con il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sentito il Comitato tecnico-scientifico di cui all’articolo7dellalegge n. 46 del 1982, individua le linee strategiche per la costituzione e l’ampliamento di strutture di trasferimento tecnologico, sulla base anche dei risultati di una ricognizione delle esistenti strutture di trasferimento, condotta nell’ottica della loro specializzazione tecnologica, della loro distribuzione sul territorio, delle loro strutture organizzative, della loro capacità d’impatto sul sistema produttivo e della loro integrazione con i sistemi di diffusione della tecnologia operanti a livello internazionale. Per la realizzazione di tale ricognizione il Ministero dell’università e della ricerca scientifica può stipulare apposite convenzioni con organismi specializzati.
Appare subito chiara la natura pubblicistica dell’Ente PST come Ente destinatario di funzioni statali, nella ricerca scientifica e tecnologica, direttamente trasferibili o trasferite agli enti pubblici locali che a loro volta demandano alle strutture scientifiche e tecnologiche come appunto strutture di trasferimento di cui alle disposizioni normative sopra richiamate.
A tal proposito, venne creato il Parco Scientifico e Tecnologico di … che nasce il 21 luglio 1992, grazie ad una legislazione nazionale promotrice di un programma di Governo che dava la possibilità di fare sviluppo innovativo nel Mezzogiorno d’Italia, che creava per la prima volta delle convergenze tra aziende ed istituzioni, ispirandosi ai modelli statunitensi, ma attraverso, pur sempre una normativa speciale come quella per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno. Nasceva così, una public company, cioè una società molto ampia, con circa 120 soci tra cui le principali istituzioni del beneventano, avellinese e salernitano nonché molte imprese del settore industriale, dell’agro alimentare ed altre ancora con specificità nel settore informatico. I soci fondatori risultavano essere vari enti pubblici tra cui: il Comune di …; la Provincia di …; l’Amministrazione Provinciale di Benevento; la Comunità Montana della Valle dell’Irno; il Comune di Ariano Irpino; la CGIL Camera del Lavoro di …; l’Università degli studi di …; il Centro di Ricerca in Matematica Pura ed Applicata; la Fondazione Antonio Genovesi; l’Associazione degli Industriali della Provincia di …; l’Unione degli Industriali di Benevento. Attualmente la forma societaria risulta essere quella consortile per azioni con partecipazione maggioritaria di capitale pubblico.
Per statuto l’amministrazione della società consortili, affidata ad un Consiglio d’Amministrazione composto da 5 membri, è deputato a curare le proposte e schede di cui all’abrogato Decreto 3 febbraio del 1992 “Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno” (direttive per l’applicazione di intesa di programma per la promozione e lo sviluppo di parchi scientifici e tecnologici nelle aree meridionali).
La Regione, successivamente alla costituzione, è entrata a far parte degli altri enti partecipati affidando al Parco diversi trasferimenti.
La struttura occupa ben diciannove dottori ricercatori.
La figura dell’Ente Parco Scientifico e Tecnologico alla data della sua formazione rappresentava un nuovo quid pluris tant’è che lo stesso Consiglio di Stato nell’adunanza del 4 maggio 1994, parere n. 757, riaffermava la necessità di una preventiva ed adeguata informativa sulla nuova figura che sembrava trovare la sua base normativa e tecnica nell’intesa di programma del 7 dicembre 1990, tra i Ministri dell’Università, del Bilancio e nel Mezzogiorno, sia nei DD.MM. 3 dicembre 1992 e 25 marzo 1994.
Da tale ricostruzione emerge anche il ruolo dell’inquadramento del personale delle predette aziende, secondo la previgente normativa, Legge 01/03/1986, n. 64, (Mezzogiorno), art. 16, ai sensi del quale le amministrazioni utilizzatrici, al termine dell’ufficio speciale, ben potevano attuare corsi di qualificazione e di aggiornamento sulla base di criteri e modalità fissati con decreto del Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. Al termine dei predetti corsi il personale stesso veniva sottoposto a prove selettive ai fini di un suo eventuale inserimento nei ruoli degli organismi dell’intervento straordinario, nei quali venivano altresì inseriti i vincitori dei concorsi già espletati alla data di entrata in vigore della stessa legge.
Al complesso di queste disposizioni non sembra contestabile la natura di ente pubblico non economico alla PST come organo della P.A. non inserito nella struttura ministeriale ma di cui la struttura si serve ed utilizzato in quei settori di attività amministrativa per i quali ad una riforma in senso privatistico degli strumenti pubblici, si è preferita la realizzazione di entità sempre pubblica, ma tale da consentire una gestione manageriale dei pubblici interessi in modo più agile e penetrante, scindendo il momento politico-decisionale da quello tecnico-applicativo. Ed in questa prospettiva deve essere valutata la ricostruzione normativa citata, secondo la quale “gli atti compiuti dalla PST per l’attuazione dei suoi compiti istituzionali secondo schemi di contratto approvati dal MIUR e MIR disciplinati sì dalle norme di diritto privato ma per fini istituzionali di sviluppo sempre relativo ad attività commerciale. Dall’altro lato, l’indiscutibile derivazione della PST dal C.I.V.R., oggi abrogato e dall’attuale CIPE non può che avere una natura di ente pubblico non economico alla stregua di altri Enti così riconosciuti e come recentemente ribadito (“ex plurimis”, Cass., S.U. 30 dicembre 1999 n. 947). In definitiva, quel che rileva è il criterio della prevalenza che, nella specie, evidenzia la netta preponderanza degli scopi di ricerca scientifica e tecnologica, di indubbio interesse pubblico, rispetto all’attività di carattere imprenditoriale da implementare.
In diritto.
– Ricostruzione teorico normativa applicabile.
– Figura giuridica del Parco Scientifico e Tecnologico.
Dalla ricostruzione normativa richiamata in premessa già è facile dedurre che siamo in presenza di una impresa pubblica in tal senso non meglio definita nelle previgenti disposizioni legislative, ma che in seguito assumerà la connotazione specifica di “organismo di diritto pubblico” istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, avente carattere non industriale o commerciale.
In effetti, la legge 25/10/1968, n. 1089, sul commercio, industria e artigianato per lo sviluppo del Mezzogiorno, per le funzioni della ricerca e lo sviluppo scientifico, all’art. 4, attribuiva le risorse finanziarie agli enti pubblici economici e alle società di ricerca scientifica, solo attraverso le scelte dei settori d’intervento che il CIPE determinava su proposta del Ministro per il coordinamento della ricerca scientifica e tecnologica, finanziamenti deliberati infine dall’Istituto Mobiliare Italiano.
Il provvedimento oggi è stato abrogato dal combinato disposto del comma 1 dell’art. 1 e dell’allegato alD.Lgs. 13 dicembre 2010, n. 212,a decorrere dal 16 dicembre 2010. Ma ciò per rendere l’idea dell’interesse pubblico sotteso alle società come la PST, tant’è che anche la previgente L 17/02/1982, n. 46, stabiliva in modo in equivoco che potevano beneficiare degli interventi del fondo i consorzi tra imprese industriali ed enti pubblici, art. 2, co. 1, lett. f).

2.[Possono beneficiare degli interventi del Fondo di cui all’articolo precedente i seguenti soggetti:
a) … omissis;
fconsorzi tra imprese industriali ed enti pubblici;
g) omissis…
Il Fondo di cui all’articolo precedente finanzia i seguenti tipi di attività:
1) progetti di ricerca applicata definiti autonomamente e realizzati dai soggetti di cui al precedente primo comma;
2) programmi nazionali di ricerca finalizzati allo sviluppo di tecnologie fortemente innovative e strategiche suscettibili di traduzione industriale nel medio periodo;
3) le iniziative per il trasferimento alle piccole e medie imprese delle conoscenze e delle innovazioni tecnologiche nazionali;
4) i contratti di ricerca che pubbliche amministrazioni, anche regionali, propongono per la realizzazione da parte dei soggetti di cui al precedente primo comma.
La partecipazione degli enti scientifici di ricerca e sperimentazione ai consorzi di cui alla letteraf) del precedente primo comma è deliberata dall’ente pubblico di ricerca ed approvata dal Ministro vigilante sentito il parere del Ministro del tesoro e del Ministro per il coordinamento delle iniziative per la ricerca scientifica e tecnologica].
L’articolo oggi è stato abrogato dall’art.9,D.Lgs. 27 luglio 1999, n. 297, con la decorrenza ivi indicata. Si veda anche, l’art.21,L. 16 gennaio 2003, n. 3.
Ulteriori centri di coordinamento per la ricerca venivano in essere con le successive leggi, ovvero, il D.Lgs. n. 204/1998, introduceva una ulteriore disciplina di programmazione per la ricerca scientifica e tecnologica:
1.Programmazione.
1. Il Governo, nel documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF), determina gli indirizzi e le priorità strategiche per gli interventi a favore della ricerca scientifica e tecnologica, definendo il quadro delle risorse finanziarie da attivare e assicurando il coordinamento con le altre politiche nazionali.
2. omissis … ai sensi dell’articolo 2 del presente decreto, il Programma nazionale per la ricerca (PNR), di durata triennale. 
Omissis …
4. Le pubbliche amministrazioni, nell’adottare piani e programmi che dispongono, anche parzialmente, in materia di ricerca, con esclusione della ricerca libera nelle università e negli enti, operano in coerenza con le finalità del PNR, assicurando l’attuazione e il monitoraggio delle azioni da esso previste per la parte di loro competenza. I predetti piani e programmi sono comunicati al Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica (MURST) entro trenta giorni dalla data di adozione o di approvazione.
5. … comissis.
Il D.Lgs. 05/06/1998 n. 204, distribuiva le competenze del CIPE ed istituiva all’art. 5, il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca d’intesa con le P.A, progettava ed effettuava attività di valutazione esterna di enti di ricerca da esse vigilati o finanziati, nonché di progetti e programmi di ricerca da esse coordinati o finanziati.
Per la soppressione del Comitato di indirizzo previsto dal’articolo richiamato si veda il comma 141 dell’art.2,D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, come modificato dalla relativa legge di conversione, nonché ilD.P.R. 14 maggio 2007, n. 97.
Nel 1999, dal variegato stato di norme si ebbe un primo riordino della materia a sostegno della ricerca, si intervenne con il D.Lgs. 27 luglio 1999, n. 297, intitolato“Riordino della disciplina e snellimento delle procedure per il sostegno della ricerca scientifica e tecnologica, per la diffusione delle tecnologie, per la mobilità dei ricercatori”, ove nel campo d’applicazione di cui al Titolo I, art. 2, co. 1, lett. f bis (aggiunta dall’art. 105, comma 1, lett.b),L. 23 dicembre 2000, n. 388), si menzionava per la prima volta, quali soggetti ammissibili, alla disciplina di sostegno alla ricerca industriale, i parchi scientifici e tecnologici.
“art. 1, Campo di applicazione.
1. Al fine di rafforzare la competitività tecnologica dei settori produttivi e di accrescere la quota di produzione e di occupazione di alta qualificazione, nel quadro del programma nazionale per la ricerca (PNR) di cui all’articolo1, comma 2, deldecreto legislativo 5 giugno 1998, n. 204, ove adottato, dei programmi dell’Unione europea e degli obiettivi di cui all’articolo2dellalegge 7 agosto 1997, n. 266, il presente titolo, nel rispetto della normativa comunitaria vigente in materia di aiuti di Stato per la ricerca e lo sviluppo e per quanto di competenza del Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica (MURST), disciplina gli interventi di sostegno alla ricerca industriale, alla connessa formazione e alla diffusione delle tecnologie derivanti dalle medesime attività.
2. omissis … .
3. Ai sensi del presente titolo si intendono:
a) per imprese, i soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, letterea) eb);
b) per centri di ricerca, i soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, letterac);
c) per soggetti industriali, quelli di cui all’articolo 2, comma 1, letterea),b) ec);
d) per soggetti assimilati, quelli di cui all’articolo 2, comma 1, letterad);
e) per soggetti assimilati in fase d’avvio, quelli di cui all’articolo 2, comma 1, letterae);
f) per soggetti associati, quelli di cui all’articolo 2, comma 2;
g) per aree depresse del paese, quelle di cui agli obiettivi 1, 2 e 5-b), di cui alregolamento (CEE) 2052/88del consiglio del 24 giugno 1988, relativo ai fondi strutturali dell’Unione europea e successive modificazioni, nonché le zone ammesse a deroga ai sensi dell’articolo 92.3, letterea) ec), del Trattato di Roma;
h) per CIVR, il comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca, di cui all’articolo5deldecreto legislativo 5 giugno 1998, n. 204.
Art. 2,
2.Soggetti ammissibili.
1. Sono soggetti ammissibili agli interventi di cui al presente titolo:
a) omissis … ;
f) università, enti di ricerca anche a carattere regionale, ENEA ed ASI per i casi di cui alle lettered) ede) e al comma 2, nonché per le attività di cui all’articolo 3, comma 1, letterac), numero 2 e per attività, proposte in collaborazione con i soggetti di cui alle letterea),b),c),d),e), di ricerca e di alta formazione tecnologica finalizzate agli obbiettivi di cui all’articolo 1, comma 1(3);
f-bis) i parchi scientifici e tecnologici istituiti con legge regionale.
2. omissis … .
Da ciò, ancora una volta, si evince che gli organi come il PST svolgono funzioni o servizi di rilevante interesse pubblico e per il cui funzionamento è necessaria la personalità di diritto pubblico che si può ritenere instaurata anche a seguito della partecipazione maggioritaria di enti pubblici nella sua organizzazione attraverso lo scopo costitutivo, nonché la cui gestione sia soggetta a controllo degli enti partecipanti (si v. a titolo di es. prot. 1228 del 10/06/11, richiesta annuale della Regione Campania circa il personale impiegato presso il PST, le modalità di assunzione, copia del bilancio, del Collegio sindacale, verbale di assemblea ecc., si v. anche, il resoconto audizione regionale n. 32 del 10 dicembre 2010).
Quanto affermato attualmente trova conforto nella novella legislativa dell’art. 3, c. 26, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163:
26. L’«organismo di diritto pubblico» è qualsiasi organismo, anche in forma societaria:
– istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale;
– dotato di personalità giuridica;
– la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico. 
Tale definizione ricalca pedissequamente la definizione di organismo di diritto pubblico data dall’art. 1, lett. b), della direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi.
L’art. 1, lett. b) della citata direttiva stabilisce che per “organismo di diritto pubblico si intende qualsiasi organismo:
– istituito per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, e avente personalità giuridica, – e la cui attività è finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti locali o da organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione è soggetta al controllo di quest’ultimi, oppure il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza è costituito da membri più della metà dei quali è designata dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico.
I giudici di diversi Stati membri, tra i quali anche l’Italia, hanno sottoposto alla Corte di giustizia delle Comunità Europee, ai sensi dell’art 234 CE, una questione pregiudiziale vertente sull’interpretazione dell’art. 1, lett. b) della direttiva summenzionata a seguito di tali richieste la Corte ha statuito (v. sentenza 10 novembre 1998, causa C-360/96, Gemeente Arnhem e Gemeente Rheden contro BFI Holding BV) che l’art. 1, lett. b), secondo comma, della direttiva 92/50, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, a termini del quale “per organismo di diritto pubblico si intende qualsiasi organismo istituito per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale”, deve essere interpretato nel senso che il legislatore ha operato una distinzione tra bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, da un lato, e bisogni di interesse generale aventi carattere industriale o commerciale dall’altro; che la nozione di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale non esclude bisogni che siano o possano essere parimenti soddisfatti da imprese private; che la circostanza che esista una concorrenza non è sufficiente ad escludere la possibilità che un ente finanziato o controllato dallo Stato, da enti territoriali o da altri organismi di diritto pubblico si lasci guidare da considerazioni non economiche che tuttavia l’esistenza della concorrenza non è del tutto irrilevante ai fini della soluzione della questione se un bisogno di interesse generale rivesta carattere non industriale o commerciale; che l’esistenza di una concorrenza articolata, in particolare la circostanza che l’organismo interessato agisca in situazione di concorrenza sul mercato, può costituire un indizio a sostegno del fatto che non si tratti di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale.
Alla luce di quanto precede devesi ritenere che il surriportatoD.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163,art.3, comma 26, che dà la definizione di organismo di diritto pubblico (essendo questa nozione autonoma del diritto comunitario), deve essere interpretato alla stregua della interpretazione data dalla giurisprudenza comunitaria alla definizione di organismo di diritto pubblico contenuta nelle direttive summenzionate di coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, forniture e lavori.
La norma predetta prevede tre condizioni perché ricorra la figura dell’organismo di diritto pubblico, condizioni che devono sussistere cumulativamente secondo la interpretazione data dal Giudice Comunitario, e precisamente: 1) che l’organismo (anche in forma societaria) venga istituito per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale;2) che sia dotato di personalità giuridica; 3) che la sua attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo di amministrazione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico.
Il PST di …, come risulta dal suo statuto, è una società consortile per azioni; quindi è soggetto dotato di personalità giuridica.
Risulta, altresì, dallo statuto, che detta società fu ed è costituita con partecipazione maggioritaria del capitale pubblico, che la nomina della maggioranza dei consiglieri fu ed è riservata per la maggioranza a soggetti rappresentativi di enti pubblici, che le azioni del 50,01% del capitale sociale sono possedute unicamente dagli Enti Pubblici territoriali e dalla Camera di Commercio di …, nonché da ogni altro ente ed organismo pubblico costituente e non.
Risultano, pertanto, soddisfatte le condizioni di cui ai numeri 2 e 3 perché il PST di … possa essere considerato un organismo di diritto pubblico soprattutto per le finalità di interesse generale come sopra specificato.
Ma secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee, tutti i requisiti indicati ai punti 1), 2) e 3) devono sussistere cumulativamente, perché possa configurarsi un organismo di diritto pubblico.
La verifica se detto Ente sia stato istituito per soddisfare esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale, risiede nelle discipline riportate sia in premessa che in questa sezione.
La giurisprudenza del Giudice Comunitario ha chiarito che le esigenze di interesse generale vanno distinte in due categorie: esigenze aventi carattere industriale o commerciale ed esigenze che non hanno tale carattere ed ha indicato tutta una serie di indizi, che consentono di stabilire se le esigenze che devono essere soddisfatte rientrano nell’una o nell’altra categoria.
Posizione sostanzialmente analoga è quella sottesa agli orientamenti al riguardo della giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Per la verità, con molto anticipo rispetto alle SSUU della Cassazione, ha preso atto e pienamente condiviso l’orientamento comunitario in tema di organismo di diritto pubblico.
Rileva a tal proposito, quale leading case, la sentenza 1478/1998 che, in merito alla spa interporto Toscano, riconoscendone la natura di organismo di diritto pubblico ha evidenziato che “… l’ordinamento comunitario ha inteso “snidare la pubblicità reale” che si nasconde sotto diverse forme prescindendo dal criterio della pubblicità formale ed optando per la pubblicità sostanziale del soggetto aggiudicatore. In altre parole la sottoposizione alle regole procedurali, mercé la qualificazione di un soggetto come pubblico ai fini degli appalti, finisce per prescindere dall’attribuzione della personalità giuridica pubblicistica da parte dello Stato nazionale e va a reggersi sul dato sostanziale relativo all’esercizio da parte dei poteri pubblici di un’influenza dominante sulla proprietà, sulla partecipazione finanziaria e sull’ordinamento dell’impresa…..”.
La classificabilità come organismo di diritto pubblico, ove non ricorrano ulteriori elementi tesi a comprovare una effettiva attrazione nell’orbita pubblicistica, anche per il C.d.S. comporta solo l’applicazione della normativa in tema di evidenza pubblica (attuale D.Lgs. 163/06, richiamato) in tema di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Perché possa sostenersi la natura pubblica dell’ente societario occorre,infatti, che rilevi:
1) il perseguimento di una finalità pubblica;
2) l’impiego, quindi, di risorse di diritto pubblico;
3) la presenza di un regime giuridico in deroga rispetto a quello proprio della società di diritto commerciale.
Dalla lettura dell’Atto Costitutivo del PST di … si legge che a costituirlo furono gli enti pubblici con l’Università degli Studi di …, e la Camera del Lavoro Territoriale di … ecc., all’art. 2 dello statuto (finalità) risulta che il PST di … è a servizio anche delle altre provincie ed ha per oggetto di ottenere dalle Autorità di Governo l’ammissione ai benefici previsti dalle intese di programma in materia ( interesse nazionale e locale come sopra riportato nelle disposizioni richiamate), tra gli altri obiettivi si v. l’art. 2. Risulta, altresì, che per realizzare la finalità di costruzione è previsto che la società possa compiere una serie di attività e precisamente: a) promuovere iniziative tra imprese, enti, associazioni ed autorità pubbliche e private, per attivare studi e progetti di trasferimento tecnologico, ai fini formativi, di ricerca e innovazione tramite progetti generali ed esecutivi; b) di conseguenza il parco può accogliere nel suo ambito istituti e laboratori universitari, laboratori pubblici ecc.; c) compiere qualsiasi altra operazione necessaria o utile al raggiungimento dello scopo social consortile per lo sviluppo delle aree depresse per il Mezzogiorno.
Dal contenuto dello statuto emerge chiaramente che la società consortile in questione non è soggetto la cui attività si fonda su criteri di rendimento, di efficacia e di redditività, che non opera in un ambiente concorrenziale che deve sopportare direttamente i rischi economici connessi alle attività previste dall’oggetto sociale (il perseguimento dell’oggetto sociale è improntato, quindi, a criteri di economicità).
Reinternalizzazione del servizio pubblico. Eventuale soluzione nel generale obiettivo del contenimento della spesa pubblica e criticità rilevanti in tema di finanza pubblica.
Stabilito il carattere partecipato pubblico del PST di … occorre capire quale disciplina dovrà applicarsi ai lavoratori ricercatori in esso impiegati nel caso di liquidazione della società.
Premesso che appartiene alla sfera discrezionale della singola amministrazione la scelta concreta delle modalità gestionali più idonee a soddisfare le varie esigenze connesse alle finalità istituzionali, si rileva, a livello normativo, un indirizzo progressivamente più restrittivo in relazione all’affidamento di incarichi esterni alle amministrazioni e, in particolare in ordine al processo di esternalizzazione dei servizi propri degli enti territoriali.
Partendo da questa premessa va esaminata la normativa recente in tema di finanza pubblica da cui non è possibile prescindere se si vuole procedere ad una reinternalizzazione di personale di ente partecipato.
Occorre, quindi, intraprendere un breve excursusnormativo della materia partendo dalla gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica, disposizioni che riconducono la disciplina anche agli enti partecipati con capitale non interamente pubblico, ovvero, possiamo riportare da subito le disposizioni di cui all’art. 23 bis, legge n. 133/2008 (e dal D.P.R. 168/2010), sostanzialmente rielaborate nell’art. 4, legge n. 148/2001, che ha ridisegnato il quadro normativo concernente le procedure di conferimento della gestione a privati. Le nuove regole, nel confermare il precedente sistema hanno esteso alle società a partecipazione pubblica, anche minoritaria, l’obbligo di adottare con propri provvedimenti criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei principi di cui al d.lgs. n. 165/2000. Tale nuovo quadro ordinamentale – sostanzialmente improntato ad un disfavore verso l’affidamento all’esterno di servizi e attività, però considerate non strategiche (o comunque non compatibili con le finalità istituzionali dell’ente locale) ha avuto ragione soprattutto per l’attuale contingenza, ad un più ampio sforzo di contenimento delle spese correnti del settore, diretto ad evitare il rischio di un ulteriore peggioramento dei saldi di finanza pubblica.
Si tratta di un obiettivo cui sostanzialmente rispondono anche i principi generali che ispirano il legislatore in materia di spese per il personale degli enti locali che soggiacciono ai vincoli del patto di stabilità interno. Le disposizioni attualmente vigenti prevedono infatti, da un lato, l’obbligo di ridurre annualmente la spesa per il personale (commi 557, 557 bis e 557 ter dell’art. 1 della legge 296/2006 come successivamente più volte modificato) e, dall’altro, la necessità di rispettare un rapporto strutturale tra spese del personale e spese correnti, cui si riconduce la possibilità di procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite del 20 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente. Ai fini del computo di detta percentuale si calcolano anche le spese sostenute dalle società a partecipazione pubblica locale che svolgono funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale non avente carattere industriale né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica (art. 20, comma 9 del DL n. 98/2011, convertito dalla legge n. 111/2011).
Le disposizioni si riferiscono principalmente a società svolgenti compiti o servizi di scarsa rilevanza per gli enti certamente non paragonabili alle finalità di ricerca come quelle attività svolte dal PTS.
Una reinternalizzazione delle attività e dei servizi alla luce delle modifiche introdotte dal citato art. 20, comma 9 del DL n. 98/2011 (convertito dalla legge n. 111/2011) e, più in generale, dell’avviato processo di consolidamento dei conti degli enti locali con quelli dei propri enti ed organismi strumentali, aziende, società controllate e partecipate, dovrebbe essere improntata su alcuni criteri che dovrebbero seguire gli enti locali nel confrontare il volume della spesa per il personale riferita ad annualità diverse e sostenuta in differenti forme organizzative (gestione diretta o gestione esternalizzata) riconducendo ad omogeneità le due grandezze da comparare, attraverso una riclassificazione delle voci, tale da verificare se si è in presenza di una politica di contenimento ovvero di espansione.
Detta operazione sarebbe di contenimento se si valuta la prospettiva degli introiti di derivazione comunitaria, statale e regionale (da cui non si può non prescindere trattandosi di materia relativa alla ricerca scientifica e tecnologica) rispetto al costo degli stipendi per i ricercatori che andrebbero ricollocati al massimo di due per ogni ente locale o altra società territoriale.
Ciò consentirebbe di valutare il rispetto dei vincoli finanziari e assunzionali sulla base del consolidamento delle voci di spesa del personale e, conseguentemente, di una dotazione organica complessiva – nel caso in cui l’esternalizzazione si stia sopprimendo o riducendo, comparando il tutto con la sterilizzata dotazione organica del personale degli enti locali coinvolti e ciò in misura omogenea alla riduzione delle funzioni esternalizzate.
Dovrebbero restare in ogni caso interamente vigenti – sia pur riferiti alle voci consolidate – gli attuali vincoli imposti alle autonomie territoriali quali: il rispetto del patto di stabilità interno, la progressiva riduzione della spesa corrente (art. 1, comma 557, della legge 296/2006 e successive modifiche), il rapporto tra le spese di personale e le spese correnti inferiore al 50 per cento (art. 76, della legge 133 del 2008, e successive modifiche), il limite alle assunzione nell’ambito del 20 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente.
Per le società a non a totale partecipazione pubblica le modalità di calcolo della spesa di personale degli enti e delle società partecipate deve essere rapportato all’art. 18, comma 1 della legge 133/2008, come integrato dall’art. 4, comma 17 del DL n. 138/2011, convertito dalla legge n. 148/2011;
Il testo vigente, a seguito delle modifiche ed integrazioni introdotte dall’art. 19 della legge n. 102/2009, è il seguente:
Art. 18. Reclutamento del personale delle società pubbliche.
1. A decorrere dal sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge, le società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3 dell’articolo 35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
2. Le altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità.
2-bis. Le disposizioni che stabiliscono, a carico delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale si applicano, in relazione al regime previsto per l’amministrazione controllante, anche alle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 5 dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311. Le predette società adeguano inoltre le proprie politiche di personale alle disposizioni vigenti per le amministrazioni controllanti in materia di contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per consulenze. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con i Ministri dell’interno e per i rapporti con le regioni, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, da emanare entro il 30 settembre 2009, sono definite le modalità e la modulistica per l’assoggettamento al patto di stabilità interno delle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né commerciale, ovvero che svolgano attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica.
La norma sottopone ai limiti del patto di stabilità interno in relazione al regime previsto per l’amministrazione controllante, anche alle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo, che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica.
La norma avrebbe dovuto condizionare le società partecipate con le caratteristiche previste alla sua applicazione (dal momento della sua vigenza, quindi dal novembre 2009) al rispetto delle norme disciplinanti il patto di stabilità ed i relativi limiti alle assunzioni applicate ai Comuni soci.
Tuttavia, l’art. 18, comma 2-bis della legge n. 133/2008, per essere attuato richiede l’emanazione di un decreto interministeriale che, ad oggi, non risulta essere stato ancora adottato.
L’art. 18 della legge n. 133/2008, come modificato e integrato dall’art. 19 della legge n. 102/2009, ha valenza generale e, soprattutto, e va riportato in combinazione con quanto disposto dall’art. 23-bis della stessa legge n. 133/2008, il quale stabiliva al comma 10, nel testo da ultimo modificato dall’art. 15, comma 1, lett. e) e f), del decreto legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, che “il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni ed entro il 31 dicembre 2009, sentita la Conferenza unificata di cui all’ articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, nonché le competenti Commissioni parlamentari, adotta uno o più regolamenti, ai sensi dell’ articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di: a) prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari cosiddetti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno, tenendo conto delle scadenze fissate al comma 8, e l’osservanza da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale”.
Il d.P.R. n. 168/2010, attuativo dell’art. 23-bis della legge n. 133/2008, ha previsto all’Art. 5, un Patto di stabilità interno e contestualmente all’art. 7, ha disciplinato le modalità di assunzione di personale da parte delle società «in house» e delle società miste.
Tuttavia, la sentenza della Corte Costituzionale n. 325 del 3-17 novembre 2010, ha dichiarato una sola parte dell’art. 23-bis della legge n. 133/2008 costituzionalmente illegittima: proprio quella relativa al comma 10, inerente, tra le materie oggetto del regolamento, la disciplina della sottoposizione delle società partecipate al patto di stabilità.
La Corte Costituzionale ha infatti affermato che è fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento alla prima parte della lettera a) del comma 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, in cui si prevede che la potestà regolamentare dello Stato prescriva l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno.
L’ambito di applicazione del patto di stabilità interno attiene infatti alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 284 e n. 237 del 2009; n. 267 del 2006), di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto l’art. 117, sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potestà regolamentare.
In riferimento alla seconda parte della lettera a), che stabilisce che la potestà regolamentare dello Stato prescriva alle società in house e alle società a partecipazione mista pubblica e privata di osservare «procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale», la Corte ha ritenuto la questione non fondata.
Da ciò ne discende quindi che le Società affidatarie (dirette) di servizi pubblici locali, sia in house sia miste, sono tenute a dotarsi di regole “pubblicistiche” per le gare (e questo resta disciplinato dall’art. 6 del d.P.R. n. 168/2010) e per le assunzioni di personale (come previsto dall’art. 7 del d.P.R. n. 168/2010, con rinvio ai principi dell’art. 35, comma 3 del d.lgs. n. 165/2001),ma non sono tenute a rispettare i limiti del patto di stabilità interno, in quanto per le stesse il quadro normativo specifico è venuto meno.
Ciò sta a significare che per i lavoratori del PST di …, in assenza di norme specifiche sull’assoggettamento al patto di stabilità delle società affidatarie sembrerebbe essere fatte salve le procedure di assunzione, a qualsiasi titolo, realizzate entro il 31 dicembre 2010 (tutti i ricercatori infatti risultano assunti da oltre 10 anni), salva la necessità di una valutazione (allo stato del tutto teorica) delle implicazioni prima richiamate per quanto riguarda le limitazioni all’assunzione di personale desumibili dal sistema normativo applicabile agli enti locali partecipanti. Si configura pertanto, a nostro avviso, una rinegoziazione del rapporto di lavoro per i ricercatori del PST.
Allo stato l’interpretazione rigorosa al patto di stabilità interno operato dall’attuale giurisprudenza delle Corti dei Conti (tra l’altro anch’essa combattuta tra una linea interpretativa permissiva e l’atra di rigore), non è altro che lo spettro speculare di disposizioni vincolistiche assai variegate in materia di spese del personale.
Da un lato quindi è ammesso il transito del personale che, transitando dai ruoli dell’ente locale, si presume sia stato assunto nel rispetto delle procedure selettive pubbliche previste dalla legge per l’instaurazione del rapporto di pubblico impiego art. 4, D.Lgs. 09/07/1998 n. 283, come integrato dall’art. 9, D.Lgs. 31/05/2010, n. 78, dall’altro, per il personale assunto con regole della società partecipata sulla base di procedure aperte di selezione pubblica, dovrà tener conto dell’interpretazione dell’art. 18, comma 1 della legge 133/2008, come novellato dall’art. 4, comma 17 del DL n. 138/2011 convertito dalla legge n. 148/2011, alla luce della dichiarazione d’incostituzionalità n. 325, del 3-17 novembre 2010, come sopra evidenziato.
Da qui occorre partire per ritenere che gli enti partecipati di una società come il PST per il transito dei lavoratori, in caso di estinzione della società, dovrà usare le disposizioni non solo dell’art. 18 richiamato ma anche della L. 24/12/2007, n. 244, art. 3, co. 90, il quale stabilisce che:
Fermo restando che l’accesso ai ruoli della pubblica amministrazione è comunque subordinato all’espletamento di procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge e fatte salve le procedure di stabilizzazione di cui all’articolo 1, comma 519, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, per gli anni 2008 e 2009:
a) le amministrazioni dello Stato, omissis … ;
b) le amministrazioni regionali e locali possono ammettere alla procedura di stabilizzazione di cui all’articolo 1, comma 558, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, anche il personale che consegua i requisiti di anzianità di servizio ivi previsti in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 28 settembre 2007.
Che va coordinato alla L. 27/12/2006, n. 296, co. 558, che statuisce:
A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, gli enti di cui al comma 557 fermo restando il rispetto delle regole del patto di stabilità interno, possono procedere, nei limiti dei posti disponibili in organico, alla stabilizzazione del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006 o che sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della presente legge, nonché del personale di cui al comma 1156, lettera f), purché sia stato assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge. Alle iniziative di stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato mediante procedure diverse si provvede previo espletamento di prove selettive.
Raccordato altresì con l’art. 76, comma 7 della legge n. 133/2008 (da ultimo modificata dalla legge n. 111/2011) che concede agli enti soggetti al patto di stabilità la possibilità di procedere alla assunzione di personale nel solo limite del 20 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente.
Reinternalizzazione del servizio pubblico e eventuale trasferimento del dipendente nei ruoli dell’ente locale ex art. 2112 del cod. civ.
In giurisprudenza la ricostruzione non è l’unica prospettata, anzi soccorre un indirizzo comunitario che va affermandosi ma che è contrastato dai giudizi di conto.
A tal punto soccorre l’ulteriore possibilità di applicare ai lavoratori coinvolti nelle c.d. vicende circolatorie dal privato alpubblicoe viceversa, le garanzie proprie dell’istituto del trasferimento d’azienda exart. 2112 Cod. Civ., piuttosto che della normativa “specifica” di cui all’art.31,d.lgs. n. 165 del 2001, nonché i c.d. “meccanismi di gestione collettiva”, attraverso le procedure di informazione e consultazione sindacale ex art.47,l. n. 428 del 1990. L’art.31,d.lgs. n. 165 del 2001,richiama la regolazione privata del trasferimento d’azienda anche per i “trasferimenti o conferimenti di attività svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture, ad altri soggetti, pubblici o privati”.
Alla luce della disciplina comunitaria cui risponde l’art. 2112 cod. civ., che per trasferimento d’azienda si intende qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conservi, nel trasferimento, la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato come prima detto ex art. 47, commi da 1 a 4, della legge 29 dicembre 1990, n. 428”.
47.Trasferimenti di azienda.
1. Quando si intenda effettuare, ai sensi dell’articolo 2112 del codice civile, un trasferimento d’azienda in cui sono complessivamente occupati più di quindici lavoratori, anche nel caso in cui il trasferimento riguardi una parte d’azienda, ai sensi del medesimo articolo 2112, il cedente ed il cessionario devono darne comunicazione per iscritto almeno venticinque giorni(20)prima che sia perfezionato l’atto da cui deriva il trasferimento o che sia raggiunta un’intesa vincolante tra le parti, se precedente, alle rispettive rappresentanze sindacali unitarie, ovvero alle rappresentanze sindacali aziendali costituite, a norma dell’articolo19dellalegge 20 maggio 1970, n. 300, nelle unità produttive interessate, nonché ai sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle imprese interessate al trasferimento. In mancanza delle predette rappresentanze aziendali, resta fermo l’obbligo di comunicazione nei confronti dei sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi e può essere assolto dal cedente e dal cessionario per il tramite dell’associazione sindacale alla quale aderiscono o conferiscono mandato. L’informazione deve riguardare:a) la data o la data proposta del trasferimento;b) i motivi del programmato trasferimento d’azienda;c) le sue conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori;d) le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi.
2. Su richiesta scritta delle rappresentanze sindacali o dei sindacati di categoria, comunicata entro sette giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 1, il cedente e il cessionario sono tenuti ad avviare, entro sette giorni dal ricevimento della predetta richiesta, un esame congiunto con i soggetti sindacali richiedenti. La consultazione si intende esaurita qualora, decorsi dieci giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo.
3. Il mancato rispetto, da parte del cedente o del cessionario, degli obblighi previsti dai commi 1 e 2 costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’articolo28dellalegge 20 maggio 1970, n. 300.
4. Gli obblighi d’informazione e di esame congiunto previsti dal presente articolo devono essere assolti anche nel caso in cui la decisione relativa al trasferimento sia stata assunta da altra impresa controllante. La mancata trasmissione da parte di quest’ultima delle informazioni necessarie non giustifica l’inadempimento dei predetti obblighi.
In tema di giustizia comunitaria
Si v. T. Treu., Gli effetti delle trasformazioni sui rapporti di lavoro, in Problemi giuridici delle privatizzazioni (Atti del convegno Problemi attuali di diritto e procedura civile), Milano, 1994, pag. 46; M. Garattoni, Il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di un’impresa privata allo Stato: applicazione di norme di dirittopubblicoe riduzione della retribuzione, in Riv. It. Dir. Lav., 2005, II, pag. 760; G. De Simone, La “privatizzazione” dei servizi pubblici locali, tra norme speciali e disciplina del trasferimento d’azienda, in Lav. Dir., 2001, pag. 257; Ead., Modificazioni soggettive dei gestori di servizi pubblici locali e disciplina del trasferimento d’azienda. Prime riflessioni sul rapporto tra norme speciali e norme generali dopo ild.lgs. n. 18/2001, in Lav. Dir., 2002, pag. 181; S. Mainardi, D. Casale, Trasferimento di attività a soggetti pubblici o privati e passaggio di personale, in F. Carinci, L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004, pag. 726; E. Menegatti, Pubbliche amministrazioni e trasferimento d’azienda nella giurisprudenza comunitaria (nota a Corte Giust. CE 4 giugno 2002, C-164/2000), in Lav. Giur., 2002, pag. 959; R. Romei, Trasformazione da entepubblicoa società per azioni e applicazione dell’art. 2112 c.c.(nota a Cass. 15 novembre 2003, n. 17318), in Riv. It. Dir. Lav., 2004, II, pag. 647.
In effetti la giurisprudenza comunitaria, a differenza di quella interna, propende per l’applicazione della disciplina del trasferimento d’azienda anche in assenza di un legame contrattuale diretto fra le parti.Si v. Corte Giust. CE 20 novembre 2003, C-340/2001, Abler, in Lav. Giur., 2004, pag. 27, con nota di D. Casale, Trasferimento d’azienda e appalti tra Corte comunitaria e legislazione nazionale, e in Riv. It. Dir. Lav., 2004, II, pag. 463, con nota di M. Borzaga, Trasferimento d’azienda e successione di contratti di appalto, prima e dopo ild.lgs. n. 276/2003, tra diritto comunitario scritto e giurisprudenza della Corte di Giustizia, e ivi ampi richiami; Corte Giust. CE 25 gennaio 2001, C-172/1999, in Dir. Lav., 2001, II, pag.160; Corte Giust. CE 26 settembre 2000, C-175/1999; Corte Giust. CE 10 dicembre 1998, C-173/1996, in Dir. Merc. Lav., 1999, pag. 515. Per una rassegna v. E. Gragnoli, Contratti di appalto di servizi e trasferimento d’azienda, in Dial. Dottr. Giur., 2004, pag. 206 il quale nota che “non a caso, le sentenze della Corte di Giustizia che riportano al trasferimento d’azienda il subingresso del nuovo appaltatore non solo sottovalutano il riferimento alla “cessione contrattuale”, ma sopravvalutano anche l’elemento dell’esercizio dell’impresa rispetto a quello del trasferimento dell’azienda”; M. Novella, M.L. Vallauri, Il nuovoart. 2112 c.c.e i vincoli del diritto europeo, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2005, pag. 186 e segg.
Tale orientamento, viene accolto recentemente anche dalla Suprema Corte di Cassazione in alcune decisioni, che, con riguardo appunto alla fase dell’internalizzazione, ossia dell’acquisizione nella pubblica amministrazione di un servizio prima ceduto all’esterno, conferma l’orientamento secondo cui la disciplina del trasferimento d’azienda, anche nella versione successiva ald.lgs. n. 276 del 2003,sarebbe applicabile non solo ai trasferimenti aventi natura volontaria, ma finanche a quelli riconducibili a un provvedimento della pubblica amministrazione.
Di recente Cass. 10 marzo 2009, n. 5708, in Orient. Giur. Lav., 2009, pag. 89; Cass. 9 gennaio 2008, n. 199, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2008, pag. 191; App. Milano 9 febbraio 2004, in Lav. Giur., 2004, pag. 908; Cass. 20 settembre 2003, n. 13949, in Mass. Giur. Lav., 2003, pag. 914, con nota di F. Binocoli, Applicabilità dell’art. 2112 c.c.all’ipotesi di trasferimento d’azienda per atto autoritativo della p.a., e in Riv. It. Dir. Lav., 2004, II, pag. 404 con nota di I. Senatori, Successione in appalto di servizi e trasferimento d’azienda tra ratio comunitaria e riforma del mercato del lavoro italiano. Nel caso trattato, si è applicato l’art. 2112 Cod. Civ.ai dipendenti della Polesine bus s.p.a., sciolta e messa in liquidazione, alla quale era stata revocata la concessione per l’esercizio del trasportopubblico, ma la cui attività veniva proseguita dalla Cooperativa trasporti Rovigo s.r.l., che prendeva in comodato e, successivamente, in affitto i mezzi già utilizzati dalla prima società. Analogamente, in un caso relativo allo scioglimento d’azienda di trasportopubblicoe sua sostituzione con due distinte aziende, v. Pret. Pisa 7 novembre 1988, in Riv. It. Dir. Lav., 1989, II, pag. 500, con nota di V.A. Poso. Contra, Cass. 26 febbraio 2003, n. 2936, Guida Dir., 2003, n. 13, pag. 41; Cass. 24 febbraio 2003, n. 2796, in Arch. Civ., 2003, pag. 1358; Cass. 21 gennaio 2002, n. 572, in Not. Giur. Lav., 2002, pag. 259; Cass. 30 agosto 2000, n. 11423, in Mass. Giur. Lav., 2000, pag. 975, sulla cessione di un serviziopubblicodal Comune ad un’azienda di nuova istituzione; Cass. 25 luglio 2000, n. 9764; Cass. 25 gennaio 1999, n. 672, in Riv. It. Dir. Lav., 1999, II, pag. 785 e in Mass. Giur. lav., 1999, pag. 382, sulla requisizione dell’azienda; Cass. 25 maggio 1995, n. 5754, ibidem, 1996, II, pag. 186; Cass. 29 aprile 1994, n. 4140; Cass. 30 marzo 1987, n. 3076.
Al riguardo, comunque, è bene ricordare che la Corte di Giustizia in riferimento alla fattispecie del trasferimento ad un Comune di un’attività precedentemente svolta, nell’interesse di quest’ultimo, da una persona giuridica di diritto privato, aveva ritenuto applicabile la disciplina comunitaria del trasferimento d’azienda “sempreché l’entità ceduta conservi la propria identità” e aveva identificato alcuni criteri per individuare l’oggetto del trasferimento. Secondo la Corte europea, infatti, “la mera circostanza che l’attività esercitata dal precedente e dal nuovo imprenditore sia analoga non consente di concludere che si tratti di trasferimento di un’entità economica. Infatti, un’entità non può essere ridotta all’attività che le è affidata. La sua identità emerge anche da altri elementi quali il personale, la dirigenza, l’organizzazione del lavoro, i metodi di gestione nonché, se del caso, i mezzi di gestione a sua disposizione”.
Cfr. Corte Giust. CE 26 settembre 2000, C-175/99, Didier Mayeur contro Association Promotion de l’information messine (APIM), in Racc., 2000, pag. I-07755, in Foro It., 2001, IV, col. 154; analogamente v. Corte Giust. CE 14 settembre 2000, C-343/98. Collino e Chiappero, in Dir. Lav., 2000, II, pag. 461. Sull’applicazione della dir. n. 77/187 al trasferimento di un’impresa, esercitata da un entepubblicointegrato nell’amministrazione dello Stato, ad una società di diritto privato a capitalepubblico; Corte Giust. CE 11 novembre 2004, C- 425/02, Timmermans, in Riv. It. Dir. Lav., 2005, II, pag. 760.
Peraltro, con riferimento all’ordinamento italiano, tale principio sicuramente condivisibile dal punto di vista della qualificazione della fattispecie può sollevare non pochi problemi in riferimento alla disciplina. Ciò perché, negli effetti, il passaggio di dipendenti da un datore di lavoro privato ad unopubblicosembra inevitabilmente scontrarsi, come prima specificato, con il vincolo costituzionale dell’accesso agli impieghi pubblici mediante concorso. Non a caso la Corte dei Conti dopo avere adottato un orientamento restrittivo sull’applicazione diretta dell’art. 2112 Cod. Civ.alle ipotesi direinternalizzazionedi un servizio nella P.A., di recente ne ha precisato limiti e condizioni di ammissibilità.
Tuttavia, di tali questioni la Cassazione argomenta esclusivamente sulla legittimità dell’applicazione della disciplina derogatoria del trasferimento d’azienda in crisi, ricorrendo l’ipotesi di fallimento, mentre il suo giudizio non appare in alcun modo condizionato dal fatto che ciò abbia determinato il passaggio dei dipendenti da un regime “privatistico” a uno “pubblico”, né dalla recente riforma al disposto dell’art.47, comma 5, dellal. n. 428 del 1990, ex art.19 quaterd.l. 135 del 2009, seguita alla condanna dell’Italia per inadempimento della disciplina comunitaria.
In particolare, quanto ai presupposti, la Cassazione 21 marzo 2001, n. 4073, si limita a indicare operante la deroga all’art. 2112 Cod. Civ.in caso di fallimento anche qualora l’attività dell’impresa ceduta non fosse cessata, purché sia sul punto di volgere al termine, mentre, sul piano degli effetti, precisa che la ratio della disciplina derogatoria di salvaguardare l’occupazione “attraverso il riconoscimento della continuità materiale e non giuridica delle prestazioni lavorative”, si realizza mediante l’estinzione automatica dei pregressi rapporti lavorativi e la riassunzione ex novo dei lavoratori. Pertanto, nel caso de quoil passaggio del personale dovrebbe essere preceduto dalla “creazione dei corrispondenti posti in organico”, ma ciò “non significa che tali posti dovranno essere creati nel rispetto del precedente inquadramento”.
Gli effetti del trasferimento sul rapporto di lavoroinvestirebbero la questione, che, sul piano dell’autonomia individuale, può rinviare anche alla più generale problematica della rilevanza del consenso dei lavoratori al trasferimento come natura gestionale dell’accordo, che può disporre anche di diritti individuali, senza la ratifica espressa o tacita dei lavoratori non aderenti ai sindacati stipulanti.
Analogamente in tal senso sembrano deporre alcune previsioni contrattuali del “compartopubblico” che stabiliscono, accanto ai casi di revoca per ragioni soggettive, per l’accertamento negativo dei risultati di gestione, anche ipotesi di revoca subordinate alla presenza di “motivate ragioni organizzative e produttive”. Infatti, tali disposizioni tendono a bilanciare le esigenze di flessibilità sottese all’arretramento degli organi politici dalla gestione concreta dei processi di trasformazione e le finalità di tutela del personale dirigenziale.
Come si è detto, nel caso de quo, rispetto alla “sfuggente” pratica di controllo dell’an delle vicende circolatorie fra soggetti “privati” e “pubblici”, la tutela dei lavoratori può, anzi deve, essere fatta passare dall’attivazione delle tecniche di partecipazione sindacale per la definizione delle relative modalità operative.
Ne deriva, con una tecnica mutuata dal settore privato, la c.d. “procedimentalizzazione” dei poteri gestionali e di “controllo” della fattispecie, che, in un settore come questo, particolarmente “tormentato”, costituisce una condizione importante per il successo di relazioni industriali più partecipative e meno conflittuali.
Al riguardo, infatti, la rilevanza che lo stesso art.47dellalegge n. 428 del 1990, in tema di obblighi di informazione e consultazione nel trasferimento d’azienda (come richiamato, per il settorepubblico, dall’art.31,d.lgs. n. 165/2001), accorda all’autonomia collettiva rispetto a quella individuale, “chiamando la prima, ma non anche la seconda, a “gestire” gli effetti del trasferimento d’azienda sul piano del rapporto di lavoro”, incrementa la funzione di garanzia delle parti sociali. Così è in questa sede di partecipazione che in casi simili sono stati affrontati i problemi e le ricadute occupazionali delle politiche di decentramento ed è stato avviato un confronto per la realizzazione di un più efficace ed efficiente sistema di tutele per i lavoratori coinvolti.
Peraltro, ad una analisi dettagliata, sembra che il richiamo della disciplina legale di informazione e consultazione assuma in questo ambito connotati del tutto peculiarievidenziati solo incidentalmente nella pronuncia in esame(sulla procedura sindacale ex art.31,d.lgs. n. 165/2001, v. Trib. Trieste 15 dicembre 2000, in Lav. Giur., 2001, pag. 263).
Da tale ricostruzione normativa e giurisprudenziale è chiaro che, in ordine all’individuazione dei soggetti collettivi da coinvolgersi nella comunicazione, accanto al problema della misurazione della “rappresentatività, il mutamento della natura giuridica comporta, o potrebbe comportare, durante la fase di transizione, la delegittimazione (formale o sostanziale) dei precedenti organismi collettivi (nel nostro caso della FIOM) e ciò in relazione sia a quelli sindacali sia a quelli datoriali” (si può immaginare che il requisito della “rappresantività”, possa essere misurato nel settore delpubblicoimpiego con i criteri previsti ai fini dell’ammissione alla contrattazione collettiva e della facoltà di costituire r.s.a., ex artt.43, co. 1e42, comma 2,d.lgs. n. 165 del 2001, cfr. S. Mainardi, D. Casale, op. cit., pag. 739).
Quanto ai contenuti, anche in relazione all’obbligo di motivazione del provvedimento macroorganizzativo su cui si basa la procedura, le rappresentanze sindacali o i singoli lavoratori potrebbero preventivamente (o contestualmente) valersi degli strumenti del diritto di partecipazione e di intervento (ex artt.7 e segg.,l. n. 241 del 1990).
Come noto, la fase successiva (eventuale) di esame congiunto attiva la consultazione circa alcuni presupposti fondamentali per la gestione della fattispecie, potendosi stabilire, in tale contesto, modalità di regolazione della fase di transizione, definendo i trattamenti collettivi economici e normativi applicabili, individuando il personale da trasferire, riconoscendo rispettivamente garanzie ulteriori o deroghe rispetto all’art. 2112 Cod. Civ.Sul punto alcune sentenze richiamano ai principi di buona fede e correttezza inducendo a ricordare che, oltre questi limiti non sembra, invece, ammissibile un sindacato sulla decisione organizzativa, che, a monte, deriva sempre da un atto di natura politico-amministrativa. Naturalmente agli effetti del passaggio tra privato al pubblico, gli obblighi di informazione e consultazione sindacale nel trasferimento di azienda, vanno sempre rispettati per la tutela del lavoratore nella circolazione della società (si v. sul punto, Trib. Milano 14 gennaio 2003, in Lav. Giur., 2003, pag. 693; Cass. 4 gennaio 2000, n. 23, in Dir. Lav., 2000, pag. 405), la cui inosservanza potrebbe condurre all’inefficacia dell’atto finale volto ad incidere sulle posizioni dei lavoratori”.
Alternativa per l’inserimento della società in un piano strategico regionale o nazionale.
Èda segnalare attualmente una inversione di tendenza per quanto riguarda il disimpegno pubblico relativamente alle società partecipate direttamente o indirettamente dagli Enti pubblici, società come sopra detto, soggette tout court al regime giuridico di diritto privato, ma con la peculiarità di essere governate dalla mano pubblica.
Dalla Legge Finanziaria 2007, i 4/5 delle società partecipate risultavano in perdita.
Come abbiamo visto fin qui, n passato il nostro Legislatore ha incentivato molto il ricorso allo strumento societario da parte degli Enti locali, sulla base dell’assunto (allora pacifico) che il disimpegno dei servizi locali mediante società di capitali avrebbe ottimizzato la gestione delle relative attività secondo criteri di efficienza ed economicità, incrementando sensibilmente il livello di qualità delle prestazioni fornite al pubblico.
In questa linea di pensiero si collocava, in primo luogo, l’art. 17, comma 51 della legge 15 maggio 1997, n. 127, che istituiva un procedimento agevolato di trasformazione in società per azioni delle aziende speciali mediante atto unilaterale del Consiglio comunale, mentre di lì a poco avrebbe fatto irruzione nell’ordinamento l’art. 35 della legge n. 448/2001, per inaugurare i primi tentativi di liberalizzazione dei servizi pubblici locali, ormai denominati per legge “servizi pubblici locali di rilevanza industriale”, nonché connotati dall’obbligo di affidamento mediante gara pubblica a favore delle società di capitali.
Circostanza, questa, che avrebbe ovviamente rappresentato un sicuro incentivo per trasformare le aziende speciali in società di capitali, in vista appunto della partecipazione di tali soggetti alle procedure competitive da indirsi a regime, una volta giunto a scadenza il periodo transitorio.
Attualmente il Legislatore ha effettuato una brusca virata e nel giro di pochi anni ha tramutato il favor legisverso le società a partecipazione pubblica locale nel divieto formulato dall’ art. 14, comma 32, 14, del D.l. 78/2010, di utilizzare lo strumento societario quale forma ordinaria di gestione dei servizi locali, inversione avvenuta sulla scorta delle decisioni delle Corti dei Conti che in più occasioni hanno additato l’esternalizzazione di servizi da parte degli Enti locali quale fenomeno di politica amministrativa finalizzato, il più delle volte, a garantire un rispetto formale, ma non certo sostanziale del Patto di stabilità interno e dei vincoli della finanza pubblica, tant’è che il Legislatore, ha disposto che “i contratti di servizio e gli altri atti posti in essere dalle Regioni e dagli Enti locali che si configurano elusivi delle regole del patto di stabilità interno sono nulli” (art. 20 del DL 98/2011 convertito con legge 111/2011).
Il quadro normativo si è ormai consolidato nelle severe prescrizioni imposte, da un lato con la conferma del termine del 31 dicembre 2012 – non oggetto di rinvio nell’ambito del decreto legge milleproroghe 2012 convertito in legge 24 febbraio 2012, n. 14 – entro cui le partecipate non più consentite (per i Comuni inferiori da 3.000 a 50.000 abitanti), dovranno essere messe in liquidazione dai Comuni e, dall’altro lato, si è prevista l’attribuzione di poteri speciali in capo al prefetto, il quale dovrà accertarsi che gli Enti territoriali interessati abbiano adottato, entro i termini stabiliti, le misure prescritte, dacché altrimenti potrà scattare la diffida a provvedere e, nel caso di inadempienza, la nomina di un commissario ad acta con poteri sostitutivi (art. 16, comma 28 della legge 148/2011).
In questo scenario istituzionale si dibattono i Comuni, all’affannosa ricerca di forme di aggregazione che, non è da escludere, nell’ambito delle scelte strategiche da assumere, il ritorno all’orientamento a proseguire e/o costituire le gestioni in essere mediante il modello
organizzativo delle aziende speciali, tanto più che per effetto del decreto liberalizzazioni in corso di conversione non si ravvisano ostacoli, per il momento, a utilizzare tali aziende per il disimpegno dei servizi pubblici locali che tradotto per il PST di … potrebbe risultare utile trasformare una siffatta società (magari inglobando la stessa nell’ambito magari anche della Regione Campania), azienda che ha fini istituzionali per lo sviluppo e la ricerca scientifica, materia di interesse primario per lo sviluppo del territorio e dell’intera comunità locale.
Solo a titolo di recente aggiornamento va segnalata nel segno suindicato Il Consiglio di Stato, sez. 5a,con sentenza  n. 4586 del 3 settembre 2001, al fine di dirimere tali controversie sistematiche ha precisato alcune distinzioni fra aziende speciali e s.p.a. a partecipazione pubblica locale e precisa che tra le due sussistono importanti differenze.
L’azienda speciale ha natura di ente pubblico economico, strumentale, con autonomia imprenditoriale e, come per tutti gli enti economici, con copertura dei costi corrispondenti alla remunerazione dei fattori della produzione impiegati. L’azienda speciale è istituzionalmente dipendente dall’Ente locale ed è con esso legata da stretti vincoli – relativi alla formazione degli organi, agli indirizzi, ai controlli e alla vigilanza – al punto da costituire elemento del sistema amministrativo facente capo all’ente territoriale. La personalità giuridica non trasforma l’azienda speciale in un soggetto privato, ma la configura solo come un nuovo centro di imputazione di rapporti giuridici, distinto dal Comune e con una propria autonomia decisionale.
A tal riguardo, ai fini della natura pubblica di un soggetto la forma societaria assume veste neutrale ed il perseguimento di uno scopo pubblico non è in contraddizione con il fine societario lucrativo,
Le s.p.a. a partecipazione pubblica locale, tuttavia non si configurano, a differenza delle aziende speciali, come organi strumentali intimamente collegati all’ente territoriale che le ha costituite e devono partecipare, in concorrenza con altri soggetti privati, alle gare per l’appalto di pubblici servizi da svolgersi presso altri Enti locali.
Le aziende speciali, viceversa, non sono legittimate a partecipare, in concorrenza con altri soggetti privati, alle gare per l’appalto di pubblici servizi.
Ancora il  Consiglio di Stato, sez. IV,con sentenza  n. 122 dell’11 gennaio 2013,
ha dichiarato che nell’ambito delle società pubbliche occorre distinguere le società che svolgono attività d’impresa da quelle che esercitano attività amministrativa. Le prime sono assoggettate in linea di principio, allo statuto privatistico dell’imprenditore, le seconde allo statuto pubblicistico della P.A. (Cons. di Stato, IV sez. 20.marzo 2012, n. 1574).
Per stabilire quando ricorre l’una o l’altra ipotesi, occorre aver riguardo, 1. Alle modalità di costituzione, 2. Alla fase dell’organizzazione; 3. Alla natura dell’attività svolta; 4. Al fine perseguito. Per cui se manca il carattere del rischio d’impresa deve rientrare nella seconda categoria come società pubblica che svolge attività non economica.
Ciò non è di poco conto per quanto concerne i rapporti d’impiego per i dipendenti di dette società.
Ancora possiamo guardare alla nuova formulazione dell’art. 114 del d.lgs 267/00, modificato dalla L. n. 27/2012, ove al co. 5 stabilisce che a decorrere dall’anno 2013, le aziende speciali e le istituzioni sono assoggettate al patto di stabilità interno, con divieto o limitazioni alle assunzioni di personale.
Altra forma di esercizio associato è quello svolto dagli enti attraverso l’esercizio associato delle funzioni secondo gli ambiti territoriali di cui alla L. 328/00.
Distinguiamo così tra esercizio associato delle funzioni, con cui gli Ambiti territoriali programmano gli interventi sociali, raccogliendoli negli appositi Piani di zona, e la gestione associata degli stessi interventi e servizi.
La primaattività è svolta dai comuni in virtù di forme associative tra essi, ambiti territoriali con Convenzione intercomunale e Unione di Comuni, la seconda invece è svolta attraverso le società in house o l’Azienda speciale es. l.r.c. 15/12.
Infine, sulla posizione dei lavoratori all’interno di tutte queste entità non appare del tutto improponibile una domanda di stabilizzazione dei lavoratori secondo le attuali regole sulla spending review se si tratta di enti che rispettano i parametri di virtuosità all’uopo si cita la Cass. civ. Sez. Unite Ordinanza, 26/01/2011, n. 1778 (rv. 615779).
In materia di pubblico impiego privatizzato, i processi di stabilizzazione – tendenzialmente volti ad eliminare il precariato creatosi per assunzioni in violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 – sono effettuati nei limiti delle disponibilità finanziarie e nel rispetto delle disposizioni in tema di dotazioni organiche e di programmazione triennale del fabbisogno e sono suscettibili di derogare alle normali procedure di reclutamento limitatamente al carattere – riservato e non aperto – dell’assunzione. Ne consegue che l’amministrazione, nel caso in cui il personale da stabilizzare abbia già superato procedure concorsuali, non deve bandire alcun concorso ma solo dare avviso dell’avvio della relativa procedura e della possibilità per gli interessati di presentare la domanda, mentre, ove manchi tale presupposto e il numero dei posti oggetto della stabilizzazione sia inferiore a quello dei soggetti aventi i requisiti richiesti, può fare ricorso ad una selezione per individuare il personale da assumere, restando devolute le relative controversie alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Nelle suesposte considerazioni è il parere.
Avv. Luigi Ferrara

Condono edilizio ter. Immobili realizzati abusivamente.

PARERE
In fatto: con riferimento al parere legale relativo all’art. 32 L. 326/03 (c.d. condono edilizio ter).
Il quesito sottoposto allo scrivente concerne la validità o meno di due istanze di condono edilizio datate 10.12.2004 – recanti rispettivamente  protocollo n. 28778 pratica n.  595/04 e protocollo n.28779 pratica n.  596/04, per gli immobili offerenti  realizzati abusivamente in … alla via …., istanze  inizialmente prive di espressioni in valori di mq,. ma corredate del pagamento dell’oblazione pari ad € 1.700,00 e € 500,00 per oneri concessori, procedimento in cui il Comune di A… con richiesta del 21.11.2006 ricevuta il 26.11.2006, richiedeva  il rilievo delle opere e la planimetria generale per quanto realizzato abusivamente, affinché si integrassero le relative istanze secondo la normativa di settore.
Ricostruzione normativa e fattuale
a) Documentazione esaminata
– domande relative alla definizione degli illeciti edilizi Prot. Gen. 28778 e 28779 con relativi bollettini allegati;
– richiesta di integrazione documentale per entrambi i soggetti emessa dal Comune di A… del 21 novembre 2006, prot.lli n.ri 29143 a firma del responsabile UOC Urbanistica e territorio Ing. V. F.;
– plico contenente la documentazione completa richiesta dall’ufficio tecnico con nota sopra richiamata ad entrambi gli istanti;
– Normativa di riferimento;

  1. Considerazioni fattuali.

La questione all’esame ha ad oggetto  la validità e l’originaria incompletezza dell’istanza di condono edilizio presentata in data 10 dicembre 2004 dai Sig.ri ….. al Comune di A…, ai sensi e per gli effetti del D.L. 269 del 2003, così come convertito nella legge 326 del 2003, domanda incompleta relativamente ai mq. abusivamente realizzati.
La suddetta legge, prescrive la presentazione di una domanda, che, ai sensi del comma 35, dell’art. 32, sia corredata dalla seguente documentazione:
a) dichiarazione del richiedente resa ai sensi dell’articolo 47, comma 1, del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, con allegata documentazione fotografica, dalla quale risulti la descrizione delle opere per le quali si chiede il titolo abilitativo edilizio in sanatoria e lo stato dei lavori relativo;
b) qualora l’opera abusiva supera i 450 metri cubi, da una perizia giurata sulle dimensioni e sullo stato delle opere e una certificazione redatta da un tecnico abilitato all’esercizio della professione attestante l’idoneità statica delle opere eseguite; 
c) ulteriore documentazione eventualmente prescritta con norma regionale.
La medesima legge al comma 32, del medesimo art. precisa che la domanda relativa alla definizione dell’illecito edilizio, con l’attestazione del pagamento dell’oblazione e dell’anticipazione degli oneri concessori, sia presentata al comune competente, a pena di decadenza, tra l’11 novembre 2004 e il 10 dicembre 2004, unitamente alla documentazione prescritta.
Nel caso di specie, la domanda iniziale, seppur non perfetta in tutti i suoi innumerevoli e dettagliati allegati, veniva – come chiaramente desumibile dagli atti – presentata entro i limiti temporali prescritti, e successivamente ex lege prorogati.
Il Comune di A… protocollava, infatti, l’istanza dei Sig.ri … proprio in data 10.12.2004 – attribuendo alle stesse i numeri d’ordine  28778/04 e 28779/04 – ma formulava la succedanea richiesta di integrazione-dati solo il 21.11.2006, notificandola peraltro  agli istanti in data 26.11.2006
I Sig.ri M…. provvedevano  scrupolosamente all’integrazione richiesta – ottemperando in maniera completa ed esaustiva alle relative chiarificazioni.
Indubbiamente, il Comune, rispetto ad una vicenda eccezionale come quella del condono, non può omettere di adempiere al dovere di munirsi di tutti i documenti finalizzati alla completa istruttoria del procedimento amministrativo, così come – del resto – l’istante, soggetto interessato al buon esito della pratica, non può a sua volta restare inerte di fronte alle doverose istanze di integrazione recapitategli da parte della pubblica amministrazione locale.
In tal senso, l’atteggiamento collaborativo manifestato dai sig.ri M… nella presentazione tempestiva dell’istanza, la diligenza nel pagamento entro i termini dell’oblazione prevista e la successiva scrupolosa integrazione della documentazione ritenuta necessaria, scevra da qualsivoglia inesattezza riscontrata,  non possono rendere infedele l’istanza che corrisponde a quanto abusivamente realizzato ab origine  evincendosi  ciò dai grafici integrati; il manufatto non recava alcuna manomissione aggiunta o differenza rispetto a quanto sin dall’inizio dichiarato e realizzato.
Né tanto meno il Comune di A…. ha riscontrato che i manufatti in realtà sarebbero stati diversi all’epoca della domanda di condono, né ha concluso il procedimento con un provvedimento di rigetto motivato, eventualmente da una provata infedeltà di quanto dichiarato nella iniziale domanda poi integrata come richiesto dallo stesso Ente.

  1. In diritto

Ricostruzione teorico normativa applicabile.

  1. Svariati sono i motivi che conducono a considerare valide le due domande  presentate dagli istanti e  conseguentemente escludere la“improcedibilità” o “decadenza” dal relativo diritto delle stesse.

L’art. 32 comma 25 del d.l. 269/2003, convertito con legge 326 del 2003,stabilisce che:“…le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’articolo 39della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni e integrazioni, nonché dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 …” orbene la norma del c.d terzo condono non pone formule di decadenza, per le relative domande, ulteriori o diverse da quelle delle disposizioni dei precedenti condoni, per cui una ricostruzione sulla decadenza o improcedibilità della domanda non può che partire dalla ricostruzione giurisprudenziale concernente le norme prima richiamate.
Il successivo comma 32, stabilisce che:“… La domanda relativa alla definizione dell’illecito edilizio, con l’attestazione del pagamento dell’oblazione e dell’anticipazione degli oneri concessori, è presentata al comune competente, a pena di decadenza, tra l’11 novembre 2004 e il 10 dicembre 2004, unitamente alla dichiarazione di cui al modello allegato e alla documentazione di cui al comma 35”.
Il comma 35, stabilisce il contenuto della domanda ma, come sopra anticipato, non statuisce alcuna decadenza o improcedibilità diversa dai precedenti condoni: “ … La domanda di cui al comma 32 deve essere corredata dalla seguente documentazione: 
a) dichiarazione del richiedente resa ai sensi dell’articolo 47, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, con allegata documentazione fotografica, dalla quale risulti la descrizione delle opere per le quali si chiede il titolo abilitativo edilizio in sanatoria e lo stato dei lavori relativi; 
b) qualora l’opera abusiva supera i 450 metri cubi, da una perizia giurata sulle dimensioni e sullo stato delle opere e una certificazione redatta da un tecnico abilitato all’esercizio della professione attestante l’idoneità statica delle opere eseguite; 
c) ulteriore documentazione eventualmente prescritta con norma regionale . 
La norma al comma 36, aggiunge: “… La presentazione nei termini della domanda di definizione dell’illecito edilizio, l’oblazione interamente corrisposta nonché il decorso di trentasei mesi dalla data da cui risulta il suddetto pagamento, producono gli effetti di cui all’articolo 38, comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47. Trascorso il suddetto periodo di trentasei mesi si prescrive il diritto al conguaglio o al rimborso spettante.
In fine il comma 41, pone addirittura un incentivo: “… Al fine di incentivare la definizione delle domande di sanatoria presentate ai sensi del presente articolo, nonché ai sensi del capo IV della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni, e dell’articolo 39della legge 23 dicembre 1994, n. 724, e successive modificazioni, il 50 per cento delle somme riscosse a titolo di conguaglio dell’oblazione, ai sensi dell’articolo 35, comma 14, della citata legge n. 47 del 1985, e successive modificazioni, è devoluto al comune interessato. Con decreto interdipartimentale del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero dell’economia e delle finanze sono stabilite le modalità di applicazione del presente comma…”.
Dalla semplice lettura in combinato disposto delle norme invocate appare dunque evidente come i M…., oltre ad aver presentato le richieste di condono nei termini con pagamento della prima rata di oblazione, hanno diligentemente depositato l’integrazione documentale pervenute dal Comune. Giammai dal procedimento è emerso che gli istanti hanno manifestato un atteggiamento dissimulatorio o qualche intento doloso né espresso inesattezze sull’immobile da condonare.
Ciò posto, per sfatare ogni dubbio circa la validità delle due domande di condono di cui si discute se pur carenti, nel momento della presentazione dei relativi mq., successivamente integrati con la documentazione richiesta dal Comune, la predetta ricostruzione non può che passare attraverso l’esame delle disposizioni relative alla 47/85 e 724/94, ciò sempre con riferimento all’esame della disciplina relativa alla decadenza o improcedibilità e infedeltà dell’istanza.
Il Tar Catania, I sez., con sentenza del 21.6.2007, n. 1633, occupandosi della produzione documentale in materia di condono edilizio, per la formazione del relativo silenzio, ebbe modo di chiarire, come aveva fatto in più occasioni,come sussista, per la predetta materia, una distinzione tra le ipotesi di condono edilizio regolato dall’articolo 35 della legge n. 47 del 1985 e quello previsto dall’art. 39 l. 23.12.1994, n. 724.
Il tribunale così disponeva: “… Secondo la prima disposizione, la mancanza dei documenti richiesti per la concessione del condono edilizio non impedisce il perfezionamento dell’assenso per silenzio fino al momento in cui gli stessi vengano prodotti.
La produzione dei documenti, infatti, non costituisce requisito per la formazione del silenzio assenso; diversamente, la legge avrebbe espressamente previsto la formazione del silenzio assenso decorsi 24 mesi dalla presentazione della domanda munita di tutti gli allegati ad eccezione unicamente nell’ipotesi di immobili vincolati, nel qual caso il termine decorre dal rilascio del nulla osta degli enti di tutela, con conseguente procedibilità ed ammissibilità della domanda ancorché carente documentalmente (TAR Catania, I, 20 gennaio 2004 n. 49; 11.3.2005, n. 418).
Anzi, secondo la giurisprudenza del Giudice di seconde cure (cfr. Cons. Stato, V, 27.6.2006, n. 4114), il silenzio-accoglimento si perfeziona anche se mancano i presupposti per l’accoglimento della domanda e addirittura – come affermato dalla IV sezione 20 maggio 1999, n. 858 – per le “domande dirette alla concessione di costruzione in sanatoria relative a opere compiute oltre la data del 1° ottobre 1983, essendo il compimento delle opere abusive entro la predetta data requisito necessario ai fini del rilascio di provvedimento ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 35 della legge 28 febbraio 1985 n. 47, ma non per il mero verificarsi della fattispecie complessa di silenzio-accoglimento” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 14 aprile 1993, n. 496, id. 26 ottobre 1994, n. 1385, id. 7 dicembre 1995, n. 1672, id. 24 marzo 1997, n. 286).
Il silenzio assenso così formatosi può essere rimosso solo mediante l’esercizio del potere di annullamento di ufficio da parte del Comune (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 24 marzo 1997, n. 286), misura di autotutela che consente di contemperare il ripristino della legalità con l’esigenza, pure avvertita dal legislatore, di rendere effettivamente praticabile l’istituto del silenzio accoglimento (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 7 dicembre 1995, n. 1672).
La sopra rappresentata mancata necessità della produzione dei documenti, quale requisito per la formazione del silenzio assenso, è indirettamente confermato dal 4° comma dell’art. 39 L. 724/94, che, innovando, ha espressamente condizionato il perfezionarsi del silenzio assenso all’esistenza della documentazione richiesta, fino a prevedere la sanzione della improcedibilità nell’ipotesi di mancata produzione decorsi 3 mesi dalla richiesta espressa del comune; disposizione estesa dalla L. 449/1997 alle sole domande ex L. 47/85 per le quali non si fosse perfezionato il silenzio assenso per le ragioni ivi indicate.
Per il nuovo condono, quindi, il Legislatore ha determinato, diversamente dal precedente, i requisiti necessari per il formarsi del silenzio accoglimento, richiedendo l’avvenuta allegazione della documentazione; la presentazione della denuncia al catasto fabbricati; il pagamento dell’intera oblazione dovuta e degli oneri concessori (Cass. Pen., III, 13.2.2001 n. 13896 e 18.1.2001 n. 10248). La carenza di uno solo di tali elementi preclude la formazione del silenzio assenso (cfr. T.A.R. Catania, I, 20 gennaio 2004, n. 49).
Ed invero, il richiamato art. 39 così espressamente si esprime:
Il pagamento dell’oblazione dovuta ai sensi della legge 28 febbraio 1985, n. 47, dell’eventuale integrazione di cui al comma 6, degli oneri di concessione di cui al comma 9, nonché la documentazione di cui al presente comma e la denuncia in catasto nel termine di cui all’articolo 52, secondo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, come da ultimo prorogato dall’articolo 9, comma 8, del decreto-legge 30 dicembre 1993, n. 557, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1994, n. 133, ed il decorso del termine di un anno e di due anni per i comuni con più di 500.000 abitanti dalla data di entrata in vigore della presente legge senza l’adozione di un provvedimento negativo del comune, equivale a concessione o ad autorizzazione edilizia in sanatoria salvo il disposto del periodo successivo; ai fini del rispetto del suddetto termine la ricevuta attestante il pagamento degli oneri concessori e la documentazione di denuncia al catasto può essere depositata entro la data di compimento dell’anno.
Sicché, la formazione del silenzio-accoglimento é  espressamente condizionata  dal contestuale decorso del tempo rispetto ad una domanda corredata dai documenti elencati e ritenuti, pertanto, necessari …”.
A ben vedere il Comune di A… ben ha  fatto a richiedere la integrazione documentale  ai  Sig.ri M…, ed è proprio l’atteggiamento dell’Ente che porta a ritenere  la domanda  accoglibile, sebbene doverosa di integrazione.
Richiesta alla quale prontamente ottemperavano gli istanti.

  1. Doveroso a questo punto soffermarci sull’ ipotesi di infedeltà nell’istanza.

La dolosa infedeltà è disciplinata secondo le disposizioni dei vecchi condoni non trovando altra disciplina nel terzo condono.
Per l’art. 35 della legge 28 febbraio 1985 n. 47, decorso il termine di 24 mese dalla sua presentazione sulla domanda di condono di un abuso edilizio si forma il silenzio-assenso a condizione, tra l’ altro, che detta domanda non sia dolosamente infedele. Le opere che i Sig.ri M… hanno inteso condonare sono quelle realizzate e completate antecedentemente all’anno 2003, e le istanze fanno riferimento ai manufatti terminati nella loro interezza prima della scadenza prevista dalle disposizioni del c.d III condono. Le stesse sono quelle riportate nei grafici depositati ad integrazione richiesta, mai sono state aumentate o dolosamente occultate. In sostanza, nel caso di specie, non esiste alcuna domanda infedele.
Perché sia configurabile quest’ultima ipotesi ricorrendo la quale l’art. 40, 1° co. della l. n. 47 del 1985, esclude la possibilità del condono, è necessario, secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, che siano state riscontrate omissioni ed inesattezze preordinate a trarre in inganno il Comune su elementi essenziali dell’abuso (consistenza dell’abuso, qualificazione giuridica dell’ illecito, data della sua commissione, entità dell’oblazione).
L’ espressione letterale “rilevanza delle omissioni” coniuga inscindibilmente il dato d’ordine quantitativo all’ “infedeltà” ed al “dolo” che connotano la domanda per il fatto stesso dell’ esistenza del primo.
Nella specie, il dato quantitativamente rilevante, potrebbe ricorrere appunto nella maggior volumetria rilevabile dall’aerefotogrammetria disponibile presso il Comune. Da essa potrebbe rilevarsi che l’istanza non corrisponde a quanto integrato successivamente ritenendo valido l’intendo di occultare l’abuso per versare una minore oblazione ma ciò è lontano da qualsiasi intento doloso dei soggetti e ugualmente lontano da una verifica in tal senso da parte dell’Ente.
Ad ogni buon fine, tra le opere di cui è stata chiesta la sanatoria non figura nulla di occulto né si è dichiarato alcunché di ridotto per versare una oblazione inferiore per intento doloso, né dal procedimento è emerso alcuna di tale ipotesi.

  1. Dalla documentazione richiamata si desume che il pagamento delle rate di oblazione è avvenuto sia all’atto della presentazione dell’istanza che in fase di integrazione documentale richiesta.

Ad ogni buon conto se pur si volesse far riferimento alla mancanza di congruità iniziale dell’oblazione perché non rispecchiata nello schema di domanda allegata alla legge istitutiva del III condono, neppure si potrebbe far discendere la carenza di elementi essenziali della domanda.
Invero, la legge fornisce sostegno alla tesi enunciata: l’art. 32, comma 37 del d.l. 269/2003, facendo rifermento esclusivamente all’irregolare pagamento o determinazione dell’oblazione, stabilisce, infatti, che: “se nei termini previsti l’oblazione dovuta non e’ stata interamente corrisposta o e’ stata determinata in forma dolosamente inesatta, le costruzioni realizzate senza titolo abilitativo edilizio sono assoggettate alle sanzioni richiamate all’articolo 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, oggi abrogate e trasfuse negli articoli 40 e 42 e ss. del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380”, ovvero, soggetta a ulteriore sanzione pecuniaria “… a fronte dell’omesso tempestivo pagamento della rata del contributo per oneri di urbanizzazione, l’Amministrazione è obbligata ad applicare a titolo sanzionatorio l’aumento (del 10%) previsto dall’art. 42 comma 2 del T.U. n. 380/2001. Non si può ritenere, quindi, che l’irrogazione della predetta sanzione, in presenza di garanzia a prima richiesta non escussa, comporti un indebito aggravamento della posizione del debitore ai sensi dell’art. 1227 c.c.Infatti, in assenza di inadempimenti imputabili all’Amministrazione idonei a configurare a suo carico una responsabilità “da contatto” oppure di natura precontrattuale, il richiamo all’art. 1227 c.c.è da considerarsi inconferente, essendo tale disposizione riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, che restano governate dalla disciplina pubblicistica di riferimento (Cons. Stato, Sez. IV, 13.03.2008, n. 1084)”,tant’è che tempo addietro il suddetto art. 32 veniva considerato in stretta e necessaria correlazione con la disposizione dell’art. 2 commi 40, 41 e 42 della legge 23 dicembre 1996 n. 662 (così come modificata dall’art. 1 comma nono legge 27 dicembre 1997 n. 449) – norma dettata per il primo ed il secondo condono, ma da ritenersi applicabile anche al terzo condono, stante il richiamo che il d.l. 269/2003 fa dell’intera disciplina dettata per i precedenti condoni – si vede come quest’ultima stabilisca che il pagamento del triplo della differenza dell’oblazione dovuta ai sensi della legge 47/1985 ovvero dell’oblazione dovuta a sensi della legge 724/1994 (in precedenza previsto entro termini perentori a pena di improcedibilità della domanda) possa essere effettuato in qualsiasi tempo purché versando gli interessi nella misura legale, il tutto entro 60 giorni dalla data di notifica da parte del Comune dell’obbligo di pagamento (il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria é comunque subordinato all’avvenuto pagamento dell’intera oblazione, degli oneri concessori, ove dovuti, e degli interessi). Ma se si deve ritenere applicabile anche al terzo condono detta disposizione, allora ne deriva che “i termini” entro i quali deve essere pagata l’oblazione a pena di “improcedibilità della domanda” ed ai quali fa riferimento l’art. 32, comma 37, d.lgs. 269/2003 non sono solo i termini “fissi” e “perentori” di cui all’Allegato 1 al d.lgs. 269/2003 ma che al riguardo bisogna anche tener conto del termine “mobile” previsto dall’art. 2 comma 40 legge 662/1996 (i sessanta giorni successivi alla richiesta di pagamento notificata dal Comune).
Ebbene i Sig.ri M… non si trovano in alcuna delle ipotesi menzionate dal suddetto articolo di legge.
In primo luogo, come più volte ribadito e come desumibile dagli atti, loro hanno provveduto in data 9.12.04 al pagamento dei relativi oneri sanzionatori; in secondo luogo, se l’oblazione fosse da considerarsi non congrua allora il Comune dovrebbe applicare l’art. 42 richiamato ma nessun comportamento dell’istante induce ad intravedere nello stesso una dolosa preordinazione alla infedele domanda per inesattezze riscontrate o modifiche del fabbricato da condonare nelle more della definizione del procedimento.

  1. Infine, come prima ricordato l’art. 41, pone addirittura un incentivo al fine di invogliare la definizione delle domande di sanatoria per i comuni, infatti, per gli stessi, il 50 per cento delle somme riscosse a titolo di conguaglio dell’oblazione, ai sensi dell’articolo 35, comma 14, della citata legge n. 47 del 1985, e successive modificazioni, è devoluto al comune interessato.

Il Comune di A… ha quindi tutto l’interesse a provvedere sull’istanza.

  • La Giurisprudenza

Il riferimento alla mancanza della documentazione necessaria:
il T.A.R. Lazio Sez. II, 21/02/2001, n. 1366, ha statuito che “… La facoltà di richiedere il condono edilizio è tempestivamente esercitata, agli effetti del suo esercizio impeditivo della decadenza, ove sia dato rinvenire la esistenza di una manifestazione di volontà dell’interessato da cui sia inequivocabilmente desumibile una richiesta rivolta all’amministrazione di ottenere lo stesso legale condono, sempre che siano parimenti ricavabili, da tutte le indicazioni fornite dall’interessato richiedente, gli elementi essenziali che consentono la individuazione di una domanda di condono e l’avvenuto adempimento di alcune condizioni parimenti imposte dalla legge, ferma restando la possibilità per l’interessato ovvero per l’amministrazione cui la stessa richiesta è rivolta di presentare o richiedere la documentazione ulteriore”.Ancora se la domanda di condono non risulta corredata né dall’attestazione del pagamento dell’oblazione e dell’anticipazione degli oneri concessori, né dalla ulteriore documentazione richiesta dall’art. 32, comma 32, del decreto legge n. 269/2003, e non vi è prova che la ricorrente abbia provveduto in seguito ad integrare la predetta domanda, secondo la prevalente giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 3 agosto 2004, n. 5412; T.A.R. Campania Napoli, Sez. VI, 12 aprile 2005, n. 3816) il giudice è tenuto ad effettuare una verifica estrinseca della sussistenza dei presupposti minimi di ammissibilità della richiesta di condono in relazione alla specifica vicenda dedotta in giudizio;consolidato orientamento giurisprudenziale (ex multis, T.A.R. Puglia Lecce, Sez. I, 15 settembre 2006, n. 4503; T.A.R. Lazio Roma, Sez. II, 31 gennaio 2006, n. 694; T.A.R. Campania Napoli, Sez. VI, 4 agosto 2005, n.10592) secondo il quale la presentazione della domanda di condono successivamente alla impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce l’effetto di rendere inefficace tale provvedimento, e quindi improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, perché tale orientamento non può trovare applicazione nei casi in cui la domanda di condono non risulti corredata dall’attestazione del pagamento dell’oblazione e dell’anticipazione degli oneri concessori, né dalla ulteriore documentazione richiesta dall’art. 32, comma 32, del decreto legge n. 269/2003, e quindi sia palese la mancanza dei presupposti minimi di ammissibilità della stessa. Infatti l’obbligo di riesaminare l’abusività delle opere provocato dalla domanda di condono ha senso solo in presenza di un intervento astrattamente sanabile, ossia quando per effetto della formazione di un nuovo provvedimento esplicito (di accoglimento o di diniego), da qualificare come atto non meramente confermativo, risulterebbe definitivamente vanificata l’operatività dell’impugnato provvedimento demolitorio (T.A.R. Campania Salerno, Sez. II, 03 maggio 2005, n. 745). Naturalmente l’istante deve offrire ogni elemento di prova da cui si possa desumere che le opere dalla stessa abusivamente realizzate non presentano caratteristiche diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento impugnato di rigetto dell’istanza da parte del Comune.
Alla stregua di una costante giurisprudenza del Giudice amministrativo, che la Sezione integralmente condivide:.. “il principio del silenzioassenso in materia di condono edilizio stabilisce che affinché esso si formi è necessario che sussistano comunque i presupposti di accoglibilità della domanda e cioè che il manufatto abusivo sia stato realizzato al momento della domandastessa, che la medesima non sia dolosamente infedele e che non sussistano sull’area su cui è sorto il manufatto abusivo vincoli di inedificabilità, sicché l’omessa presentazione della documentazione prescritta per la domanda di condono edilizio non fa decorrere, oltre che il termine di ventiquattro mesi per la formazione del silenzio assenso, quello collegato di trentasei mesi per la prescrizione del diritto al conguaglio degli oneri” (T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 15 aprile 2009, n. 3862).
Orbene, anche nel caso in esame non è contestato che il manufatto oggetto della domanda di sanatoria è stato realizzato su un” area vincolata (art. 23 NTA “zona di vincolo assoluto di inedificabilità”) che, in quanto tale avrebbe dovuto condizionare il rilascio della concessione in sanatoria al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso ai sensi dell’art. 32, della L. 28 febbraio 1985 n. 47.
D’altro canto il termine per l’eventuale formazione del silenzio assenso, previsto dall’articolo 35, della L. 23.2.1985, n. 47, relativo al rilascio di concessione edilizia sanatoria inizia, invero, a decorre “dal momento in cui l’amministrazione procedente è posta in condizioni di esaminare compiutamente la relativa domanda, in quanto integrata la documentazione necessaria ex legge richiesta all’interessato dall’amministrazione (TAR Emilia Romagna Sez. II Bologna, 28.5.1999, n. 262).
Grava sul richiedente la sanatoria; ciò perché mentre l’amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può fornire qualunque documentazione da cui possa desumersi che l’abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta (ad es. fatture, ricevute relative all’esecuzione dei lavori e/o all’acquisto dei materiali ecc.), non potendosi ritenere al riguardo sufficiente la sola allegazione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio (T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 2.7.2008, n. 6367).
Analogamente:…”se il richiedente la sanatoria non dia la prova in questione, la domanda di condono deve essere respinta” (TAR Campania Salerno, sez. II, 29.5.2006, n. 752).
VA osservato anche che: “… l’inottemperanza del richiedente il condono alla richiesta di integrare la documentazione, è causa di diniego di rilascio del condono stesso solo per i condoni richiesti ex L. n. 724/94, mentre per le richieste di condono edilizio ex. L. 47/85 non sussiste alcun termine perentorio per integrare la documentazione inoltre, come già enunciato da questo Consiglio con la decisione n. 1792/05, una lettura comparata del testo legislativo (art. 35, commi VI e IX) e delle circolari interpretative del Ministero dei LL.PP. del 30.7.1985 n. 3357/25 e 29.10.1985 n. 4498/25 fa ritenere che nessun effetto decadenziale o di rigetta può discendere dalla incompletezza della domanda”
Considerato, tuttavia, che la norma, letta in conformità ai principi costituzionali di buon andamento ed ai principi di completezza sostanziale e temporale di cui all’articolo 2 della legge n. 241 del 1990, secondo il quale il procedimento amministrativo deve concludersi con un provvedimento espresso entro un termine certo e predeterminato, non può certamente significare che i procedimenti di condono edilizio regolati dalle legge anteriore, la n. 47/1985, fossero svincolati da ogni regola temporale e che la richiesta di integrazione documentale costituisse un mero invito privo di qualsivoglia effetto acceleratorio e sanzionatorio nei confronti del destinatario colposamente inadempiente;
Ritenuto, infatti, che per costante giurisprudenza il termine di due anni decorrenti dalla presentazione della domanda di condono per la maturazione del silenzio assenso di cui all’articolo 35 della legge n. 47 presuppone la completezza della documentazione da allegare alla domanda (Cons. St., Sez. IV, 742006, n. 1910); che, pertanto, una domanda incompleta e che tale rimanga nonostante le diffide al suo completamento lascerebbe inammissibilmente il procedimento di condono sospeso a tempo indeterminato e a insindacabile scelta dell’interessato;
Sussiste il principio secondo cui “nessun effetto decadenziale o di rigetto può discendere dall’incompletezza della domanda” ciò viene affermato nella sentenza della V sezione di questo Consiglio 19 aprile 2005, n. 1792.
Nelle suesposte considerazioni è il parere.
                                                                                    Avv. Luigi Ferrara 

Inquadramento sistematico delle società a trasformazione urbana in rapporto all’istituto della mobilità.

PARERE
IN FATTOcon riferimento alla determinazione n. …, (proposta n. … del … novembre 2010 determina n. …), con la quale, previa relazione negativa del settore U.O. Risorse Umane a firma della dott.ssa … (prot. n. …, del … novembre 2010), si è escluso dalla partecipazione alla selezione per la copertura del posto di istruttore direttivo tecnico – catg. D/1, da assegnare al settore Sviluppo ed Investimento, l’. … …, esclusione, motivata dal mancato possesso del requisito di cui all’art. 1, let. A, del bando di mobilità, perché dipendente dell’Agroinvest S.p.A., società di capitali che non rientra tra i soggetti individuati quali soggetti appartenenti alla P.A. nei confronti dei quali, secondo il regolamento di mobilità comunale approvato con delibera di G.M. n. … del 7 … 2010, si applica l’istituto della mobilità volontaria.
Il quesito proposto allo scrivente concerne la validità o meno di una istanza di riesame, diretta alla revoca in autotutela del provvedimento negativo di esclusione, relativamente ad una rinnovata istruttoria sulla scorta di ulteriori documenti, al fine di evidenziare l’assunto erroneo determinato dal difetto di istruttoria.
Ricostruzione FATTUALE E normativa
a) Documentazione esaminata
– Regolamento di organizzazione esperimento delle procedure di mobilità (delibera di G.C. del 7 … 2010, n. …);
– Avviso di mobilità volontaria del Comune di … (determina n. … del 20 … 2010), di emanazione del bando;
– Determinazione di esclusione n. …, del 18 … 2010, (prot. denominato proposta n. … del 18 … 2010, n. …);
– Relazione del settore U.O. Risorse Umane a firma della dott.ssa … … (prot. n. …, del 18 … 2010);
– Accordo di programma, inerente la realizzazione del P.I.P. comprensoriale denominato “Taurana” del 31 maggio 2004;
– Domanda di ammissione di essere ammesso a partecipare all’avviso di mobilità per le categorie giuridiche D/1, relativa all’area tecnica settore Sviluppo ed Investimenti;
– Normativa di riferimento;
§§§§§§§§§§§§§§§
b)     Considerazioni fattuali.
Il Comune di … con determina n. … del 20….2010, provvedeva all’emanazione del bando di mobilità, approvando l’allegato avviso di domanda, il tutto secondo l’art. 30, co. 2 bis del d. lgs. 165/01. Pubblicava altresì l’avviso di mobilità volontaria, in cui erano precisati i requisiti per tale mobilità. L’. … … presentava, richiesta per la copertura del posto di istruttore direttivo tecnico, categ. D/1, da assegnare al settore Sviluppo ed Investimento, possedendo la qualifica di funzionario – quadro di direzione di Agro Invest S.p.A.
L’amministrazione, previo parere negativo del responsabile del procedimento, settore U.O. Risorse Umane, esclude il volontario con la seguente motivazione: “… escludere … perché dipendente dell’Agro Invest S.p.A., società di capitali che non rientra tra i soggetti individuati quali soggetti appartenenti alla P.A. nei confronti dei quali, secondo il regolamento di mobilità di cui alla delibera di G.C. n. … del 7….2010, si applica l’istituto della mobilità volontaria”.
La motivazione è affetta da una motivazione illogica e contraddittoria anche sotto il profilo dell’eccesso di potere per difetto d’istruttoria.
Sia il bando che l’avviso di mobilità pubblicati recitano che sono ammessi a partecipare i lavoratori che sono in servizio con rapporto a tempo indeterminato presso le Pubbliche Amministrazioni del comparto unico del pubblico impiego regionale e locale e loro consorzi e associazioni.
L’. … … possiede tutti i requisiti del bando e poiché proviene da una società a partecipazione pubblica del comparto pubblico locale può essere considerato idoneo a partecipare alla selezione per la copertura del posto di istruttore direttivo tecnico, categ. D/1, da assegnare al settore Sviluppo ed Investimento.
IN DIRITTO.
c)             Ricostruzione teorico normativa applicabile.
Dalla documentazione richiamata si desume che il provvedimento di esclusione è affetto da una carenza di istruttoria in ordine ai requisiti sia oggettivi (mobilità esterna) che soggettivi (di funzioni).
Per meglio comprendere la fattispecie sottoposta all’esame, è utile un exursus normativo di riferimento, prendendo le mosse dalla novellata riforma del d.lgs. 165/2001, e collegarsi al fil rouge della complicata materia.
Per comodità di esposizione, possiamo definire come mobilità esterna, quella che comprende gli istituti in forza del quale l’impiegato pubblico finisce per rendere la propria prestazione a favore di una Pubblica Amministrazione diversa da quella di origine (vicenda che non necessariamente è la conseguenza della sostituzione di una Amministrazione ad un’altra come parte del rapporto) e per mobilità interna, quella in cui ciò che muta è solamente il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, non anche il soggetto che riceve la prestazione.
Nel d .Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 si rinviene unicamente la normativa in materia di mobilità esterna, nonostante che la mobilità sia una delle materie sulle quali il d. lgs. n. 80 del 1998 ha maggiormente inciso. Nella precedente versione della riforma, la mobilità era caratterizzata dal sovrapporsi di testi normativi anche di diverso livello non coordinati tra loro e che, soprattutto, avevano finito per delineare procedure estremamente macchinose e, proprio per tale motivo, probabilmente inattuabili. Si trattava degli originari artt. 30, 32, 33, 34 e 35 d. lgs. n. 29, dell’art. 3, commi 47-52, l. 24 dicembre 1993, n. 537, dell’art. 22, l. 23 dicembre 1994, n. 724, dal d.p.c.m. 16 settembre 1994, n. 716, dal d.m. 27 febbraio 1995, n. 112, espressamente abrogati dall’art. 43, del d. lgs. n. 80 (in ordine ai quali ci si permette di rinviare a SORDI, Piante organiche e mobilità, in Quad. dir. lav. rel. ind., n. 16, 1995, 79, nonché a MAINARDI-MISCIONE, La mobilità, in CARINCI, a cura di, Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Commentario, I, Milano, 1995, 572).
Volendo fornire un quadro generale e di sintesi dei vari istituti si può dire che il legislatore ha contemplato una prima ipotesi di passaggio, per così dire, “volontario”, cioè su domanda del dipendente interessato, tanto all’interno dello stesso comparto quanto tra comparti diversi (art. 30 d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, precedente art. 33, d. lgs. n. 29, così come sostituito dall’art. 18 d. lgs. n. 80 e poi ulteriormente modificato dall’art. 20, co. 2, l. 23 dicembre 1999, n. 488), tralasciando la seconda, la terza e una quarta ipotesi, perché inconferenti al caso di specie.
Doveroso precisare che, l’applicazione di tale normativa generale soffre di due sole eccezioni.
Una è contemplata dallo stesso d. lgs. n. 165 che, all’art. 70 comma XI, stabilisce che le disposizioni in materia di mobilità di cui agli artt. 30 e seguenti non si applicano al Corpo Nazionale dei Vigili del fuoco.
L’altra eccezione è prevista, invece, dall’art. 39, co. 7. l. 27 dicembre 1997, n. 449, che stabilisce la possibilità di regolare il passaggio, in ambito regionale, del personale dalle Amministrazioni dello Stato al servizio ispettivo delle Direzioni regionali e provinciali del Ministero del lavoro e della previdenza sociale “anche in deroga alla normativa vigente in materia di mobilità volontaria o concordata”.
Dal tenore letterale delle norme emerge ictu oculi l’applicabilità della stessa ai funzionari di altri enti.
Fatta tale premessa, appare chiaro che per l’attuazione del passaggio previsto dalla normativa da un’amministrazione all’altra è dunque necessario il consenso di tutte le parti interessate: il lavoratore che formula l’istanza, l’amministrazione di destinazione che decide di coprire il posto con un lavoratore esterno, e quella di provenienza che presta il proprio consenso, tale consenso al passaggio, come si vedrà in seguito, è necessario anche per le società partecipate che non svolgono funzioni in regime di concorrenza nel mercato.
Se si aggiunge che, almeno quando la vicenda si attua tra amministrazioni appartenenti allo stesso comparto, analoga rimarrà la disciplina del rapporto che continuerà a rimanere soggetto allo stesso contratto collettivo (anche se non possono escludersi variazioni dovute alla normativa particolare propria di ciascuno dei due soggetti pubblici coinvolti), risulta evidente che la fattispecie presenta notevoli affinità con quella della cessione del contratto (Conforme Tribunale di Parma, 11 agosto 1999, Pres. Est. Ferraù, M. c. Comune di Roccabianca; PICONE, pag., 44).
La menzionata dottrina, pur riconoscendo che l’art. 30 co. I, affida formalmente l’iniziativa del passaggio alla domanda di trasferimento del dipendente interessato diretta all’amministrazione ad quem, mostra di superare la difficoltà evidenziando come l’iniziativa sostanziale possa essere assunta anche da una delle due amministrazioni.
Possiamo trarre alcuni principi relativi alla predetta mobilità da un Ente a partecipazione pubblica quale la STU a quella di un Ente Pubblico dal coordinamento di alcuni degli artt. dello stesso d. lgs 165/01.
Già l’originario art. 62 del d. lgs. n. 29 del 1993 stabiliva l’applicazione dell’art. 2112 c.c. in materia di trasferimento d’azienda al caso del passaggio di dipendenti di enti pubblici e delle aziende municipalizzate o consortili, a società private per effetto di norme di legge, di regolamento o convenzione che attribuissero alle stesse società le funzioni esercitate dai citati enti pubblici ed aziende. La norma è stata abrogata dall’art. 43 del d. lgs. n. 80 del 1998, che a sua volta, con l’art. 19, ha sostituito il precedente art. 34, d. lgs. n. 29, (ora divenuto art. 31, d. lgs. n. 165 del 2001) ed ha disposto che, nel caso di trasferimento o conferimento di attività, svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture, ad altri soggetti, pubblici o privati, al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applicano l’art. 2112 c.c. e si osservano le procedure di cui all’art. 47, commi da 1 a 4, della l. 29 dicembre 1990, n. 428.
Dal trasferimento di attività si evince, come accennato, un primo passo verso il passaggio di un attività da un soggetto pubblico ad uno privato, fattispecie contemplata dall’art. 31, ove si deve riconoscere che le espressioni utilizzate dal legislatore sono estremamente generiche, manifestandosi così in maniera evidente l’intento di comprendere, in generale, qualsiasi modalità attraverso la quale si realizza il passaggio di un’attività da un soggetto pubblico ad un altro, sia pubblico che privato. E’, questo, un rilevante tratto di diversità rispetto alla disciplina precedentemente contenuta nell’art. 62 d. lgs. n. 29 il quale precisava che esso si applicava alle attribuzioni di funzioni (a) da enti pubblici o aziende municipalizzate o consortili (b) a società private (c) per effetto di norme di legge, regolamento o convenzione.
Ora divengono significative le differenze in ordine alle categorie di soggetti interessati dalla vicenda traslativa, anche dal punto di vista della stessa mobilità di personale c.d. esterna, proveniente da una società quale quella di Trasformazione Urbana come Agroinvest S.P.A., società a partecipazione pubblica per oltre il 90%.
Non v’è più ragione di dubitare dell’inclusione del riferimento “pubbliche amministrazioni “ e poi quello a “loro aziende o strutture” rendendo chiaro che la disciplina si applica al trasferimento o conferimento di attività svolte da qualsiasi soggetto pubblico, e per di più è stata tratta l’ulteriore conseguenza secondo cui la sfera di operatività del d.lgs. 165/01, comprenderebbe non solo l’area del pubblico impiego, ma anche quella dei rapporti di lavoro alle dipendenze di enti pubblici economici e di aziende di enti pubblici (PICONE, Commento all’art. 19, in VITELLO, a cura di, La riforma della pubblica amministrazione, in Gazz. giur. Giuffrè Italia Oggi, suppl. al n. 29, 1998, 48).
La sostituzione del riferimento alle aziende municipalizzate e consortili con quello alle “aziende e strutture” degli enti pubblici ha la conseguenza di includere nell’ambito di applicazione della norma tutte le aziende che, a mente dell’art. 23 della l. n. 142 del 1990 e dell’art. 4 l. n. 95 del 1995 hanno rapporto di strumentalità con l’ente locale per l’esercizio di servizi di rilevanza economica (art. 22, lett. c), l. n. 142 del 1990), pur godendo di personalità giuridica, autonomia imprenditoriale e statutaria (MAINARDI, op. cit., 985).
Ancora più vasto risulta l’ampliamento del novero dei soggetti investiti delle attività oggetto del trasferimento perché si passa dalle “società private” ad “altri soggetti pubblici o privati”, senza alcuna limitazione.
In conclusione, la norma si applica a qualsiasi trasferimento di attività, indipendentemente dallo strumento prescelto per la sua attuazione, dal tipo del soggetto pubblico cedente e, dalla natura del soggetto (pubblico o privato) cessionario.
La motivazione posta alla base dell’esclusione dell’ing. … trae origine da una errata qualificazione giuridica dell’Agro Invest S.P.A., considerandolo cioè, un soggetto privato e basta.
La domanda di mobilità posta dal soggetto escluso è fuor di dubbio legittima.
Infatti le STU, sono state introdotte nel nostro ordinamento dall’art. 17, 59° co., legge n. 127/1997, il quale testualmente prevedeva che “Le città metropolitane e i comuni, anche con la partecipazione della provincia e della regione, possono costituire società per azioni per progettare e realizzare interventi di trasformazione urbana, in attuazione degli strumenti urbanistici vigenti. A tal fine le deliberazioni dovranno in ogni caso prevedere che gli azionisti privati delle società per azione siano scelti tramite procedura di evidenza pubblica”.
“Le società di trasformazione urbana provvedono alla preventiva acquisizione delle aree interessate dall’intervento, alla trasformazione e alla commercializzazione delle stesse. Le acquisizioni possono avvenire consensualmente o tramite ricorso alle procedure di esproprio da parte del comune.
Le aree interessate dall’intervento di trasformazione sono individuate con delibera del consiglio comunale. L’individuazione delle aree di intervento equivale a dichiarazione di pubblica utilità, anche per le aree non interessate da opere pubbliche. Le aree di proprietà degli enti locali interessate dagli interventi possono essere attribuite alla società a titolo di concessione.
I rapporti tra gli enti locali azionisti e la società per azioni di trasformazione urbana sono disciplinati da una convenzione contenente, a pena di nullità, gli obblighi e i diritti delle parti”.
Al riguardo, non va taciuto che la prassi di alcuni Comuni italiani aveva già sperimentato forme di tali società, evidentemente nascenti dal modello societario tipizzato e delineato dall’art. 23, 3° co., lett. e), legge n. 142/1990.
Il testo della norma suindicata è rimasto immutato anche a seguito della formulazione dell’art. 120 d.lg. 18-8-2000, n. 267, recante il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari sugli enti locali, ed avente specificatamente ad oggetto le STU.
Da ultimo, l’art. 44 della recente l. 1-8-2002, n. 166, ha innovato in modo rilevante il quadro normativo, introducendo, in luogo del termine «aree», previsto dal richiamato d.lg. n. 267/2000, quello di «immobili».
Il quadro delle disposizioni normative si completa con le diverse leggi regionali, che, direttamente o indirettamente, si sono occupate delle STU. In proposito, il loro esame seguirà quello delle richiamate norme statali, le quali, in quanto tali, costituiscono il punto di riferimento e di partenza al tempo stesso, nonché i principi fondamentali ai quali i legislatori regionali sono tenuti ad uniformarsi nell’esercizio della funzione legislativa concorrente a loro attribuita.
Tale panorama è arricchito da alcune norme che, pur non introducendo alcuna disciplina cogente in relazione alle STU, contribuiscono a promuovere e a dare attuazione a tale figura.
I caratteri della STU tra servizio pubblico e interventi di pubblica utilità, sono desunti da una parte della dottrina, la quale muove dalla constatazione dell’inclusione della disciplina delle STU, di cui all’art. 120 cit., all’interno del titolo V (servizi e interventi pubblici locali) del d.lg. n. 267/2000, e, dunque, dall’accostamento delle STU alle altre ipotesi di società a partecipazione pubblica.
In esse convivono la funzione pubblica del governo delle trasformazioni urbane ed urbanistiche (deliberate dal Consiglio comunale) — in quanto tale non delegabile alla società — la promozione di interventi di pubblica utilità, comprensiva della realizzazione di opere pubbliche.
Gli assi portanti della società sono chiari: la funzione di indirizzo politico-programmatico, che conduce alla individuazione degli obiettivi generali, spetta comunque sempre agli enti locali promotori della STU; parimenti all’ente locale spetta l’esercizio della funzione della pianificazione (o, il che è lo stesso, della risistemazione) urbanistica del tessuto urbano individuato; la società, una volta costituita, governa la realizzazione degli interventi, i quali possono prevedere trasformazioni urbanistiche, costruzione di opere pubbliche e di pubblica utilità, commercializzazione e gestione di quanto realizzato.
È sulla base di queste coordinate che può sostenersi la possibile compresenza, all’interno della vita della STU, di attività e di interventi pubblici per «la produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali.
Sostenere, invece, che le STU siano servizio pubblico, porta ad una conclusione inaccettabile: nel senso riduttivo della parola; mentre se si parte dal significato che la STU rappresenta uno dei diversi strumenti per l’esercizio della funzione pubblica e dell’urbanistica (rectius del governo del territorio), come specificato anche nell’art. 112 d.lg. n. 267/2000, che definisce i caratteri del servizio pubblico locale, l’intera funzione della pianificazione urbanistica, comprende dunque, anche il servizio pubblico svolto dalla STU, il che appare aderente al proprium della disciplina e del contenuto del delle norme richiamate.
In tal caso ci si può riferire all’art 113, del d. lgs. n. 267/2000, intitolato: “Gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
1. Le disposizioni del presente articolo che disciplinano le modalità di gestione ed affidamento dei servizi pubblici locali concernono la tutela della concorrenza e sono inderogabili ed integrative delle discipline di settore. Restano ferme le altre disposizioni di settore e quelle di attuazione di specifiche normative comunitarie…. 
1-bis. Le disposizioni del presente articolo non si applicano al settore del trasporto pubblico locale che resta disciplinato dal decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422, e successive modificazioni. 
2. Gli enti locali non possono cedere la proprietà degli impianti, delle reti e delle altre dotazioni destinati all’esercizio dei servizi pubblici di cui al comma 1, salvo quanto stabilito dal comma 13. 
2-bis. … 
3. Le discipline di settore stabiliscono i casi nei quali l’attività di gestione delle reti e degli impianti destinati alla produzione dei servizi pubblici locali di cui al comma 1 può essere separata da quella di erogazione degli stessi. È, in ogni caso, garantito l’accesso alle reti a tutti i soggetti legittimati all’erogazione dei relativi servizi. 
4. Qualora sia separata dall’attività di erogazione dei servizi, per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali gli enti locali, anche in forma associata, si avvalgono: 
a) di soggetti allo scopo costituiti, nella forma di società di capitali con la partecipazione totalitaria di capitale pubblico cui può essere affidata direttamente tale attività, a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”.
Orbene, nel caso ad esempio dell’attuazione del PIP denominato Taurana, Agro Invest S.p.A. attraverso la convenzione datata 21 febbraio 2006, rep. n° 861 i Comuni di Angri, Sant’Egidio del Monte Albino, San Marzano sul Sarno hanno disciplinato gli obblighi ed i diritti tra Agro Invest S.p.A., ed hanno stabilito un effetto, ovvero, i Comuni hanno affidato alla Agro Invest S.p.A. il compito di attuare il Piano di insediamenti Produttivi Comprensoriale Taurana, compreso la realizzazione delle opere pubbliche necessarie, nonché delegato Agro Invest a procedere all’esproprio, ovvero se possibile, alla acquisizione bonaria dei suoli individuati, alla realizzazione delle opere di urbanizzazione del PIP ed incaricato la medesima Agro Invest spa all’assegnazione dei lotti industriali alle imprese interessate, “BOLLETTINO UFFICIALE della REGIONE CAMPANIA n. 63 del 19 ottobre 2009 PARTE II Atti dello Stato e di altri Enti”, inoltre, ai sensi dell’art. 3.6 e dell’art. 3.7 della innanzi richiamata convenzione rep. n. 861 del 21.02.2006 i Comuni indicati in oggetto hanno espressamente delegato Agro Invest spa a svolgere tutte le attività amministrative e tecniche connesse all’espropriazione per pubblica utilità dei terreni costituenti il P.I.P., riservandosi comunque l’attività di controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
Trattasi quindi, di trasferimento di funzioni amministrative per evidente compimento di attività, qualificabili come interventi pubblici e come servizio pubblico, il controllo che gli enti esercitano su di esso, arricchisce il quadro della disciplina concretamente applicabile alle STU, non da ultimo, l’insieme delle normative in materia di appalto di lavori pubblici e di servizi, di attuazione delle relative direttive comunitarie.
Quanto finora detto trova del resto conferma nell’esame della disciplina contenuta nell’art. 120 t.u.e.l. Infatti, lo statuto e l’atto costitutivo di Agro Invest, stabiliscono il tipo di affidamento conferito dai comuni consorziati:
“ART. 1, DENOMINAZIONE.
È costituita una società per azioni denominata Agro Invest società mista di trasformazione urbana, a prevalente capitale pubblico, promossa ai sensi dell’art. 17 comma 59, della legge 25 maggio 1997 n. 127, nonché art. 22, co. 3, lett. e), della legge 142/90.
…omissis
Non si può quindi dubitare della natura di detta società come società del comparto pubblico locale o azienda di un Ente pubblico, come definito dall’art. 1, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e non come definizione sic et simpliciter di società “ente di diritto privato”, con la conseguente giuridica possibilità di considerarla per converso parte di un rapporto di pubblico impiego proprio perché costituita da pubbliche amministrazioni nel senso sopra definito di comparto pubblico locale.
Ulteriore differenziazione la si ricava soprattutto dalla disciplina della concorrenza di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, ovvero, per stare ad un es. la società Ferrovie dello Stato S.p.A. è un soggetto giuridico che non rientra nella nozione dell’art. 30, co. 2, d. lgs. 165/01, poiché anche essendo a partecipazione pubblica per la maggior parte del capitale, può essere considerato soggetto che può produrre concorrenza, per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tale ente in funzione delle sue attività relative a lavoro, servizio o fornitura, con altre società o associarsi a società collegate in regime di concorrenza con ulteriori aziende, con possibilità di alterare il mercato.
Così non può essere per una società di trasformazione urbana il cui scopo è quello di dare attuazione a funzioni amministrative, un piano di espropri, agli interventi ricostruttivi, i quali possono prevedere trasformazioni urbanistiche, costruzione di opere pubbliche e di pubblica utilità senza possibilità di alterare il mercato della concorrenza.
Così l’art. 13. Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza.
1.              Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori nel territorio nazionale, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, omissis …
devono operare con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, omissis …
 e non possono partecipare ad altre società o enti aventi sede nel territorio nazionale
Precipuo è il divieto legislativo di operare per altri soggetti pubblici o privati. L’Agro Invest oltre ad attuare ed esercitare funzioni amministrative opera esclusivamente per gli enti pubblici costituenti e per le società partecipanti e non altro.
LA GIURISPRUDENZA
Il riferimento alle “amministrazione pubbliche locali”, contenuto nell’art. 13 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, deve ritenersi volto a ricomprendere le attività poste in essere dalla generalità delle amministrazioni pubbliche che perseguono il soddisfacimento di interessi pubblici locali. La predetta disposizione opera pertanto nei confronti di tutti i soggetti contemplati dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001 (già D.Lgs. n. 29/1993), ivi comprese le società costitute o partecipate (Cons. Stato, Sez. III, 25/09/2007, n. 322).
La mobilità volontaria prevista dall’art. 30 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, come modificato da ultimo dall’art. 16 l. 28 novembre 2005 n. 246, integra una modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, con il consenso di tutte le parti, e quindi una cessione del contratto, per cui è illegittima la pretesa di un nuovo patto di prova nell’Amministrazione di destinazione, ove il patto di prova sia stato già superato nell’Amministrazione di provenienza (Cassazione civile, sez. un., 12 dicembre 2006, n. 26420). 
La disciplina normativa di principio, racchiusa nel decreto legislativo n. 165 del 2001, impone la necessità del titolo di studio della laurea per l’accesso alla dirigenza, ma non stabilisce affatto che il titolo debba essere omogeneo ed unitario, per ciascuno dei posti di dirigente messi a concorso (Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, 19 febbraio 2008, n. 2096). 
Così regolamentata, la Giurisprudenza ha ricondotto la procedura di mobilità nell’ambito dello schema della cessione del contratto. Pacifica è, comunque, la necessità del concorso della volontà (oltre che del lavoratore che avanza la richiesta) di entrambe le pubbliche amministrazioni coinvolte.   
L’art. 30, comma 2-bis, d. lgs. n. 165 del 2001 introduce un duplice obbligo a carico delle pubbliche amministrazioni: necessità del preventivo esperimento della procedura di mobilità rispetto ad ogni altra procedura concorsuale ai fini della copertura di posti vacanti in pianta organica; immissione in ruolo, in via prioritaria, di dipendenti provenienti da altre amministrazioni, con inquadramento nell’area funzionale e nella posizione economica corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni di provenienza (Tribunale Bari, 24 maggio 2007).  
Ai sensi dell’articolo 68, comma 1, del D.Lgs. n. 29/1993 nel testo sostituito dall’articolo 29 del D.Lgs. n. 80/1998, come integrato dal successivo articolo 18 del D.Lgs. n. 387/1998, ora articolo 63 del D.Lgs. n. 165/2001, spettano al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2. Assumendo, il conferimento di incarico dirigenziale, natura negoziale di diritto privato, lo stesso ricade nella disciplina appena riferita (Cassazione civile, sez. lav., 03 novembre 2006 n. 23549; T.A.R. Lazio Roma, Sez. III quater, 17/05/2007, n. 4580).
Ai sensi del comma 2 bis dell’art. 30 d.lg. n. 165 del 2001, introdotto dal comma 1 quater dell’art. 5 d.l. 31 gennaio 2005 n. 7, conv. in l. n. 43 del 2005, le amministrazioni pubbliche, per la copertura dei posti vacanti nella pianta organica, devono preventivamente attivare le procedure di mobilità, e solo successivamente, nel caso di infruttuosità delle stesse, possono procedere all’espletamento delle procedure concorsuali (T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 18 ottobre 2006, n. 8616).
I rapporti per i dipendenti della comunità montana le cui funzioni sono svolte dai comuni in forma associata, devono subire l’applicazione della disciplina relativa all’articolo 30 del d.lgs. 165/2001 (Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione nella sentenza 10 febbraio 2009, n. 3774).
Essendo le Comunità Montane espressamente ricomprese all’interno delle amministrazioni pubbliche elencate dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, la controversia relativa all’assunzione al lavoro di operai forestali da parte di una Comunità Montana, non rientra tra le eccezioni previste dal comma 4° dell’art. 63 ed esula, quindi, dalla giurisdizione del Giudice amministrativo, appartenendo alla cognizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria (Cons. Stato, Sez. V, 05/09/2006, n. 5143).
La regola per cui il passaggio da un datore di lavoro all’altro comporta l’inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con l’applicazione del trattamento in atto presso il nuovo datore di lavoro (art. 2112 c.c.), è confermata, per i dipendenti pubblici, dall’art. 30 del d.lg. n. 165 del 2001 il quale, nel testo attuale (come modificato dall’art. 16, comma 1 della legge n. 246 del 2005, con efficacia interpretativa del testo precedente), riconduce il passaggio diretto di personale da amministrazioni diverse alla fattispecie della “cessione del contratto” (art. 1406 c.c.) e stabilisce, altresì, la regola generale dell’applicazione del trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi nel comparto dell’amministrazione cessionaria (principio affermato dalla S.C. in controversia, promossa da dipendenti postali transitati all’Agenzia delle dogane, concernente la ricomprensione, nel trattamento economico dovuto dall’amministrazione di destinazione, della retribuzione individuale di anzianità, Ria, nell’ammontare raggiunto presso l’ente di provenienza, nonché il pagamento dell’intero importo dell’indennità di amministrazione, senza tenere conto dell’analoga indennità prevista per i dipendenti delle finanze (Cassazione civile, sez. lav., 13 settembre 2006, n. 19564). 
d) Provvedimenti di secondo grado e funzione amministrativa. L’autotutela.
La P.A. ben può modificare in autotutela il provvedimento di esclusione.
La validità del provvedimento di secondo grado, come di ogni altro provvedimento amministrativo, dipende dal corretto perseguimento dell’interesse pubblico per il quale e` attribuito il potere. E` ciò che la giurisprudenza ha sempre indicato, affermando che l’illegittimità e l’inopportunità di un provvedimento non bastano a giustificarne il ritiro, essendo necessario che sussista anche un distinto interesse alla eliminazione dei suoi effetti. E` per questo che viene spesso affermata la natura discrezionale di questi atti: la loro emanazione richiede, da un lato, la ponderazione dei vari interessi coinvolti, compreso quello all’eliminazione dell’eventuale vizio e quello che l’amministrazione o altri soggetti abbiano alla conservazione degli effetti prodotti; dall’altro, la scelta tra il mantenimento, l’eliminazione e la modifica degli effetti del provvedimento.
In un caso (Cons. St., sez. V, 3 giugno 1996, n. 621, in Foro amm., 1996, p. 1869), la giurisprudenza, facendo riferimento alla discrezionalità che e` alla base dei provvedimenti di autotutela, ha ammesso la possibilità che, in luogo della loro adozione, vengano presi in considerazione gli accordi sostitutivi di provvedimento, ai sensi dell’art. 11, l. 241/90. In tal senso incide la volontà delle parti o consenso alla mobilità degli enti e del lavoratore.
Infine, per rimuovere gli effetti di un provvedimento, annullandolo o revocandolo, occorre lo stesso procedimento necessario per l’adozione del provvedimento sui cui effetti si vuole intervenire  (Cons. St., sez. V, 10 maggio 1929, n. 270, in Foro amm., 1929, I, c. 209; Cons. St., sez. VI, 14 dicembre 1959, n. 577, ivi, 1959, I, c. 1307; Cons. St., sez. IV, 15 febbraio 1961, n. 103, ivi, 1961, I, p).
A questo riguardo, la giurisprudenza enuncia che per il ritiro di un provvedimento emanato in assenza di un presupposto non occorre la ripetizione dell’intero procedimento (Cons. reg. sic., 9 maggio 1984 n. 56, in Cons. St., 1984, I, p. 627). In realtà, il procedimento necessario per l’adozione dell’atto di autotutela non dipende dal provvedimento precedente, ma dal potere che si vuole esercitare (In giurisprudenza si v. per es. Cons. St., sez. V, 19 gennaio 1935, n. 21, in Foro amm., 1935, I, c. 85).
Nelle suesposte considerazioni è il parere.
Avv. Luigi Ferrara

Rimedi giurisdizionali e profili risarcitori dei diritti connessi alla bioetica di Luigi Ferrara

1. a) La duplice evoluzione sociale e sanitaria della medicina odierna comporta una inevitabile tensione fra contrapposte esigenze individuali e istituzionali. Oggi, emergono nuovi problemi di carattere etico, giuridico ed economico, per questo occorre una doverosa riflessione sulle cause che consentono la risoluzione di problemi giuridici sui diritti derivanti dalla bioetica nel quadro delle relazioni cittadino-sanità (1). Il malcontento di fondo che caratterizza sempre più spesso l’esperienza del cittadino quando viene a contatto con il mondo sanitario per problemi di una certa rilevanza, è più un problema bioetico che di natura organizzativa, economica o socio-psicologica. Non è da escludere che per molti sanitari vi è un deficit di conoscenza e di sensibilizzazione alle tematiche bioetiche basilari. In altre parole la scarsa consapevolezza della trama bioetica genera l’insoddisfazione del cittadino, il quale pur non conoscendo la natura bioetica di tali problemi, ne avverte l’importanza sotto la forma di mancato rispetto di suoi diritti, di suoi valori, di sue attese. Più precisamente il malcontento si può sostanziare in un mancato rispetto o promozione dei seguenti principi bioetici: principio di autonomia; principio di beneficenza, principio di giustizia.
Per intenderci, il principio di autonomia o (consenso informato), è attualmente ampiamente inattuato, quasi sempre ridotto ad un semplice formalismo legale, non vi è, il più delle volte un’informazione veritiera che avviene all’interno di una buona comunicazione fra operatore sanitario e paziente/parente, ad es. la compilazione frettolosa e burocratica di vari moduli ispirati soprattutto a motivazioni cautelari sul piano medico-legale è la negazione stessa del principio di autonomia.
Il Principio di beneficenza, è individuabile nell’interpretazione che gli operatori sanitari danno dello stesso principio di beneficenza. Ovvero, è ancora inusuale che il sanitario si sforzi di comprendere qual è il bene di quel paziente in quella fase della malattia, come è raro che il paziente sia invogliato (dai sanitari e/o dai suoi cari) ad esplicitare il suo concetto di qualità della vita e i suoi bisogni. Infatti, nella migliore delle ipotesi, essi agiscono nella convinzione aprioristica di conoscere qual è il bene del paziente, senza però chiedere a lui qual è il suo bene. Il Principio di giustizia, viceversa fa riferimento ad un’equa distribuzione delle risorse sanitarie, economiche, umane ed organizzative che impongono scelte di investimento in alcuni settori penalizzandone altri. Ne consegue che bisogna inevitabilmente rinunciare a vedere esauditi un numero variabile di bisogni ed aspettative (gli esempi sono numerosi, fra essi basta citare: rapidità e precisione o qualità e quantità delle prestazioni; rapporto rischio/beneficio di una procedura; differenze fra ricerca ed applicazione clinica anche collegate al rischio delle biotecnologie; carattere statistico e non precisamente determinabile dei fenomeni biologici, ecc.) (2).
2. b) Se sul piano nazionale tali diritti sono ed erano disattesi solo recentemente vengono in semplice considerazione per l’attività di alcuni comitati etici. Nel diritto internazionale la nascita di questi diritti parte dagli anni sessanta quando emerge una realtà scandalosa. Uno studio esercitato negli USA nel 1958 (3), fa emergere il fatto che ben poche istituzioni avevano norme procedurali per lo svolgimento della ricerca e come la maggior parte dei centri riteneva indesiderabile qualsiasi forma di controllo, anche nella forma dell’autoregolamentazione. Solo 16 istituzioni, delle 52 risultavano aver risposto a questionari ed avevano moduli di “consenso informato”.
In Italia il dibattito era addirittura inesistente. Non è chiaro se ciò fosse dovuto al fatto che nel nostro paese non si svolgesse attività di ricerca o alla circostanza per cui le violazioni di diritti restavano nascoste. Anche il quadro generale dei diritti individuali in campo biomedico non risultava molto incoraggiante. In una sentenza del 1967 (4), la corte di Cassazione affermava la fondamentale regola che il medico non poteva, senza il suo consenso, sottoporre il paziente ad alcun trattamento e fondava la tutela della vita e dell’incolumità del paziente sull’art. 13 della Costituzione. Subito dopo però la stessa corte escludeva che il consenso fosse necessario nei casi di condizioni necessitate ed urgenti, nelle quali l’intervento del medico era giustificato dalla norma penale sulla omissione di soccorso, e rimetteva comunque la valutazione della necessità di informare il paziente alla deontologia e quindi alla discrezionalità medica, con una ambiguità non dissimile da quella della giurisprudenza americana degli anni Cinquanta. Negli anni Ottanta continuano a emergere scandali sulle sperimentazioni.
Le organizzazioni mondiali cercano quindi di correre ai ripari, a Manila nel 1981, l’Organizzazione Mondiale della Sanità adottava linee guida per la ricerca sui soggetti umani, con un’attenzione particolare ai paesi in via di sviluppo; a Venezia (1983) venne approvata la terza versione della dichiarazione di Helsinki. Vi sono attualmente problemi di effettiva applicazione. Le regole affermate sono tenui e non accompagnate da alcun reale controllo o sanzione legale tradizionale. Inoltre queste affermazioni generali sono ambigue nei principi in sé e nella loro pratica applicazione questi documenti senza eccezione mettono chiaramente in luce il potenziale conflitto tra il ruolo di ricercatore e di terapeuta. E non pare che questa realtà possa essere efficacemente contrastata dai comitati etici mal tollerati.
Il Consiglio delle Organizzazioni Internazionali delle scienze mediche (CIOMS), Organismo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, emana nel 1992 direttive per la ricerca biomedica che pongono al centro proprio i problemi delle ricerche effettuate dalle grandi case farmaceutiche nei paesi in via di sviluppo, dove i bassi livelli culturali rendono improponibile il modello del consenso informato (5).
Oggi in Europa i nuovi “Comitati etici indipendenti” non esprimono più solo un parere sulla bontà di un progetto di ricerca (il cosiddetto protocollo), hanno la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti coinvolti in uno studio clinico e di fornire pubblica garanzia di tale protezione. Devono valutare il protocollo di studio, ma anche l’idoneità degli sperimentatori, delle strutture, dei metodi e del materiale da impiegare per ottenere e documentare il consenso informato dei partecipanti allo studio e soprattutto, sono tenuti a controllare la sperimentazione nel suo svolgimento.
Esiste anche il Tribunale per i diritti del malato che nasce negli anni 80 costituito da volontari, nel 1995, il (TDM) ha realizzato un Protocollo dei 14 diritti fondamentali del malato che è stato anche recepito dal Ministero della Sanità (6).
La convenzione di Oviedo dedica numerose disposizioni alla attività di ricerca sugli uomini, in particolare nel cap. V. Tra le norme di portata nazionale si possono ricordare: il Codice di deontologia medica approvato dalla Federazione degli Ordini dei Medici, art. 46 Ricerca biomedica e sperimentazione sull’Uomo; art. 47 Sperimentazione clinica (7).
3. Queste norme sono importanti per definire il quadro degli obblighi che i medici si sono autoimposti, ma hanno puro valore deontologico, così come i principi affermati nelle carte internazionali hanno puro valore dichiarativo. Il codice civile e il codice penale contengono norme non specifiche in materia, ma che costituiscono, insieme alle norme costituzionali, il passaggio essenziale per qualsiasi giudizio di responsabilità, anche se il contenuto e il profilo della condotta lesiva sia frutto di una ricostruzione delle disposizioni deboli che spetta al giudice ricostruire. Il giudice si trova, a svolgere un ruolo altamente creativo, che si esprimerà soprattutto nell’individuare o costruire la regola di condotta che il medico deve rispettare o che ha violata.
Il quadro è complesso, una particolarità del campo della sperimentazione biotecnologica sta nella eterogeneità delle fonti. Insomma, la sperimentazione dei farmaci o biotecnologie sull’uomo rappresenta una palestra formidabile: i giudici vengono chiamati a cimentarsi in una attività di creazione giurisprudenziale delle norme a partire da una ricognizione tra fonti di diversa natura e di diversi livelli, spesso sovranazionali e il più delle volte, le ultime, prive di effetti indotti nel nostro sistema per la mancanza di disposizioni legislative. Il che apre a una sorta di diritto giurisprudenziale transnazionale che può, a ragione, essere considerato la prospettiva futura in questo e in altri campi (8).
Una ricostruzione sistematica, quantomeno, sul rapporto cittadino-sanità e/o associazioni per i diritti del malato e struttura sanitaria può essere tentata nell’ordinamento italiano sotto il profilo della tutela risarcitoria nei confronti della P.A. la cui azione deve essere ispirata ai canoni sanciti dall’art. 97 Cost. e dei principi relativi all’efficienza efficacia ed economicità.
4. a) il primo quesito che si pone è, quale giudice è competente a conoscere delle posizioni giuridiche di cui in tale sede si controverte?
A nostro avviso, tenuto conto in ogni caso dell’attività creativa di cui prima si e discorso, occorre far subito riferimento al d. lgs. n. 80/98, come integrato dalla l. n. 205 del 2000 che addirittura riconosce la tutela dei diritti pretensivi. Tale decreto ha esteso l’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, precisando che tra le materie che vi rientrano vi sono non solo quelle dell’edilizia e dell’urbanistica ma anche quella dei pubblici servizi, quest’ultima area è quella che ci interessa da vicino.
L’ambito e delimitazione di essa giurisdizione piena, non è proprio semplice, si va dalla cognizione sulle controversie in materia di diritti patrimoniali conseguenziali e più specificatamente, sui giudizi concernenti la reintegrazione in forma specifica e/o il danno ingiusto. Si parla di giurisdizione piena perché, appunto, estesa, all’intera gamma delle liti e contestazioni che possono insorgere tra le parti. Infatti, la norma delegante d. lgs. n. 80/98, considerando pubblici servizi tutti quelli che sono resi agli utenti da soggetti avente veste pubblica, anche indirettamente come indicato dal Cons. di Stato (9), fa si che l’area risulta amplissima ricomprendendo tutte quelle attività (anche dei privati) non assolutamente libere, ma assoggettate per qualche aspetto, ad un ordinamento di settore, per la loro rilevanza sul piano collettivo. Si è proposto così, di intendere per tale, ogni attività da chiunque prestata entro un ordinamento di settore, così creato per il rilievo d’interesse generale dell’attività, ordinamento fondato su un autorità pubblica che vigila o controlla o autorizza o concede o direttamente presta, da sola o in combinazione con i privati, secondo il criterio di sussidiarietà.
La definizione proposta si può dire aggiornata con i più recenti sviluppi, normativi e giurisprudenziali, in materia di forme organizzative realizzabili per l’erogazione e gestione di servizi (10). La stessa delimitazione che riporta l’art. 33 D.Lgs. n. 80/98, mostra che si tratta di una delimitazione concernente l’intera branca dei pubblici servizi. Tali controversie art. 33 co. 2 sono, in particolare, quelle:  … b), c), d), e), … omissis;
f) riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento dei pubblici servizi, ivi comprese quelle rese nell’ambito del Servizio sanitario nazionale e della pubblica istruzione, con esclusione dei rapporti individuali di utenza con soggetti privati, delle controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona e alle controversie in materia di invalidità.
È sintomatica l’ultima parte della lettera f), art. 33, D. Lgs. n. 80/98, mentre si includono nella giurisdizione esclusiva le controversie concernenti le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi, subito dopo si escludono le controversie inerenti ai rapporti individuali di utenza con i privati e quelle meramente risarcitorie relative al danno alla persona e quelle in materia di invalidità. Certo è che non riesce agevole la linea di demarcazione fra giurisdizione dei giudici amministrativo e ordinario quando si tratta di azioni instaurate, ad es., da associazioni o comitati che si fanno portatori di interessi collettivi o diffusi, come quelli delle associazioni dei diritti del malato o dei consumatori al fine di contrastare decisioni o omissioni dell’organo pubblico competente o del concessionario, riguardanti le condizioni generali di contratto concernenti l’espletamento del servizio, e simili (11).
Ora verosimilmente a nostro avviso, controversie di tal genere (azioni miranti al risarcimento e/o reintegrazione in forma specifica su relazioni più ampie intercorrenti fra amministrazione e fra associazioni di diritti dei malati e/o consumatori), rientrano certamente nella giurisdizione del g. a., alla stregua delle disposizioni riportate.
Per contro, le contestazioni, inerenti alla qualità del servizio, ovvero a inadempimenti contrattuali o a responsabilità per lesioni inferte per effetto della cattiva o mancata prestazione del servizio, mosse da singoli utenti ed aventi contenuto risarcitorio o integratorio ma con riferimento a singoli contratti o a specifiche obbligazioni sorte da illeciti extracontrattuali (danno alla persona; invalidità civile, ecc.) appartengono al g.o. da ciò risulta delineata la competenza giurisdizionale per cui occorre guardare ora ai profili risarcitori connessi alla responsabilità della P.A.
b) individuata la competenza a conoscere di alcune violazioni di diritti e posizioni giuridiche occorre guardare ai profili risarcitori del danno alla persona che eventualmente ne potrebbe conseguire, il trattato ovviamente è dal punto di vista pubblicistico e non privatistico.
La l. delega n. 59/97, art. 11, co.1, lett. c), nello stabilire che per l’emanazione di decreti legislativi diretti a riordinare e potenziare i meccanismi e gli strumenti di monitoraggio e di valutazione dei costi, rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche prevedeva in essa, il rispetto di alcuni principi tra cui: …b) prevedere e istituire sistemi per la valutazione, sulla base di parametri oggettivi, dei risultati dell’attività amministrativa e dei servizi pubblici, favorendo ulteriormente l’adozione di carte dei servizi e assicurando in ogni caso sanzioni per la loro violazione, e di altri strumenti per la tutela dei diritti dell’utente e per la sua partecipazione, anche in forme associate, alla definizione delle carte dei servizi ed alla valutazione dei risultati. 
Ora, gli elementi che compongono il sistema della Carta dei Servizi in generale sono i seguenti: l’individuazione di una serie di principi fondamentali ai quali deve essere progressivamente uniformata l’erogazione dei servizi pubblici, eguaglianza, imparzialità, continuità, diritto di scelta, partecipazione, efficienza ed efficacia; la piena informazione dei cittadini-utenti; l’informazione deve riguardare i servizi offerti e le modalità di erogazione degli stessi; l’informazione deve essere resa con strumenti diversi, assicurando comunque la chiarezza e la comprensibilità dei testi oltre che la loro accessibilità al pubblico; l’assunzione di impegni sulla qualità del servizio da parte del soggetto erogatore nei confronti dei cittadini-utenti, attraverso l’adozione di standard di qualità che sono obiettivi di carattere generale (cioè riferiti al complesso delle prestazioni rese) o anche specifici (cioè direttamente verificabili dal singolo utente); il dovere di valutazione della qualità dei servizi per la verifica degli impegni assunti, e per il costante adeguamento degli stessi; gli strumenti di valutazione vanno dalle relazioni annuali, sottoposte al Comitato nazionale permanente per l’attuazione della Carta dei Servizi, alle riunioni pubbliche, alle conferenze dei servizi, alle indagini sulla soddisfazione dei cittadini-utenti; l’applicazione di forme di tutela dei diritti dei cittadini-utenti, attraverso le procedure di reclamo, e di eventuali ristoro (12).
La carta dei servizi, ben potrebbe contenere il riferimento al rispetto dei diritti del malato contenuti ad es. nella Carta dei diritti e doveri del malato di cui si riportano solo le parti di nostro interesse ad es.: “ognuno ha diritto al provvedimento terapeutico ed alla assistenza tempestivi ed adeguati alla propria salute ed al proprio benessere; ogni paziente ha il diritto di scegliere la sede e gli operatori sanitari; se la struttura sanitaria scelta non potesse perciò provvedere alle necessità di diagnosi e cura richieste, il paziente ha il diritto di conoscere le reali motivazioni e le previsioni di accoglimento futuro e ha il diritto di controllare la lista di attesa; ogni paziente ha diritto all’informazione ed alla conoscenza necessarie per avere consapevolezza del proprio stato e per poter coscientemente operare delle scelte; ogni paziente ha il diritto di conoscere le motivazioni dei provvedimenti diagnostici e terapeutici ed i loro eventuali rischi e alternative; ogni paziente ha il diritto di essere informato di eventuali possibili sperimentazioni e può rifiutare di sottoporvisi” (13)
Con ciò, tutte le volte che tali diritti sono violati, qualsiasi organizzazzione portatrice di interessi diffusi o un soggetto facente parte può azionare tale sorta di tutela nei confronti della P.A. Proseguendo, tali posizioni giuridiche, possono essere rafforzate da un ulteriore norma di principio circa il soddisfacimento risarcitorio cioè quella norma che è racchiusa nell’art. 28 Cost., ovvero, riteniamo che l’espressione “atti compiuti in violazione di diritti”, non possa non leggersi in senso generico ed estensivo, con riguardo a tutte le posizioni giuridiche soggettive che il legislatore ritenga di ricomprendere nella tutela voluta dalla Costituzione. In tale lettura la formula deve intendersi come condotta lesiva di una gamma piuttosto ampia ed aperta di posizioni giuridiche, la cui estensione (da ritenere variabile nel tempo) dipende dall’evoluzione del diritto e prima ancora dall’attività del legislatore ordinario.
La lettura qui prospettata, trova conferma nella semplice constatazione che ad es. l’annullamento di un provvedimento amministrativo o la declaratoria di illegittimità di un atto o di un comportamento (quale l’inerzia o silenzio della P.A. ovvero un omissione), costituenti un comportamento contra jus e quindi il presupposto normativo della possibile reintegrazione patrimoniale introdotta dalle nuove norme, avviene, ordinariamente, per vizi di legittimità, di cui, ancora ordinariamente si contrappongono posizioni giuridiche individuali denominate interessi legittimi.
Dunque, per meglio intendere, l’ipotesi ordinaria fatta dal legislatore della recente riforma riguarda proprio quella di lesione di interessi legittimi che non esclude certo la riparazione in caso di lesione di diritti soggettivi: del resto, al modulo della giurisdizione esclusiva il legislatore ricorre, come è noto, quando siano interconnesse e non facilmente distinguibili posizioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo, cosicché  esso legislatore preferisce, senza creare ulteriori problemi, assoggettare le liti concernenti entrambe le posizioni soggettive al medesimo regime.
5. Data tale ricostruzione si pone il problema tra diverse configurazioni di responsabilità ai fini dell’onere della prova tra sviamento e abuso d’ufficio (14).
Si tratta di responsabilità extracontrattuale alla stregua dell’art. 2043 c.c. oppure di responsabilità contrattuale? Si è in presenza di inadempimento o adempimento imperfetto o tardivo? Ciò diviene importante ai fini dell’onere della prova, in quanto mentre per l’ipotesi prima l’onere della prova per dimostrare l’esistenza del danno ricade sul soggetto che agisce in giudizio, nel caso secondo la non imputabilità ricade sul debitore ex art. 1218 c.c..
Ancora seguire più da vicino la teoria della responsabilità aquiliana significherebbe dedicare non poco spazio all’elemento soggettivo o psicologico perché da esso discendono ulteriori diversi effetti che si riflettono sul tipo di responsabilità, da qui se ne ricava la responsabilità da dolo che rientra nella fattispecie dell’art. 43 c.p. o viceversa, troviamo per esplicita mancanza di una norma nella disciplina della responsabilità civile che la colpa secondo il c.p. si caratterizza per imprudenza, imperizia, negligenza, essa si presenta più spesso nei comportamenti omissivi anche se tale comportamento può avvenire pure ovviamente con dolo. Ma nelle materie devolute alla giurisdizione piena del g.a. del d. lgs. n. 80/98, la responsabilità nasce, ordinariamente (ma non sempre) da atti e provvedimenti della P.A. (ed anche da comportamenti come l’inerzia, il ritardo, e così via), occorre  quindi avvalersi di un metro diverso rispetto a quanto appena detto per il fatto che per gli atti  o comportamenti in questione si tratta, per definizione, di atti volontari ordinariamente tipici, più precisamente, di manifestazioni di volontà dirette ad uno scopo tipico previsto dalla legge per la realizzazione di finalità legate al soddisfacimento di interessi generali o comunque riguardanti gruppi sociali più o meno ampi (15).
Dunque non solo la volontarietà ma finanche la finalità è come ipotizzata nell’atto, ragion per cui non occorrono indagini sull’atteggiarsi della volontà dell’agente e in genere sull’elemento pisicologico di questi (a meno che non si tratti di accertare una intenzione dolosa e dunque una volontà deviata rispetto al fine tipico del provvedimento posto in essere) (16).
Che il soggetto il quale abbia ricevuto danni da un comportamento o atto illegittimo, se è tenuto a dimostrare l’esistenza del danno, non ha l’onere di dimostrazione della colpa. Non è così viceversa nel caso di fattispecie costituente reato.
Incidentalmente e per intenderci le leggi di diritto pubblico pongono rispetto all’organo agente una serie di fini fra i quali lo stesso deve operare una scelta per perseguire il pubblico interesse, però lo stesso incontra interessi privati che pure devono essere valutati per la trasparenza dell’attività amministrativa. E’ proprio qui che si può verificare l’eccesso di potere, l’atto che diverge dalle finalità istituzionali, ovvero quando vi è una deviazione dovuta alla volontà dell’agente che vuole un fine diverso da quello voluto dalla legge in capo all’amministrazione (17).
Incombe quindi al giudice penale accertare insieme al provvedimento affetto da vizi la sussistenza o meno della consumazione del reato ad es. dell’abuso di ufficio, ovvero come confluenza dell’eccesso di potere nell’abuso. Così per l’altra figura sintomatica dell’eccesso di potere cioè lo sviamento di potere, dove il vero interesse dell’atto non è quello pubblico ma quello privato o ancora uno collaterale o concorrente. È’ chiaro che l’eccesso di potere implica molte altre sottotipologie come il travisamento dei fatti, l’erroneità dei presupposti, difetto di istruttoria, contraddittorietà e illogicità ma mentre per tali tipologie il giudice amministrativo può soffermarsi sul semplice dato oggettivo, per il reato di abuso d’ufficio, compimento di un atto che implica un abuso anormale dell’ufficio, è chiaro che occorre un elemento oltre che oggettivo anche soggettivo. In breve l’elemento comune al vizio di eccesso di potere ed al reato di abuso d’ufficio è appunto il cattivo uso delle funzioni proprie dell’agente mirato a procurare un vantaggio a se o a terzi o un danno ingiusto ad altri.
Detto per inciso, si nota bene il sottile limite che intercorre tra le due figure ed infatti il legislatore per evitare che molto spesso l’eccesso di potere si identificasse con l’abuso d’ufficio, nel 1997, ha modificato l’art. 323 c.p., il quale presenta nuove garanzie per evitare i troppi rischi incombenti sui funzionari per il suddetto possibile controllo del giudice penale. Tale reato da reato di pericolo (semplice esposizione a pericolo del bene tutelato), è stato trasformato in reato di evento (che esige la effettiva lesione del bene tutelato), con conseguente spostamento in avanti del momento di consumazione del reato.
Quindi ora si richiede l’effettiva produzione del vantaggio patrimoniale o del danno ingiusto. Inoltre è questa la più importante sequenza, l’evento anzidetto (vantaggio o danno) deve essere determinato da una norma di legge o da un regolamento.
Rispetto alla previgente norma quella nuova, restringe l’area di punibilità (18). Per questo riteniamo che nel caso in cui il danno si faccia derivare precipuamente dal dolo, occorra una specifica dimostrazione. In tal caso si ipotizza un’intenzione della persona fisica che agisce per la P.A., diretta a conseguire una sua propria finalità, esterna al provvedimento –volontà deviata-, cui consegue la produzione del danno al destinatario dell’atto (eventualmente anche attraverso l’emissione di un provvedimento in se illegittimo). In questa eventualità, sembra potersi affermare che una simile dimostrazione tenda a coincidere con quella dell’eccesso di potere o dell’abuso di ufficio ex art. 323 c.p. come prima affermato.
6. Tali considerazioni consentono di poter porre un’altra domanda, nel caso in cui non vi è intenzionalità dolosa sussiste una responsabilità dell’ente pubblico o amministrazione o organo come apparato che prescinda dalla colpa dell’agente –persona fisica-? Sul punto vale la pena di insistere richiamando le più recenti acquisizioni in materia di elemento soggettivo dell’illecito espresso a partire dalla sentenza a Sezioni unite della Cassazione, con la pronuncia n. 500 del 1999 (19), secondo le Sezioni Unite, quindi, l’imputazione della responsabilità non potrà avvenire “sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento, in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni della discrezionalità”.
Tale indirizzo si era espresso anche attraverso l’affermazione secondo la quale, nell’ipotesi di attività provvedimentale della P.A., perché sussista la responsabilità civile di questa è richiesta non solo la violazione di un diritto soggettivo del privato con un atto o provvedimento amministrativo ed il nesso di causalità fra l’atto stesso ed il danno ingiusto subito dal privato, ma anche l’elemento soggettivo del dolo o della colpa previsto e richiesto come elemento indefettibile dalla clausola generale di responsabilità contenuta nell’art. 2043 c.c.; a tal riguardo, il privato non dovrà provare anche la colpa dei singoli funzionari ma, peraltro, la colpa della P.A. può consistere sia nella violazione delle regole di comune prudenza, dando luogo ad attività provvedimentale negligente o imprudente, sia nella violazione di leggi o regolamenti alla cui osservanza la stessa P.A. è vincolata, dovendo osservare i principi di legalità, di imparzialità e di buon andamento prescritti dall’art. 97 Cost. (20).
L’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione in materia di risarcimento del danno, fissata dall’art.35 d. lgs. n. 80/98 e dall’artt.2 e ss. l. n. 205 del 2000, assume un rilievo essenzialmente processuale e non muta i termini sostanziali della questione: la responsabilità della P.A., correlata all’adozione di atti amministrativi illegittimi, lesivi di posizioni giuridiche protette dall’ordinamento, va costruita secondo le regole comuni stabilite dal diritto delle obbligazioni. È tuttavia necessaria l’individuazione di adeguati criteri applicativi dei principi qui espressi come stabiliti dalla Cassazione.
È plausibile innanzitutto, ritenere che la Cassazione abbia correttamente riconosciuto la peculiarità della funzione amministrativa (e dei parametri normativi che la regolano, anche a livello costituzionale) certamente non riconducibili alle comuni attività svolte dai soggetti dell’ordinamento, in considerazione della specifica disciplina dettata per la cura dell’interesse pubblico e delle oggettive caratteristiche del contatto giuridico (sottolineato dalla più recente dottrina) stabilito tra l’Amministrazione ed i soggetti coinvolti nella sua attività. Il dovere di comportamento del soggetto pubblico (e quindi la misura della colpa) si definisce non solo in funzione delle specifiche regole che disciplinano il potere, ma anche, sulla base di criteri diretti a valorizzare il concreto atteggiarsi di tale contatto, ed alla progressiva emersione dell’affidamento del privato in ordine alla positiva conclusione del procedimento.
Si può ritenere che non può essere trascurata la tendenza a fondare il giudizio di colpa su elementi obiettivi, ancorché a contenuto elastico: l’esigibilità della condotta richiesta all’agente deve essere misurata su parametri normativi concernenti le modalità dell’azione e l’incidenza sulla sfera giuridica e patrimoniale del danneggiato, piuttosto che su incerti apprezzamenti di carattere puramente soggettivo ed individualizzato.
Il rapporto amministrativo valutato secondo i termini in tale sede trattai è certamente sottoposto ad una profonda evoluzione normativa che ne evidenzia la progressiva convergenza verso schemi tratti da altri settori dell’ordinamento e la più completa attenuazione tra l’interesse legittimo e il diritto soggettivo ma ciò non autorizza a ritenere che il processo di assimilazione sia già completamente maturato, il contatto procedimentale, una volta innestato nell’ambito del rapporto amministrativo, caratterizzato da sviluppi istruttori e da un’ampia dialettica tra le parti sostanziali, impone al soggetto pubblico un preciso onere di diligenza, che lo rende garante del corretto sviluppo del procedimento e della sua legittima conclusione. La violazione di dette regole si traduce, nell’illegittimità dell’atto ma essa esprime anche l’indice, quantomeno presuntivo, della colpa del soggetto pubblico. Resta salva, ovviamente, la possibilità di dimostrare che in concreto, l’accertata violazione della regola è derivata da vicende in cui è lo stesso destinatario dell’atto a fornire elementi istruttori inesatti, oppure quando il quadro normativo di riferimento presenta elementi di assoluta incertezza.
Attualmente solo sotto questi parametri normativi e giurisprudenziali è possibile ricondurre la responsabilità della P.A. come apparato quando sussiste una violazione di diritti o interessi scaturenti anche dalla bioetica o in genere dalla nuova medicina.
È auspicabile quindi che le incertezze e la creatività siano ridimensionate dalla certezza legale attraverso precise disposizioni frutto della continua ricerca di perfezione che l’uomo ha il dovere di perseguire per l’amore del proprio prossimo.

NOTE
1.       L. Orsi, A. Bianchi, Cittadino insoddisfatto, sanità in trasformazione: una possibile lettura bioetica del problema in www. Zodig. It/bio/som  98-1.htm, del 18.01.02.
2.       L. Orsi, A. Bianchi, op. loc. cit..
3.       www faswebnet it A. Santorusso, in Consiglio Superiore della Magistratura, incontro di studio su Biologia, biotecnologia e diritto (Roma, 8-10 Novembre 2001), del 18.01.02. Lo studio partiva dal Law-Medicine research di Boston tra il 1958 e il 1962 su 86 dipartimenti di medicina. Nel 1972 il New York Tmes dà notizia in prima pagina delle sperimentazioni in corso sin dal 1932, su ignari uomini neri malati di sifilide e che ignari sul tipo di terapia loro somministrata non ricevevano invece alcuna cura onde osservare la storia naturale della sifilide non trattata.
4.       Corte di Cassazione 25 luglio 1967, n. 1950, Archivio Responsabilità Civile, 1968, 907.
5.       A. Santorusso, op. loc. cit., attualmente si continua a parlare di “cavie umane” a proposito dei numerosi annunci su giornali e siti Internet in cui vengono ricercati soggetti sieropositivi o donne con intensa attività sessuale o bambini sovrappeso e altro disposti, dietro compenso, a sottoporsi a sperimentazione di farmaci i più diversi.
6.       In www.Piazza salute.it, guida al benessere, carta dei diritti del malato, del 18.01.02.
7.       L. Orsi, Le novità del nuovo codice di deontologia medica viste con l’occhio dell’anestesista rianimatore in www. Zodig. It/bio/som  98-1.htm, del 18.01.02.
8.       A. Santorusso, , op. loc. cit.
9.       I. Franco, Strumenti di tutela del privato nei confronti della pubblica amministrazione, Padova,1999, 425.
10.    I. Franco, op. loc. cit..
11.    Ministero della Sanità: Linee Guida n. 2/95.
12.    In www ospfe.it/carta.html, del 18.01.02.
13.    In www.Piazza salute.it, guida al benessere, op. loc. cit..
14.    G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale, parte speciale, vol.I, Bologna, 1997, 238.
15.    I. Franco, op. loc. cit..
16.    A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV,  Napoli, 679; Cass. S.U. 22 ottobre 1984 n. 5361, in Giust. civ., 1985, 1419; Cass. Civ., I Sez., 24 maggio 1991 n. 5883, in Cons. Stato, 1991, II, 1709.
17.    Cons. Stato, VI Sez., 13 ottobre 1993 n. 713, in Cons. Stato 1993, I, 1287; T.A.R. Toscana, I Sez., 11 marzo 1997 n. 40, in T.A.R. 1997, I, 1876.
18.    G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale, parte speciale, vol.I, Bologna, 1997, 233; Cass. Pen.. IV Sez. 12 dicembre 1996 n. 10680, in Sett. Giur. 1997, III, 424.
19.    Cass. civ. S.U., 22 luglio 1999 n. 500, in Cons. Stato, 2000, II, 44.
20.    Cass. civ., I Sez., 24 maggio 1991 n.5883, in Cons. Stato 1991, II, 1079.

Varianti tipologiche e loro applicazione tra la nuova legge urbanistica campana ed il T.U delle espropriazioni di Luigi Ferrara

1. Premessa. La progettazione di opere pubbliche: osservazioni generali alla luce dei nuovi strumenti di pianificazione previsti dalla L.R. Campania n. 16/04.
Lo Stato da sempre assolutamente inerte nella pianificazione urbanistica attuativa di propria competenza è stato il principale fautore della relativa crisi, di qui i vari tentativi di trovare un ente intermedio rappresentato dagli Enti locali a partire dal Dpr 616 del 77 per le competenze delegate alla Regione e dalla L. 142/90, con la modifica n. 267/2000, circa i piani territoriali di coordinamento punto di riferimento della successiva attività pianificatoria comunale. Indubbiamente oggi si assiste ad una inversione di tendenza rispetto al passato, infatti, dopo la riforma del Titolo V della Carta Costituzionale gli Enti locali diventando titolari di poteri più ampi rispetto a quelli loro attribuiti nel testo costituzionale del 1947, tendono a rendere integralmente impositive le norme urbanistiche da esse emanate, è appunto il caso della neo emanazione della L. R. Campania n. 16/04, anche se come è noto, non sono state eliminate le interferenze dello Stato nelle materie di competenza degli Enti locali; anzi può affermarsi che la riforma costituzionale ha finito col creare in materia una maggiore confusione rispetto al passato per quanto riguarda i rapporti Stato-Regione (ci si chiede se ci avviamo sempre più verso ordinamenti particolari o una pluralità di ordinamenti in assenza di una legge urbanistica nazionale di raccordo?).
È questo uno dei punti di partenza per poter introdurre il tema delle tipologie di  varianti che la nostra legislazione prevede in modo disarticolato e non molto chiaro ove in tale sede si tenterà di elencarle sotto un aspetto sistematico tenendo conto della recente novella regionale la quale anch’essa ha dato vita a nuove forme di cui si discuterà più avanti al paragrafo 4. Ciò presuppone una breve esposizione degli strumenti che la L.R. 16/04 ha previsto, poiché, si tenga ancora presente che il discorso non può logicamente essere sganciato dall’argomento livelli di pianificazione.
La elaborazione della nuova disciplina urbanistica Campana prevede tre livelli di pianificazione: il Ptr (piano territoriale regionale), ha il compito di disegnare l’assetto del territorio regionale e di indirizzare la pianificazione provinciale e comunale, il Ptcp (piano territoriale di coordinamento provinciale), per evitare la proliferazione di Piani settoriali di interesse sovracomunale è stato previsto che il Ptcp – principale punto di riferimento per l’individuazione delle strategie della pianificazione urbanistica da parte dei Comuni – ha valore e portata di Piano di tutela nei settori della natura, dell’ambiente, delle acque, della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali; di Piano di Bacino, di Piano territoriale di Parco e di Piano A.S.I.. Il Puc (piano urbanistico comunale, ovvero, vecchio Prg) è il nuovo strumento urbanistico generale del Comune, e disciplina la tutela ambientale e le trasformazioni urbanistiche ed edilizie dell’intero territorio comunale; contiene, tra l’altro, la “localizzazione delle opere pubbliche”, cioè la indicazione del tracciato (per le opere a rete) o del luogo dove dovranno essere realizzate le opere pubbliche.
La normativa sugli enti locali in genere fissa delle localizzazioni di massima di immediato vulnus per la proprietà privata fino a quando la stessa non sia recepita dai piani comunali, unicamente legittimati, anche ai sensi del recente T.U. sull’espropriazione, ad introdurre vincoli espropriativi.
Quindi la localizzazione dell’opera pubblica avviene negli strumenti urbanistici generali, tale localizzazione produce una triade di effetti: 1. la disciplina urbanistica, per ciò che concerne il procedimento di localizzazione dell’opera pubblica; 2. il versante della disciplina delle espropriazioni, in quanto, diventando efficace l’atto di approvazione del Prg (in Campania oggi P.u.c.), sorge sulle aree su cui le opere pubbliche sono localizzate, il vincolo preordinato all’espropriazione (art. 9 T.U. espropriazioni); 3. la disciplina delle opere pubbliche, per ciò che attiene alla redazione e approvazione del progetto.
Solo a seguito dell’approvazione del Prg (o di una sua variante), che sortisce l’effetto della localizzazione dell’opera pubblica e della nascita del vincolo preordinato all’esproprio, e ancora dell’approvazione del progetto (che a sua volta da l’effetto di dichiarazione di pubblica utilità), si potrà procedere alla espropriazione delle aree necessarie e alla realizzazione dell’opera pubblica.
Si intuisce l’importanza della disciplina delle varianti, in quanto, vi possono ad esempio essere casi in cui l’opera pubblica non è localizzata nello strumento urbanistico, in tal caso occorrerà seguire uno dei procedimenti di variante dello strumento urbanistico, previsti dall’ordinamento.
2. Procedimento di approvazione e variante allo strumento urbanistico comunale. Segue: a) la disciplina previgente; b) la disciplina secondo il T.U. delle espropriazioni e altre disposizioni in vigore.
Dopo tale breve premessa possiamo guardare alla trasformazione urbana sottesa alla procedura di approvazione e variante al Prg / Puc. Per la formazione del Prg / Puc sono previste due fasi, la formazione (rectius, adozione) da parte del Comune e approvazione da parte della Provincia art. 24, co. 4, L.R. 16/04; il T.U. espropriazioni, pur se di anteriore entrata in vigore, non ha inteso innovare in ordine al procedimento di approvazione degli strumenti urbanistici, salvo che per l’ipotesi di cui al comma 5 dell’art. 9 (così dispone l’art. 9 comma 6: “Salvo quanto previsto dal comma 5, nulla è innovato in ordine alla normativa statale o regionale sulla adozione e sulla approvazione degli strumenti urbanistici”), che prevede una variante semplificata. Mentre quando l’opera pubblica non è localizzata nello strumento urbanistico occorrerà seguire uno dei procedimenti di variante dello strumento urbanistico, previsti dall’art. 24, co. 13, L. R. 16/04.
a)             la disciplina previgente. 
A chi scrive è risultato vano capire a pieno la materia senza individuare dapprima le regole previgenti, perciò non inutile può risultare una breve ricostruzione della disciplina in materia anche a seguito delle ripetute modifiche legislative che tentando di dare ordine ne hanno da sempre maggiormente complicato il risultato.
Dalla L. n. 47/85 si ebbe un primo distinguo tra varianti parziali e generali, è da questo momento le stesse varianti parziali divennero uno strumento di uso comune, anche perché tale disposizione ben si coordinava con altra disposizione degli anni precedenti di tipo accelleratorio, ovvero, con la L. n. 1/78, “accelerazione delle procedure per la esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali”, la quale già aveva stabilito che l’approvazione di progetti di opere pubbliche erano equiparate all’adozione di variante di Prg c.d. anche varianti speciali e che così recitava: nel caso in cui le opere ricadono su aree che gli strumenti urbanistici approvati non sono destinate a pubblici servizi, la deliberazione del C.C. di approvazione del progetto costituisce adozione di variante degli strumenti stessi e non necessita di autorizzazione regionale preventiva e viene approvata con le modalità previste dagli articoli 6 e seguenti della legge 18 aprile 1962, n. 167, (l. sull’edilizia residenziale) e successive modificazioni e integrazioni. La Regione emana il decreto di approvazione entro 60 giorni dal ricevimento degli atti ….
Identica formula usa l’art. 22 della L. R. Campania n. 51/1978 e succ. mod. ed integr.. (normativa regionale per la programmazione, il finanziamento e la esecuzione di lavori pubblici e di opere di pubblico interesse, snellimento delle procedure amministrative, deleghe e attribuzioni agli Enti locali), così come, l’articolo 8, L.R. 27 agosto 1984, n. 38 (modifiche ed integrazioni alla L.R. 31 ottobre 1978, n. 51) dispone che: «nel caso appena previsto (secondo comma art. 22, citato), la deliberazione di approvazione del progetto dell’opera pubblica o di pubblico interesse da parte del Consiglio comunale deve essere motivata sotto il profilo della urgenza e della compatibilità con le altre previsioni del piano urbanistico comunale ed è inviata per conoscenza all’Amministrazione provinciale …». Quindi, l’art. 1, L. n. 1/78, si applicava sia per la realizzazione di opere pubbliche su aree libere, sia su aree occupate da fabbricati mediante espropriazione, demolizione o ristrutturazione dei fabbricati stessi (TAR Campania, Napoli, 19 maggio 1997, n. 1309). Emergono dunque ulteriori  presupposti, perché un procedimento di variante sia legittimo lo stesso deve articolarsi in più fasi, la comunicazione all’autorità regionale/ provinciale, l’esternazione dell’obbligo motivazionale e la dovuta comunicazione ai soggetti interessati dall’esproprio.
Circa la comunicazione dell’Ente sovraordinato: la L. n. 1/78, l’art. 1, 4 co, consentiva al C.C. di approvare il progetto di un opera pubblica non conforme alle previsioni del piano urbanistico solo quando il piano vigente aveva già apposto un efficace vincolo preordinato all’espropriazione con la previsione della realizzazione di servizi pubblici, ma la giurisprudenza ha da sempre dato un interpretazione restrittiva della disposizione esaminata infatti: quando il C.C. ravvisa l’opportunità di realizzare un opera diversa da quella prevista nel piano e ciò per la prima volta, non basta approvare il progetto ai sensi dell’art. 1, 4 co, L. citata, ma occorre la variante al piano e su di essa deve pronunciarsi anche l’Autorità competente alla sua approvazione (Cons. di Stato, sez. V, 22 giugno 1998, n. 462).
Inoltre, attraverso tale procedimento si poteva non attuare da subito le formalità previste dagli art. 10 e 11, della L., n. 865/1971 (notifica agli espropriandi, notizia al pubblico ecc., legge per i piani zonali destinati all’edilizia economica e popolare), ovvero, si poteva iniziare e poi successivamente, nel corso del procedimento esse potevano adempiersi.
Dopo la riforma all’art. 1, 4 co, L. 1/78 ad opra delle Bassanini bis e ter art. 4, 3 co. L. 415/1998 (art. abrogato dall’art. 274, d.lg. 18 agosto 2000, n. 267. Sostituiva la lett. b) dell’art. 32, comma 2, l. 8 giugno 1990, n. 142), fu stabilito che l’approvazione dei progetti preliminari di lavori pubblici da parte del C.C. e dei conseguenti progetti definitivi ed esecutivi da parte della giunta comunale non comportava necessità di varianti allo strumento urbanistico; “sempre che ciò non determini modifiche al dimensionamento o localizzazione delle aree per specifiche tipologie di servizi alla popolazione, regolamentate con standard urbanistici minimi da norme nazionali o regionali”.
La modifica avvenne pure sul co. 5 dell’art. 1, della L. 1/78, introdotta dal 3 co, dell’art. 4 della L. 415/1998, si stabiliva che il procedimento di variazione dello strumento urbanistico; sarà necessario non soltanto nel caso in cui le opere ricadano su aree non destinate a servizi pubblici (come nella precedente disposizione), ma anche quando tali aree “siano destinate a tipologie di servizi diverse da quelle cui si riferiscono le opere medesime e che sono regolamentate con standard minimi da norme nazionali o regionali”, il principio affermato incide negativamente in quanto fa coincidere l’approvazione del progetto sia su di un’area non destinata a pubblico servizio sia con quella viceversa destinata.
Entrambe le ipotesi quindi coincidevano con l’adozione di una variante.
Anche tale nuova normativa contiene principi similari all’ultima previgente modifica dell’art. 1, co. 5, L. n. 1/78, anche se vi è da dire che non è consentibile che un regime, che era eccezionale ora diventa la regola.
Attualmente gli artt. 1, 3, 4 e 23, secondo comma della L. n, 1/78 risultano abrogati dall’art. 58, D.p.r. 8 giugno 2001, n. 327 (T.U. delle espropriazioni), inoltre, il T.U., n. 380/01, all’art. 89, prevede (ex L. 3 febbraio 1974, n. 64, art. 13, … tutti i comuni nei quali sono applicabili le norme di cui alla presente sezione e quelli di cui all’articolo 61, devono richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio).
b) la disciplina secondo il T.U. delle espropriazioni e altre disposizioni in vigore.
Da troppo tempo il procedimento espropriativo attendeva il ripristino di regole normative certe, coerenti tra loro da esprimere una certa sistematica, attualmente il vigente T.U. approvato con D.p.r. 327/2001, contiene principi similari all’ultima previgente modifica dell’art. 1, co. 5, L. n. 1/78, anche se vi è da dire che non è consentibile che un regime, che era eccezionale ora diventa la regola.
In sostanza, il T.U. delle espropriazioni recupera la previsione del 4 comma dell’art. 1 L. n. 1/78, relativo alle opere ricadenti in zone destinate ad attrezzature, aggiungendo l’ulteriore norma che la determinazione del C.C. non è da sola sufficiente a produrre automaticamente la variante urbanistica, ma necessita della convalida da parte dell’Ente (Regione, Provincia) competente all’approvazione degli strumenti urbanistici generali e di loro varianti generali o parziali, sia pure nel termine di 90 giorni, pena il silenzio assenso.
Per le opere pubbliche o di pubblica utilità non ricadenti in zone destinate ad attrezzature nello strumento urbanistico, l’approvazione (ipotesi già co. 5 art. l., L. n. 1/78), e quindi difformi dallo strumento urbanistico, l’approvazione del progetto definitivo dell’opera da parte del C. C. equivale solo ad adozione di variante dello strumento urbanistico ai sensi dell’art. 19, co 1, del T.U. espropriazioni, confermativo del citato comma 5.
Il nuovo procedimento però privilegia il momento dell’occupazione delle aree da parte del soggetto espropriante, sulle garanzie procedimentali.
Se per il passato, prima si procedeva ad occupare l’area poi si provvedeva ad espropriare legittimando il procedimento, oggi prima si dispone il procedimento amministrativo di espropriazione, articolato per fasi definite, ovvero, si acquisisce il titolo, poi si effettua l’occupazione e si realizza l’opera. Al procedimento di garanzia si accompagnano i procedimenti tecnici di scelta e di localizzazione dell’opera che fanno da presupposto legittimante al momento espropriativo. In primo luogo, si torna a quanto detto al paragrafo 1, l’opera da realizzare va localizzata secondo le previsioni di uno strumento urbanistico generale vigente. Inoltre, se la scelta adottata in sede di Prg / Puc non dovesse più rappresentare le reali esigenze: che l’opera pubblica pianificata (in senso urbanistico) non coincida più con l’opera programmata (in sede di programma dei lavori Pubblici) e l’amministrazione non sia più condizionata da rigide scelte, il T.U. amplia la tipologia degli atti capaci di derogare alle previsioni di Prg.; si veda l’art. 10, il quale dispone che l’organizzazione giuridica del territorio non si articola solo in strumenti urbanistici tipici e nominati, ma in qualsiasi strumento di organizzazione capace di produrre una variante al Prg.
Cade il principio della gerarchia dei piani e si afferma il principio della prevalenza del progetto sul Prg.
Ma vediamo quante tipologie di varianti il nostro ordinamento contempla e quali sono prevalenti rispetto alla normativa particolare regionale.
3. Diverse tipologie di varianti prevalenti.
Segue: a) la dovuta comunicazione ai soggetti interessati dall’esproprio; b) l’obbligo motivazionale.
La normativa modificatrice di quella previdente di cui si è appena fatto cenno porta a dar vita ad altri svariati  procedimenti di variante (prevalenti rispetto alla normativa regionale di cui si dirà in seguito), quello ordinario, e quelli, numerosi, semplificati, per cui la normativa regionale non può che raccordarsi a quella generale circa i vincoli preordinai all’esproprio e derivanti dall’approvazione dei strumenti urbanistici.
Il procedimento ordinario di variante è quello, che richiede tempi lunghi, che si svolge secondo le stesse regole di formazione dello strumento urbanistico generale oggi Puc: vale a dire, adozione della variante da parte del Consiglio comunale, e approvazione di essa da parte della Regione oggi Provincia.
I procedimenti di variante semplificata, per limitare qui l’esame solo alle opere pubbliche ordinarie, sono i seguenti:
— art. 9 comma 5 T.U. n. 327 del 2001;
— art. 10 T.U. n. 327 del 2001;
—  art. 19 T.U. n. 327 del 2001;
—  art. 38 bis legge n. 109 del 1994, introdotto dalla legge n. 166 del 2002.
Ø L’art. 9 comma 5, T.U. n. 327 del 2001. — L’art. contempla un peculiare procedimento, semplificato, per realizzare, come si è più volte sopra indicato, sulle aree soggette a vincolo preordinato all’espropriazione opere pubbliche (o anche di pubblica utilità) diverse da quelle originariamente previste dal piano.
Si tratta, in sostanza, di una procedura di variante semplificata dello strumento urbanistico, in cui l’approvazione della Provincia si forma con un meccanismo di silenzio-assenso.
La semplificazione si giustifica perché non si tratta di assoggettare per la prima volta una area a localizzazione di opera pubblica e dunque vincolo espropriativo, bensì di realizzare su area già vincolata una opera pubblica diversa da quella originariamente programmata. Dispone, in particolare, l’art. 9 comma 5: “Nel corso dei cinque anni di durata del vincolo preordinato all’esproprio, il Consiglio comunale può motivatamente disporre o autorizzare che siano realizzate sul bene vincolato opere pubbliche o di pubblica utilità diverse da quelle originariamente previste nel piano urbanistico generale. In tal caso, se la Regione o l’Ente da questa delegato all’approvazione del piano urbanistico generale non manifesta il proprio dissenso entro il termine di novanta giorni, decorrente dalla ricezione della delibera del Consiglio comunale e della relativa completa documentazione, si intende approvata la determinazione del Consiglio comunale, che in una successiva seduta ne dispone l’efficacia”.
Ø La variante di cui all’art. 10 T.U. n. 327 del 2001. — Dispone l’art. 10 comma 1 T.U. n. 327 del 2001, che “1. Se la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità non è prevista dal piano urbanistico generale, il vincolo preordinato all’esproprio può essere disposto, ove espressamente se ne dia atto, su richiesta dell’interessato ai sensi dell’art. 14 comma 4 della L. 7 agosto 1990 n. 241, ovvero su iniziativa dell’Amministrazione competente all’approvazione del progetto, mediante una conferenza di servizi, un accordo di programma, una intesa ovvero un altro atto, anche di natura territoriale, che in base alla legislazione vigente comporti la variante al piano urbanistico”.
In via transitoria, dispone il comma 3 del medesimo art. 10, che “Per le opere per le quali sia già intervenuto, in conformità alla normativa vigente, uno dei provvedimenti di cui ai commi 1 e 2 prima della data di entrata in vigore del presente testo unico, il vincolo si intende apposto, anche qualora non ne sia stato dato esplicitamente atto”.
La norma in commento è di rinvio ad altre norme vigenti, che attribuiscano l’effetto di variante ad un atto quale conferenza di servizi, o accordo di programma, o atto di pianificazione territoriale.
Invero, la conferenza di servizi o l’accordo di programma, consentendo la partecipazione di tutte le Amministrazioni interessate, consentono l’acquisizione dell’assenso dell’Amministrazione regionale, senza il complesso procedimento di approvazione della variante adottata.
Un altro atto da cui, secondo l’art. 10 comma 1, può derivare l’effetto di variante è la conferenza di servizi.
Tra i molteplici casi di conferenza di servizi contemplata dall’ordinamento, si ricorda in questa sede la conferenza di cui all’art. 3 D.P.R. 18 aprile 1994 n. 383, per la localizzazione di opere statali o di interesse statale difformi dagli strumenti urbanistici.
Nell’esegesi dell’art. 10, T.U. espropriazioni, va sottolineato che gli atti menzionati sono fonte di vincolo preordinato all’esproprio solo se nel corpo degli atti medesimi “espressamente se ne dia atto”.
Scopo della norma è quello di responsabilizzare l’Amministrazione circa l’effetto del sorgere del vincolo e dell’inizio della decorrenza del termine di durata quinquennale, e quello di rendere edotti gli interessati della nascita del vincolo.
Ø La variante di cui all’art. 19 T.U. n. 327 del 2001. — L’art. 19 commi 2 e seguenti, a sua volta, contempla un procedimento in cui l’approvazione da parte del Consiglio comunale del progetto preliminare o definitivo equivale ad adozione della variante, mentre la fase dell’approvazione regionale / provinciale si svolge con un meccanismo di silenzio assenso.
Come nella variante di cui all’art. 9 comma 5, anche in quella di cui all’art. 19, il silenzio assenso regionale si forma se la Regione non manifesta il suo dissenso entro novanta giorni dalla ricezione della delibera del Consiglio comunale e della relativa, completa, documentazione.
Anche in tale fattispecie, l’efficacia della variante non è collegata di per sé alla formazione del silenzio assenso regionale, ma ad una successiva delibera del Consiglio comunale, che disponga l’efficacia della variante.
Per le opere che non sono di competenza comunale, e che dunque non compete al Consiglio comunale approvare, è previsto che il progetto (preliminare o definitivo) è trasmesso al Consiglio comunale, che ha il potere discrezionale di disporre l’adozione di una variante in conformità dello strumento urbanistico.
Conviene, confrontare il testo dell’art. 19 commi 2 e seguenti con l’art. 10.
L’art. 10 comma 2 T.U. n. 327 del 2001, avverte che quando l’opera non è contemplata nel vigente strumento urbanistico, “2. Il vincolo può essere altresì disposto, dandosene espressamente atto, con il ricorso alla variante semplificata al piano urbanistico da realizzare, anche su richiesta dell’interessato, con le modalità e secondo le procedure di cui all’art. 19 commi 2 e seguenti”.
L’articolo recepisce alcuni principi affermati in giurisprudenza infatti già in passato si èra statuito in più occasioni che: anche nel caso di dichiarazione di P.U. per implicito, attraverso l’approvazione del progetto di opere pubbliche, sussiste l’obbligo per la P.A. di dare comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo ai sensi dell’art. 7, L. n. 241/1990 (Cons. di Stato,Ad. Plen., 24 gennaio 2000, n. 2; Cons. Stato, sez. IV, 27 novembre 1997, n. 1326). Tale principio venne ripreso dalle modifiche apportate dalle Bassanini del 1998 all’art. 1, 4° e 5° co, L. n. 1/78, di cui si è discusso.
Con la previsione dell’art. 19 T.U., se l’opera da realizzare non dovesse essere più conforme alle previsioni urbanistiche, l’atto di approvazione del progetto definitivo da parte del Consiglio comunale costituisce adozione di variante allo strumento urbanistico. Un nuovo procedimento di garanzia, tipico del procedimento di approvazione di variante al Prg, viene introdotto, ai sensi dell’art. 19 co. 3, l’apposizione del vincolo si intenderà pienamente operativo solo allorquando diventa efficace la delibera di approvazione della variante al Prg (o agli atti diversi dai piani urbanistici generali di cui all’art. 10), ovvero, nel senso che, in sede di approvazione, se la regione / provincia non manifesta il proprio dissenso entro il termine di novanta giorni, la variante risulta approvata (salva la ulteriore delibera consiliare che con atto successivo dispone l’efficacia della variante stessa).
La novità sta nello snellimento della fase di approvazione.
Ø La variante di cui all’art. 38 bis legge n. 109 del 1994, introdotto dalla legge n. 166 del 2002.  Oltre alla disciplina generale, valevole per la totalità delle opere pubbliche, una disciplina speciale è dettata per la localizzazione e dichiarazione di pubblica utilità delle opere pubbliche di cui all’art. 14 commi 6 e 8 L. 11 febbraio 1994 n. 109 (legge quadro sui lavori pubblici): “…I progetti dei lavori degli Enti locali ricompresi nell’elenco annuale devono essere conformi agli strumenti urbanistici vigenti o adottati”. Quindi il vincolo preordinato all’esproprio sorge per effetto dell’approvazione definitiva dello strumento urbanistico generale.
Dispone, infatti, l’art. 9 T.U. n. 327 del 2001: “Un bene è sottoposto al vincolo preordinato all’esproprio quando diventa efficace l’atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un’opera pubblica o di pubblica utilità”.
In aggiunta ai seguenti procedimenti di variante sussiste a carico dell’amministrazione un procedimento di garanzia.
a) Sussistenza di un obbligo di avvio procedimentale:
Perché un piano possa introdurre vincoli preordinati all’esproprio o comunque attraverso una variante porre attenzione circa una situazione mutata, la previsione non sarà legittima se non dopo che si è data ampia partecipazione del privato nelle forme tipiche. L’art. 11 del T.U. delle espropriazioni stabilisce la partecipazione degli interessati: Al proprietario, del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all’esproprio, va inviato l’avviso dell’avvio del procedimento:
1.             in caso di un variante allo strumento generale per la realizzazione di una singola opera pubblica (entro il termine perentorio di 20 giorni che precedono la delibera consiliare);
2.             nel caso della conferenza di servizi o dell’accordo di programma o dell’intesa, quali atti diversi dai piani regolatori generali e destinati a preordinare i vincoli.
Sarà sempre necessaria la comunicazione di avvio del procedimento nel caso di dichiarazione di pubblica utilità perché frutto di scelte assolutamente discrezionali: di qui una partecipazione del privato, necessaria perché potenzialmente incidente o condizionante la determinazione discrezionale, viceversa per l’occupazione preliminare essendo ormai una mera attuazione di scelte decisionali già consolidate, la partecipazione non sarà necessaria perché improduttiva per mancanza di un senso collaborativo.
b) sussistenza di un inderogabile obbligo motivazionale:
il Cons. di Stato, sez. IV, 25 novembre 2003, n. 7771 (la massima riguarda diverse pronunce sullo stesso argomento, ove tutte si rifanno agli stessi principi di cui si discute in questa sede) ha ripetutamente statuito che: la variante di un piano regolatore generale che conferisce nuova destinazione ad aree che risultano già urbanisticamente classificate necessita di apposita motivazione solo quando le classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche aspettative, in capo ai rispettivi titolari, fondate su atti di contenuto concreto, nel senso che deve trattarsi di scelte che incidano su specifiche aspettative, come quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto.
Le scelte di ordine urbanistico sono riservate alla discrezionalità dell’ Amministrazione, alla quale compete il coordinamento di quelle che nella concreta realtà si presentano in modo articolato; pertanto, nell’ adozione di un atto di programmazione territoriale avente rilevanza generale, l’Amministrazione non è tenuta a dare specifica motivazione delle singole scelte operate, in quanto le stesse trovano giustificazione nei criteri generali di impostazione del piano (ex multis Cons. di Stato, sez. IV, 26 maggio 2003, n. 2827; Cons. Stato, IV Sez., 22 maggio 2000 n. 2934, in Cons. Stato 2000, I, 1304).
Lo stesso Cons. di Stato, sez. IV, 23 marzo 2000, n. 1561, ha statuito che: stante la sostanziale identità tra il piano regolatore generale e il programma di fabbricazione, la mancata adozione da parte del Comune del piano regolatore generale, anche quando tale obbligo discenda direttamente dalla legge, non impedisce di adottare una variante al vigente piano di fabbricazione, qualora ciò sia necessario ma l’approvazione di una variante allo strumento urbanistico vigente necessita di una puntuale e specifica motivazione allorquando la variante stessa incida su un determinato fondo (sulla equivalenza fra Prg e p.d.f., cfr. Corte cost. 20 marzo 1978 n. 23 e Cons. Stato, Ap., 8 luglio 1980 n. 28, in “Il Consiglio di Stato” 1978, II, 279, e 1980, I, 828, nonché IV Sez. 17 luglio 1996 n. 860, ivi 1996, I, 1111).
Altre sentenze fanno riferimento al fatto che la motivazione nel caso di variante parziale è adeguata quando fa riferimento alle (situazioni sopravvenute). 
Dal 1995, la giurisprudenza aveva individuato con precisione cosa dovesse essere inteso per “situazioni sopravvenute), infatti per ragioni sopravvenute, il TAR Calabria sentenza del 1995, n. 297, statuiva che: va inteso il verificarsi di circostanze non esistenti all’epoca della redazione del piano e ogni diversa giustificata valutazione dei fatti o situazioni non considerati dal piano, ovvero considerati in maniera palesatasi, imperfetta o insufficiente.
È naturale che il Comune ha facoltà, ampiamente discrezionale, di modificare con apposita variante le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, ma ciò è possibile: purché fornisca una indicazione congrua delle diverse esigenze che ha dovuto affrontare, e a patto che le condizioni predisposte in funzione del loro soddisfacimento siano coerenti con i criteri d’ordine tecnico-urbanistico stabili per la formazione del Prg (Cons. di Stato, 13 febbraio 1995, n. 741; Procedendo a ritroso, il Tar Marche Ancona, 18 marzo 1985, n. 89, il Comune ha piena discrezionalità di rivedere le previsioni urbanistiche in sede di disciplina del proprio territorio, ma tale potere si arresta di fronte all’ utilizzazione già realizzata od in atto sulla base di regolare licenza edilizia rilasciata secondo il vigente strumento urbanistico; pertanto, ove siano stati ingenerati precisi affidamenti sulla edificabilità del proprietario dell’ area, sulla base di previgenti prescrizioni, è illegittima la variante che modifica quelle previsioni senza una circostanziata motivazione sulle particolari ragioni di pubblico interesse che hanno reso necessario incidere sulle posizioni giuridiche del privato costituitesi con l’avallo dell’Amministrazione, e senza una congrua comparazione tra i vari interessi in conflitto (Cons. Stato, IV Sez., 13 aprile 1984 n. 243, in Cons. Stato 1984, I, 386; infine, Cons. Stato, Ap., 15 settembre 1999 n. 14, in Cons. Stato 1999, I, 1297, chiarisce che: l’art. 1 comma 5 L. 3 gennaio 1978 n. 1 prevede che la variante urbanistica implicita venga approvata con le modalità previste dagli artt. 1 e segg. L. 18 aprile 1962 n. 167; pertanto, la variante stessa entra in vigore con l’ approvazione regionale, ed è solo in quel momento che la modifica della destinazione urbanistica dei suoli interessati acquista efficacia, mentre la sola adozione della variante non è idonea a far conseguire gli effetti di dichiarazione di pubblica utilità del progetto dell’ opera approvata, né a sorreggere gli ulteriori atti della procedura ablativa, quale il decreto di occupazione d’ urgenza.
L’obbligo di dare la comunicazione dell’avvio del procedimento sussiste anche in caso di dichiarazione di pubblica utilità, posto che questa non è un subprocedimento espropriativo ma un procedimento autonomo, che si conclude con un atto provvedimentale, autonomamente lesivo.
Restando al tema delle varianti parziali il Cons. di Stato ha da sempre ritenuto che: sono varianti parziali tutte quelle che comprendono modifiche che non comportino sostanziali innovazioni, tali da mutare le caratteristiche essenziali del piano stesso ed i criteri di impostazione ovvero che non incidono sui criteri informatori del piano stesso.
Tali incombenti prima richiamati non sussistono per le cosiddette varianti generali del Prg, esse costituiscono veri e propri nuovi Prg, in quanto, sempre secondo il Consiglio di Stato “le scelte urbanistiche per la disciplina del territorio comunale se considerate nella loro globalità”, come nel caso di variante generale, “non comportano alcun altra motivazione, oltre quella che si possono evincere da criteri di ordine tecnico urbanistico seguiti per la redazione del progetto; per tanto una variante generale non ha bisogno di specifiche motivazioni, quanto alle singole destinazioni di zona (Cons. di Stato, sez. IV, 27 luglio 1994, n. 636).
Infine, nella sua Adunanza Generale del 4 e 29 marzo 2001, il Cons. di Stato, Parere sul nuovo T.U. delle espropriazioni, precisa che: in materia di espropriazione per pubblica utilità, l’imposizione del vincolo preordinato all’ esproprio attiene alla programmazione urbanistica e può realizzarsi con lo strumento urbanistico generale (piano regolatore, programma di fabbricazione ) o una sua variante, oppure con un atto di natura equivalente (accordo di programma, intesa, atto adottato in conferenza di servizi, programma dei lavori pubblici); mentre per la variante generale ad un piano urbanistico non occorre la trasmissione al proprietario dell’ area da espropriare della comunicazione di avvio del procedimento, in caso di variante per la realizzazione di una singola opera pubblica tale avviso va inviato, in coerenza coi principi generali sul procedimento amministrativo.
4. Varianti previste dalla L. R. 16/04.
La normativa regionale campana disciplina in modo autonomo i procedimenti di variante a rispettivi Ptr, Ptcp e Puc. Naturalmente le varianti speciali di cui si è discusso prima essendo prevalenti per disposizioni di legge statale sono consentite secondo la propria disciplina (nel caso in cui si dovesse trattare di un opera riguardante un’amministrazione statale), altrimenti gli Enti locali una volta dotati dei propri strumenti urbanistici dovranno seguire le relative procedure previste dagli artt. 16, 21 e 24 L. R. Campania n. 16/04.
Per le varianti (i cui termini di approvazione risultano sempre dimezzati), al piano territoriale regionale è previsto che: “ art. 16, le varianti e gli aggiornamenti delle previsioni del Ptr sono sottoposte al procedimento di formazione di cui all’articolo 15, con i termini ridotti della metà”.
Una volta adottata la variante i termini risultano essere di trenta giorni per la pubblicazione sul bollettino ufficiale della regione Campania.
Entro i trenta giorni successivi alla conclusione della conferenza di pianificazione (se si dovesse rendere necessaria una conferenza di servizi), la giunta regionale valuta le osservazioni e le proposte di modifica acquisite dalla conferenza, adotta la variante e la trasmette al consiglio regionale per l’approvazione.
La variante approvata è pubblicata sul bollettino ufficiale della regione Campania. Dell’avvenuta approvazione è data contestualmente notizia mediante avviso da pubblicarsi sulla gazzetta ufficiale della Repubblica e su due quotidiani a diffusione regionale. Decorsi quindici giorni dalla pubblicazione, la variante acquista efficacia.
“l’art. 16 prosegue … 2. Le variazioni tecniche degli elaborati del Ptr necessarie al recepimento di sopravvenute disposizioni legislative statali immediatamente operative sono approvate con delibera di giunta regionale.
La giunta regionale, con cadenza quinquennale, e comunque entro sei mesi dalla data di insediamento del Consiglio regionale, verifica lo stato di attuazione del Ptr e propone al consiglio le eventuali modifiche necessarie all’aggiornamento dello stesso”.
Per quanto concerne il procedimento di variante al Ptcp l’articolo 21 stabilisce che:
“Le varianti e gli aggiornamenti delle previsioni del Ptcp sono sottoposte al procedimento di formazione di cui all’articolo 20, con i termini ridotti della metà, ad eccezione dei termini di quindici giorni di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 20”.
Il procedimento risulta più articolato rispetto all’art. 15, ove i termini circa la conferenza di servizi co. 6 e 14 art. 20 non sono ridotti alla metà perché gia di trenta giorni. Inoltre è previsto un approfondimento di valutazioni delle osservazioni presentate dalle rappresentanze che hanno partecipato alla conferenza di servizio.
“La proposta di variante è depositata per quindici giorni presso la segreteria dell’amministrazione provinciale. Del deposito è data notizia con avviso pubblicato sul bollettino ufficiale della regione Campania e su due quotidiani a diffusione regionale. Contemporaneamente alla pubblicazione la proposta è trasmessa ai comuni della provincia, agli enti locali e alle organizzazioni sociali, culturali, ambientaliste, economico-professionali e sindacali di livello provinciale, così come individuate con delibera di giunta regionale, che possono presentare osservazioni entro quindici giorni dalla pubblicazione dell’avviso di cui al comma 4. 
Al fine di approfondire la valutazione delle osservazioni formulate ed elaborare le relative proposte di modifica allo schema di variante la giunta provinciale, entro trenta giorni dalla scadenza del termine di cui al comma 5, indice una conferenza alla quale invita a partecipare i comuni della provincia, gli enti locali e le organizzazioni indicate al comma 5. La conferenza conclude i lavori entro trenta giorni dalla convocazione.
L’istruttoria tecnica è rimessa all’area generale di coordinamento governo del territorio presso la giunta regionale. La verifica di compatibilità è conclusa entro novanta giorni dalla data di ricezione del piano, corredato dagli allegati previsti dalla vigente normativa. Trascorso tale termine, la verifica di compatibilità si intende positivamente conclusa.
Se la verifica di compatibilità non ha avuto esito positivo, la Regione, nei quindici giorni successivi alla scadenza di cui al comma 8, convoca una conferenza di servizi alla quale sono invitati a partecipare il presidente della provincia, o un assessore delegato, e i dirigenti delle strutture regionali e provinciali competenti. La conferenza è presieduta dal presidente della regione o da un assessore delegato.
…Il Presidente della conferenza, se ne ravvisa l’opportunità, nel rispetto del principio di flessibilità di cui all’articolo 11 e nei limiti ivi indicati, trasmette la variante al consiglio regionale per la variazione del Ptr, limitatamente alle parti incompatibili con il piano approvato dalla provincia. Il consiglio regionale provvede entro quarantacinque giorni dalla trasmissione. Decorso tale termine le proposte di variazione si intendono respinte”.
La giunta provinciale, con cadenza quinquennale, verifica lo stato di attuazione del Ptcp e propone al Consiglio le modifiche necessarie all’aggiornamento dello stesso.
Per le varianti al Puc l’articolo 24, stabilisce che:
La giunta comunale, predispone la proposta di variante. La proposta, è depositata presso la segreteria del comune e delle circoscrizioni.
Del deposito è data notizia sul bollettino ufficiale della regione Campania e su due quotidiani a diffusione provinciale.
Nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione chiunque può presentare osservazioni. Entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine di cui al comma 2, il consiglio comunale esamina le osservazioni, adegua, la proposta ed adotta la variante.
La variante adottata è trasmessa alla provincia per la verifica di compatibilità con gli strumenti di pianificazione territoriale sovraordinati e di conformità con la normativa statale e regionale vigente.
La verifica è affidata all’assessorato provinciale competente nella materia dell’urbanistica, ed è conclusa entro quarantacinque giorni dalla data di ricezione della stessa variante, corredata di tutti gli allegati previsti dalla normativa vigente. Trascorso tale termine, la verifica si intende positivamente conclusa.
In caso di esito negativo della verifica, il Presidente della provincia, nei quindici giorni successivi alla scadenza di cui al comma 5, convoca una conferenza di servizi alla quale sono invitati a partecipare il sindaco, o un assessore da lui delegato, e i dirigenti delle strutture provinciali e comunali competenti. La conferenza è presieduta dal presidente della provincia o da un assessore da lui delegato.
La conferenza apporta, ove necessario, modifiche al Puc, al fine di renderlo compatibile con gli atti di pianificazione territoriale sovraordinati e conforme alla  normativa statale e regionale vigente. La conferenza conclude i lavori nel termine di trenta giorni dalla convocazione.
Il Presidente della conferenza, se ne ravvisa l’opportunità, e nel rispetto del principio di flessibilità di cui all’articolo 11 e nei limiti ivi indicati, trasmette il Puc al consiglio provinciale o al consiglio regionale per la eventuale variazione, rispettivamente, del Ptcp, del Ptr, dei Psr e dei Psp, nelle parti in cui sono incompatibili con il piano adottato dal comune a seguito della variante. Il consiglio provinciale e il consiglio regionale provvedono entro quindici giorni dalla trasmissione degli atti. Decorso tale termine, le proposte di variazione si intendono respinte.
Nelle ipotesi di cui al comma 8, il termine di trenta giorni per la conclusione dei lavori della conferenza di cui al comma 6 rimane sospeso.
Gli esiti della conferenza di cui al comma 6 sono ratificati dal consiglio comunale entro dieci giorni dalla loro comunicazione, pena la decadenza dei relativi atti.
Il Puc e la sua variante è approvato con decreto del presidente della provincia, previa delibera di giunta provinciale, ed è pubblicato sul bollettino ufficiale della regione Campania. Della pubblicazione è data notizia mediante avviso su due quotidiani a diffusione provinciale. Decorsi quindici giorni dalla pubblicazione, il Puc entra in vigore ed acquista efficacia a tempo indeterminato.
Le disposizioni di cui al comma 12 si applicano anche alle varianti di adeguamento del Puc, agli strumenti di pianificazione paesaggistica previsti dal decreto legislativo 42/04, articolo 145, comma 5. Le proposte di variante sono trasmesse alla competente soprintendenza per i beni architettonici ed il paesaggio, che esprime il parere entro il termine stabilito per l’adozione delle varianti stesse.
Altra procedura di variante è prevista dall’art. 12 che tratta degli accordi di programma che comportano la variazione degli strumenti pianificazione, anche di portata sovracomunale, l’avviso di convocazione della conferenza di servizi è affisso all’albo pretorio del comune o dei comuni interessati dalle opere, dagli interventi o dai programmi di intervento, ed è pubblicato su due quotidiani a diffusione regionale e sul sito internet della regione.
L’avviso di convocazione della conferenza è trasmesso per conoscenza ai proprietari interessati dall’intervento, se in numero inferiore a cinquanta.
Acquisita l’approvazione della conferenza, l’accordo è sottoscritto dai rappresentanti, o dai loro delegati, dei soggetti di cui al comma 1 ed è approvato con decreto del presidente della giunta regionale pubblicato sul bollettino ufficiale della regione Campania.
L’approvazione dell’accordo equivale a dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle opere in esso previste, produce gli effetti dell’intesa di cui al D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, articolo 81, e al D.P.R. 18 aprile 1994, n. 383, e determina le conseguenti variazioni degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale, anche settoriali, comunali e sovracomunali. La dichiarazione di pubblica utilità cessa di avere efficacia se le opere non hanno inizio entro cinque anni dalla data di approvazione dell’accordo.
Le variazioni degli strumenti di pianificazione di cui al comma 13 sono ratificate entro trenta giorni, a pena di decadenza, dagli organi competenti all’approvazione delle stesse.
Infine, l’art. 45 relativo al regime transitorio prevede che le varianti ai Prg già adottate e non ancora approvati alla data di entrata in vigore della presente legge, concludono il procedimento di formazione secondo le disposizioni di cui alla disciplina previgente, anche in ordine alla ripartizione delle competenze relative alla loro approvazione. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche alle varianti ai Prg già adottate al momento dell’entrata in vigore della presente legge.

Bibliografia essenziale 
Caringella, Corso di diritto amministrativo, Giuffrè, 2001.
Cassetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2001.
Maruotti, Commento all’art. 19 T.U. n. 327 del 2001.
Di Mario, La partecipazione al procedimento di imposizione del vincolo espropriativo, in Urb. e app. 2004, 873-886.
I. Franco, Strumenti di tutela del privato nei confronti della pubblica amministrazione, Padova,1999.

Rispetto delle Tariffe di legalità approvate dalla Prefettura competente nelle trattative private per l’affidamento del servizio di vigilanza e guardiania.

PARERE

IN FATTOcon riferimento alla lettera d’invito in materia di attribuzione servizio di vigilanza, il quesito che si propone concerne l’applicazione o meno al caso concreto degli articolidel Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, ma ciò non può prescindere dai reiterati pareri dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, e riportati adesivamente anche nella circolare del Ministero dell’interno 15 novembre 1997 n. 559/14514.10089.D -. 
Ricostruzione normativa.
a) Il metodo di scelta utilizzato dalla stazione appaltante è sicuramente da considerare escluso dall’alveo applicativo del decreto dei servizi di sicurezza (art. 3, comma 2 – cat. 23 allegato 2), infatti, l’utilizzato metodo della trattativa privata, pur non essendo riconducibile all’esercizio dell’autonomia negoziale propria dei soggetti privati – che è potenzialmente esercitabile in maniera del tutto libera, anche se non proprio arbitraria -, esso sfugge ad una configurazione in termini giuridicamente assimilabili a quelli che riguardano gli altri metodi di scelta del contraente ingabbiati in precostituiti passaggi procedimentali quali le amministrazioni pubbliche.
Sotto tale profilo la Commissione di gara gode di maggiori profili di scelta discrezionale.
Considerazioni DI DIRITTO.
b) Va innanzitutto preso atto che – come evidenziato in reiterati pareri dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, e riportati adesivamente anche nella circolare del Ministero dell’interno 15 novembre 1997 n. 559/14514.10089.D – i costi orari effettivi dei servizi di vigilanza possono risultare sensibilmente differenziati tra i vari istituti operanti in un determinato ambito territoriale, sia in ragione della forma giuridica dell’impresa (società di capitali o cooperativa ecc.), sia dell’anzianità delle guardie impiegate, sia dell’eventuale utilizzo di contratti di formazione-lavoro, sia dell’organizzazione interna ove maggiore o minore incidenza può avere il costo del personale in base ad un minore o maggiore utilizzo di strumenti informatici o di teleallarme, sia in relazione alla specificità del servizio che viene reso. Ne consegue che, anche alla luce delle norme contenute nel Testo unico di Pubblica sicurezza (artt. 9, 133-141 del T.U), va effettivamente escluso che ricorra un potere generalizzato ed astratto del Prefetto di determinare tariffe inderogabili. Tuttavia nemmeno può escludersi che questi debba essere comunque messo in condizioni di svolgere non un sindacato di congruità economica aziendale, bensì di verifica della compatibilità della politica tariffaria perseguita con il trattamento economico del personale risultante dai contratti collettivi, con gli obblighi contributivi e tributari in relazione alla specifica organizzazione aziendale, come del resto sembra indicare anche la succitata circolare ministeriale. Controllo quindi che ha subito un vero e proprio processo evolutivo nel senso innanzitutto che esso si determina non più in misura fissa nell’importo minimo praticabile, bensì all’interno di una fascia di oscillazione, che oltre a determinare quindi la tariffa minima indica anche la massima; ma soprattutto che i limiti fissati da detta fascia di oscillazione non sono inderogabili, di talché le tariffe che si pongono al di fuori di essa non possono essere considerate per tale solo fatto illegali. In relazione ad esse, infatti, il Prefetto mantiene un potere di controllo caso per caso, connesso alle sue competenze precipue nel rilascio dell’autorizzazione di polizia per l’esercizio dell’attività di vigilanza (cfr. TAR Roma, II, 11895 del 13 dicembre 2000). 
In altre parole, gli Istituti di settore devono praticare le tariffe approvate dall’Autorità prefettizia sulla base del parametro di riferimento costituito dalle tariffe di legalità a seguito di apposita istruttoria a norma dell’art. 257 R.D. 6 maggio 1940 n. 635, ovvero i singoli tariffari che le stesse Imprese sottopongono all’Autorità prefettizia per l’approvazione, e tale obbligo si impone anche in sede di gara, al punto che la necessità dell’approvazione va riconosciuta financo “in assenza di una espressa previsione del bando o della lettera di invito” (cfr. C.Stato, VI Sez, n.808 del 12 febbraio 2002; IV Sez. n. 544 del 16 ottobre 2001; nel medesimo senso  circa la sussistenza di uno specifico potere autorizzatorio prefettizio in caso di tariffe inferiori a quelle minime: TAR Roma, III, n.2269 del 20 marzo 2002).
Orbene la stazione appaltante riferisce che nella lettera di invito si richiedeva espressamente il rispetto delle tariffe legali, se ne deduce quindi, secondo la disciplina richiamata che l’impresa che ha fornito la tariffa ridotta dovrà dimostrare la specifica comunicazione e approvazione prefettizia di congruità a seguito di istruttoria (sub procedimento), e solo successivamente la Commissione di gara potrà valutare la tariffa presentata risultante al di sotto della soglia minima.
IN GIURISPRUDENZA.
c) Circa la conseguente giurisprudenza.
Si segue il conseguente ormai univoco orientamento giurisprudenziale, seguito di recente anche dal TAR Salerno (n. 224 del 7 marzo 2005), secondo cui “il Prefetto non ha più il potere di fissare le tariffe minime e inderogabili per il servizio di vigilanza, essendo ora previste le c.d. tariffe di legalità per ciascuna tipologia di servizi, caratterizzate dalla libertà di scelta di ciascun Istituto in relazione alle contingenti valutazioni legate alla libera attività imprenditoriale, sia pure nell’ambito di una oscillazione percentuale prefissata e concretamente specificata dal Prefetto stesso”. Deve aggiungersi che “non avendo in effetti natura di autorizzazione c.d. prescrittiva, ma solo di parametro di congruità nel senso sopra descritto, la tariffa di legalità non può spiegare alcuna incidenza diretta sulla gara, proprio perché nel nuovo modello più elastico di determinazione tariffaria, delineato dall’Amministrazione competente anche in recepimento delle segnalazioni effettuate al riguardo dall’Autorità garante della concorrenza, l’aspetto della partecipazione alle gare pubbliche rileva su un diverso piano, avente distinta finalità, di tal che la società di vigilanza potrà partecipare alle gare proponendo la propria migliore offerta in base alle proprie valutazioni imprenditoriali e le Amministrazioni procedenti dovranno aggiudicare il servizio in base a considerazioni di stretta convenienza per gli interessi della P.A., restando però inteso che gli istituti di vigilanza prescelti, laddove non rientrino nel range di astratta congruità individuato dalla Prefettura, potranno essere soggetti a particolari controlli da parte di quest’ultima e finanche a limitazioni nelle loro possibilità di operare, visto che permane comunque, ai fini della stessa conduzione dell’istituto di vigilanza privata, il regime di approvazione delle tariffe e delle relative variazioni di cui all’art. 257 R.D. n. 635 del 1940” (cfr. n. 224 cit.; v.anche Cons. Stato, sez. IV, n. 4816 del 20 settembre 2005; Cons. Stato, sez. V, n. 3065 del 3 giugno 2002; Id., n. 5674 del 17 ottobre 2002, che ne ha tratto la conclusione che la determinazione prefettizia possa riguardare il prezzo massimo, ma non quello minimo praticabile da chi svolge attività di vigilanza e di custodia). E’ proprio la ricostruzione in siffatti termini della normativa di settore che deve indurre a reputare illegittima una eventuale previsione di bando che stabilisca l’automatica esclusione delle imprese che abbiano offerto un ribasso superiore al limite stabilito dalle tariffe di legalità fissate dai decreti prefettizi, in quanto “dinanzi al superamento di tali tariffe all’amministrazione è consentito unicamente avviare il subprocedimento di verifica in contraddittorio della relativa offerta alla stregua dell’art. 25 d.lg. n. 157 del 1995” (cfr. TAR Lazio, sez. I, n. 455 del 20 gennaio 2005).  
Orbene tutto ciò premesso, occorre dire che si può fare riferimento a  parametri ulteriori tenendo conto anche che nel caso di specie viene in rilievo l’ipotesi di appalto da aggiudicare mediante trattativa privata con il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa, atteso ciò, infatti, il diaframma di discrezionalità riservato al giudizio espresso dalla Commissione di gara in ordine alle offerte dei partecipanti risulta notevolmente ampio e ciò anche in relazione al fatto di verificare – in modo uniforme – l’affidabilità e la congruenza dell’attività economica degli istituti di vigilanza in gara, di per sé incidente su aspetti attinenti non solo alla qualità del servizio, ma anche all’ordine ed alla sicurezza pubblica e al rispetto degli obblighi assicurativi e previdenziali tutti requisiti fondamentali per la scelta dell’istituto.
In altre parole non occorre verificare solo il prezzo più basso ma occorre relazionarlo al servizio e sul punto la Commissione dovrà motivare congruamente.
Il prezzo troppo basso delle tariffe al di sotto di un minimo approvato incide non solo sui poteri di vigilanza e di autotutela, in ordine ai titoli abilitativi rilasciati ai sensi dei citati articoli 9 e 114 del testo unico, ma anche sui poteri della Stazione appaltante, esercitabili nel corso delle gare per l’affidamento dei servizi di vigilanza, condicio iuris, anche se non formalmente richiamata nella lettera di invito, dovendo le dette stazioni verificare che i partecipanti alla gara siano in possesso di tutti i requisiti idonei al servizio di pubblica sicurezza, di cui l’approvazione delle tariffe prefettizie risulta una parte costitutiva;
Nelle suesposte considerazioni è il parere.
Avv. Luigi Ferrara 

Idoneità a concorsi pubblici: soggetto disabile occupato e soggetto sano disoccupato due posizioni incomparabili di Luigi Ferrara.

1.  Premessa. Applicazione o “falsa applicazione” della legge 12 marzo 1999, n. 98, al personale docente della scuola?
Può sembrare superfluo soffermarsi diffusamente sulla portata innovativa della legge n. 68, che in tema di diritto al lavoro dei disabili, ha apportato radicali mutamenti al previgente sistema della legge n. 482/1968 (1).
Con tale normativa si è cercato di assicurare a tali categorie di lavoratori un diritto pieno al posto di lavoro, per questo viene introdotto un nuovo sistema di “collocamento mirato”, come definito dall’art. 2: un collocamento, cioè, che vale a favorire adeguatamente le attitudini delle persone affette da condizioni di disabilità, valutandole nelle loro capacità lavorative e consentendo di inserirle nel posto più adatto.
Il sostegno ai disabili viene assicurato nelle forme e nelle quantità previste dall’art. 3 (“Assunzioni obbligatorie” e “Quote di riserva”), a norma del quale i datori di lavoro, pubblici e privati, sono tenuti ad avere alle loro dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie dei disabili di cui all’articolo.
La disciplina individua quindi la c.d. quota di obbligo, in relazione all’organico complessivo, e per la parte che interessa va rilevato che, trattandosi di pubbliche amministrazioni con un numero elevato di dipendenti, la riserva si determina nella misura del 7% dell’organico dei lavoratori occupati.
L’art. 4 detta, poi, specifici criteri per il computo della quota di riserva, calcolata sulla base dei lavoratori occupati a tempo indeterminato e con esclusione di quelli disabili assunti per tale loro stato.
Con l’articolo 7 intitolato “Modalità delle assunzioni obbligatorie”, si distingue un primo comma che disciplina la chiamata diretta per i datori di lavoro privati, ed un secondo comma che detta disposizioni per i datori di lavoro pubblici, richiamando in linea generale anche per questi ultimi il meccanismo della chiamata diretta (numerica o nominativa). L’ultimo capoverso del comma 2 introduce infine le controverse disposizioni in tema di applicazione della riserva nei pubblici concorsi.
L’art. 16 prevede per il pubblico impiego che l’assunzione del disabile possa avvenire a prescindere dallo stato di disoccupazione al momento dell’assunzione stessa.
Le disposizioni richiamate però nella pratica si sono rivelate tutt’altro che di facile interpretazione, ad oggi si rilevano diversi casi di disparità di trattamento nei confronti degli insegnanti inseriti nei vari CSA della Regione Campania, né esiste un criterio univoco impartito dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Campania o addirittura tra i vari Uffici Scolastici Regionali e vari altri CSA d’Italia.
A titolo di es. il CSA di Avellino di recente ha negato il beneficio di cui alla riserva c.d. “N” ad un invalido civile, sul presupposto della mancata sussistenza dello stato di disoccupazione al momento della domanda di partecipazione al concorso e ciò esibendo il parere emanato dall’Adunanza della Sezione Seconda del 19 gennaio 2005, n. 11616/04, sull’interpretazione che l’insegnante aveva occupato la cattedra per l’intero anno scolastico mentre lo ha riconosciuto ad altro docente che aveva lavorato l’anno precedente per soli otto  mesi (2).
Diversamente si sono regolati altri CSA Campani, ad es. quello di Napoli ai fini dell’ottenimento della riserva ha ritenuto sufficiente il sussistere dello stato di disoccupazione all’atto della prima domanda di inserimento in graduatoria.
Come si può ben vedere già questo porta ad un irrazionale applicazione della legge per disparità di trattamento tra i vari uffici della medesima Regione Campania.
Sul punto diversi sono stati gli incontri al MIUR e tra vari sindacati sulla tematica delle immissioni in ruolo sia per l’organico che per il precariato (3).
2. a) La permanente rilevanza del requisito dello stato di disoccupazione al fine di far valere la riserva dei posti per le categorie protette nei concorsi per l’assunzione presso le P.A..
Proprio per tali evidenti disparità il MIUR ha chiesto di sapere dal Consiglio di Stato se e come andasse applicata al personale docente della scuola la disciplina della legge 12 marzo 1999, n. 68, recante norme per il diritto del lavoro dei disabili. In particolare, chiedeva di sapere come  andasse applicato l’art. 16 della stessa legge, disciplinante il tema della permanente rilevanza del requisito dello stato di disoccupazione al fine di far valere la riserva dei posti per le categorie protette  nei concorsi per l’assunzione presso le pubbliche amministrazioni e se, in caso di risposta positiva, andava rivisto l’orientamento giurisprudenziale, che ritiene perduto il requisito dello stato di disoccupazione per supplenze eccedenti i quattro mesi l’anno.
L’Adunanza della Sezione Seconda del 19 gennaio 2005, n. sez. 11616/04, anche se fonte autorevole non costituisce un esaustivo chiarimento interpretativo: il Consiglio di Stato si discosta subito dall’orientamento affermato in una recente sentenza di primo grado (T.A.R. Toscana, I Sez., 29 aprile 2002 n. 887), che ritiene la norma di cui all’art. 16 interpretarsi nel più ampio contesto di una legge comunque finalizzata all’inserimento lavorativo dei disabili disoccupati. Secondo tale interpretazione, occorre tutelare quanto più possibile il diritto al lavoro dei disabili, consentendo agli stessi di usufruire dei benefici previsti dalla legge anche se lo stato di disoccupazione esistente al momento della domanda, sia cessato durante i tempi (talora molto lunghi) di espletamento delle procedure concorsuali.
A tale orientamento l’Adunanza accomuna quello del TAR Campania Napoli, tra l’altro avversato attualmente dalla sezione distaccata di Salerno (4), al punto 6 del citato parere si legge: “…la giurisprudenza delle sezioni di questo Consiglio non si è occupata ex professo dell’argomento ma in una recente decisione [sez. V, n. 5207 del 2002], si coglie un passaggio dal quale sembrerebbe potersi evincere un’interpretazione dell’art. 16 nel senso affermato dal TAR Campania, ossia nel senso di superare il collegamento, ritenuto imprescindibile dalla normativa precedente fra stato di disoccupazione del beneficiario e diritto di essere obbligatoriamente assunto. Anche secondo tale orientamento l’art. 16 sarebbe inteso a consentire alle amministrazioni la mera facoltà di derogare al requisito della disoccupazione in sede di autonoma regolamentazione”. Senza voler riportare l’intero exursus interpretativo succintamente si riporta un altro passo saliente del parere ove per contro si dice: “l‘art. 16 citato consente di prescindere dallo stato di disoccupazione solo quando le amministrazioni, in base ad una loro ponderata e motivata determinazione (ad esempio perché il livello di preparazione dei candidati si dimostri particolarmente elevato e risulti conveniente per il buon andamento, innalzare la quota dei riservatari oltre il limite percentuale ordinario), ritengano di prescindere dal limite percentuale dei posti riservati nei pubblici concorsi per provvedere in tempi brevi a saturare l’aliquota dei posti da riservare agli invalidi”, conclude, ma dopo un intricato excursus interpretativo, punto 11, nel seguente modo: “…si è pressoché costantemente ritenuto, con riferimento alla disciplina anteriore alla legge 68 del 1999, che lo stato di disoccupazione necessario per fruire della riserva di posti prevista dalla legge 2 aprile 1968, n. 482, non viene meno per l’effetto del conferimento di una o più supplenze temporanee di insegnamento nell’arco dell’anno scolastico, mentre è idonea a far venir meno la detta condizione soltanto la supplenza annuale caratterizzata dalla tendenziale stabilità, o quanto meno relativa continuità”, pervenendo così ad una decisione finale salomonica però a modesto parere non condivisibile: “sarà compito delle varie amministrazioni valutare caso per caso, con riferimento alle singole fattispecie eventualmente accorpate per ipotesi omogenee o analoghe se il rapporto di lavoro del supplente, in relazione alle sue varie tipologie ed articolazioni, che solo l’amministrazione stessa può cogliere i presupposti, se il rapporto è dotato di tendenziale stabilità”.
Segue: b)  l’opposto orientamento giurisprudenziale del TAR Napoli sulla perdita del requisito dello stato di disoccupazione per supplenze eccedenti i quattro mesi l’anno.
In realtà il citato parere perviene ad una lettura riduttiva della norma, che non trova aggancio né nel dato testuale, né in quello logico-sistematico della legge a tutela del diritto al lavoro dei disabili infatti la giurisprudenza di merito ne ha svuotato più volte il contenuto ed è quanto è successo secondo alcune recentissime sentenze del TAR Campania Napoli (5).
In termini brevi, il ragionamento riportato nelle decisioni richiamate smentisce in parte la ricostruzione del Consiglio di Stato arrivando ad opposte conclusioni che, in verità, si ritengono maggiormente fedeli al dettato normativo.
I giudici partenopei ritengono che, ai fini della adeguata interpretazione delle disposizioni della legge 12 marzo 1999, n. 98, debba essere colto il fatto che nel lavoro pubblico è prevista una doppia forma di tutela per i disabili.
Secondo tale ragionamento, la prima si realizza con la chiamata diretta prevalentemente nominativa, ad eccezione di alcune categorie: secondo l’articolo 7 comma 2 della legge l’adempimento dell’obbligo di copertura della quota d’obbligo si attua con le modalità di cui all’articolo 36 comma 2 D.Lgs. 29/1993 (ora art. 35 comma 2 D.Lgs. 165/2001) per chiamata numerica degli iscritti nelle liste di collocamento: tale disposizione è infatti relativa alla chiamata numerica dei lavoratori da occupare (salvo quanto previsto dall’art. 11 della legge sulla possibilità di stipulare convenzioni) e ciò facendo riferimento anche al Consiglio di Stato (Sezione II nell’adunanza del 13/12/2000) il quale confermava il fatto che si dovesse tener conto della peculiarità del  meccanismo della doppia tutela, ove per maggiore comodità espositiva al lettore si riporta il passo: “La legge n. 68/1999, pur profondamente innovativa rispetto al passato, ha dunque confermato il principio del doppio meccanismo di tutela dei disabili aspiranti al lavoro: quello dell’assunzione obbligatoria diretta e quello della riserva dei posti nei procedimenti concorsuali per la copertura di posti disponibili nelle piante organiche delle Pubbliche Amministrazioni; procedimenti nei quali vanno ricompresi quelli relativi al personale della scuola mediante le graduatorie permanenti, redatte, secondo quanto visto, secondo criteri di concorsualità, cioè di attribuzione di un punteggio e conseguente collocazione in un ordine di graduatoria, che è un ordine di merito”.
La sentenza continua precisando la ulteriore tutela che si attua con il meccanismo della riserva di posti nel concorso pubblico.
Ritengono i giudici di merito che il legislatore, a fronte delle disposizioni della prima parte che riguardano il sistema generale della chiamata diretta, numerica o nominativa, è stato mosso dal chiaro intento di dettare una disciplina a sé per le assunzioni concorsuali; e tale disciplina si ritrova nel combinato disposto dell’art. 16 comma 2 e dell’art. 7 comma 2 ultimo cpv della nuova legge, che realizzano una significativa innovazione rispetto al sistema vigente nella legge 482/1968 ed in particolare al sistema dell’art. 12 per i pubblici concorsi, ove il beneficio era attribuito ai soli disoccupati.
La ricostruzione continua guardando al secondo periodo del comma 2 dell’art. 7 citato della legge, per le assunzioni di cui all’articolo 36, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 29/1993 (cioè le assunzioni mediante procedure concorsuali), dispone che i disabili iscritti nell’elenco di cui all’articolo 8, comma 2, della legge hanno diritto alla riserva dei posti, nei limiti della complessiva quota d’obbligo e fino al cinquanta per cento dei posti messi a concorso.
Quanto rileva maggiormente sulla rilevanza del requisito dello stato di disoccupazione è il punto in cui si sostiene che il comma 2 dell’art. 16 è esplicito nel disporre che i disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici possono essere “assunti” – ai fini dell’adempimento dell’obbligo per i datori di lavoro pubblici e privati di avere alle loro dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie di cui all’articolo l nella misure di cui all’articolo 3 – “anche se non versino in stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso”.
Sulla interpretazione delle due norme in maniera tra loro coordinata, deve preferirsi una lettura che sancisce la prevalenza della seconda sulla prima, per ragioni logico- sistematiche che hanno una valenza superiore all’inciso letterale sopra indicato, come si desume peraltro dall’iter formativo della legge.
A conferma, infatti, l’articolo 7 comma 2 ultimo periodo contiene l’enunciazione del principio generale delle modalità di attuazione della tutela del disabile nelle procedure concorsuali, con una disposizione che riecheggia l’articolo 5 comma 1 del DPR 487/1994 (regolamento per i concorsi della pubbliche amministrazioni): la norma afferma il principio che, per le categorie per la cui assunzione è disposto il possesso di titolo di studio superiore a quello di scuola dell’obbligo, nella procedura concorsuale (in cui ex ante occorre rispettare la par condicio tra i concorrenti) la tutela del disabile può attuarsi solo a posteriori con il meccanismo delle riserve di posti (nei limiti del 50% dei posti messi a concorso e comunque non oltre la quota di obbligo).
L’interdipendenza normativa viene dimostrata da detti giudici dall’ulteriore presupposto fondato sul fatto che costituisce norma speciale la successiva disposizione che operativamente disciplina il concorso nelle pubbliche amministrazioni (l’articolo 16), la cui rubrica è intitolata appunto in tal senso, e che ai fini della applicazione del beneficio della riserva rende irrilevante la sussistenza dello stato di disoccupazione al momento della domanda.
Da ciò si fa scaturire la differente portata dell’articolo 7 comma 2 e dell’articolo 16 comma 2 della legge, perché l’articolo 7 delinea il meccanismo astratto con cui la riserva si applica alle procedure concorsuali, e l’art. 16 delinea con carattere di specialità il concreto modo operativo della riserva.
L’art. 16 della legge n. 68/1999, dettaglia infatti il beneficio, rendendone destinatari i disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici: questi possono essere assunti, ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’art. 3, anche se non versino in stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso. L’articolo 16 va oltre e sancisce che dallo status di disoccupato si può prescindere comunque in caso di concorsi, perché soccorre una ratio diversa di tutela del disabile che già si è rivelato idoneo nella procedura concorsuale.
Ne deriva che l’introduzione dell’inciso “anche se non versino in stato di disoccupazione” costituisce estrinsecazione della chiara voluntas legis di conferire irrilevanza al requisito della iscrizione negli elenchi, così recidendo il legame dettato inizialmente dall’art. 7 comma 2 ultimo cpv. con disposizione che non risulta eliminata a causa di una svista del legislatore.
Tra l’altro, sono proprio i principi costituzionali richiamati nella decisione del C. di S. n. 1271/03, e in particolare l’art. 38 che al comma 3 sancisce il diritto degli inabili e dei minorati all’educazione e all’avviamento al lavoro, ad imporre invece, la diversa ricostruzione qui proposta (si legga pure l’enunciazione contenuta nel 1° comma dell’art. 1 della legge 68/99: D’altra parte gli stessi argomenti tratti dal giudice di appello (Con. di Stato, VI, 10 marzo 2003, n. 1271) a favore della tesi della rilevanza del requisito della disoccupazione al momento della domanda appaiono militare piuttosto a favore della tesi contraria.
Riconosce il Consiglio di Stato che l’art. 1 della legge n. 68 del 1999 indica come la finalità della legge non è solo quella di garantire l’inserimento ma anche la piena integrazione del disabile nel mondo del lavoro.
Di qui il senso della riforma, la quale, intitolata “norme sul diritto al lavoro dei disabili”, quasi a sottolineare finalità di protezione più ampie e comprensive rispetto a quelle incentrate sulla garanzia dell’assunzione obbligatoria, mira a garantire non un inserimento quale che sia al disabile, ma un inserimento che possa essere conforme alle sue aspirazioni e capacità lavorative. Ne consegue la possibilità che il beneficio sia accordato anche al disabile che già occupato, intende progredire in carriera, ovvero trovare una occupazione più confacente alle proprie attitudini e capacità lavorative.
3. note conclusive.
Se si resta sul piano della precarietà del rapporto nel parere più volte richiamato non si tiene assolutamente conto di un dato incontrovertibile, ovvero, che nel settore scolastico è sostanzialmente impossibile – quantomeno nelle procedure per soli titoli – far valere il requisito della disoccupazione al momento della presentazione delle domande di partecipazione ad un concorso, i partecipanti a tale procedura concorsuale, infatti, essendo in pratica tutti occupati in incarichi di insegnamento supplente, incarichi annuali, comunque sempre senza il carattere della stabilità o tempo indeterminato, quindi tali soggetti si trovano attualmente nell’impossibilità di far valere il diritto garantito loro dalla legge, e ciò quindi amplia così il carattere discriminante dell’interpretazione adottata con evidente violazione dei principi che regolamentano le procedure concorsuali e del diritto alla riserva di posti. Tale problematica è stata sempre oggetto di accesi dibattiti nell’ambiente sindacale ed istituzionale (6).
Si è convinti, nel senso del recente e sopra riportato ragionamento del TAR Campania Napoli che trattasi di una errata interpretazione normativa che rischia di ledere i diritti di coloro che appartengono alle categorie tutelate dalla citata legge, nonché ciò non avrà che ripercussioni fortemente negative sulle procedure di assunzione sia del personale docente che del personale ATA, e ciò perché ogni volta che sussiste un caso in cui non viene riconosciuto il diritto ad essere nominato in via privilegiata a chi sia titolare del diritto all’assunzione obbligatoria finisce inevitabilmente per determinare, come evidenziato, una situazione gravemente lesiva – e discriminatoria – in tutti coloro che, pur essendo in possesso dei requisiti di legge (inabilità di grado superiore al 45%), si vedono nell’assurda impossibilità di farli valere nella procedura concorsuale, si ripete ancora una volta, perché è sostanzialmente impossibile che i disabili iscritti o che aspirino ad essere iscritti nelle graduatorie permanenti possano possedere (a causa dei contratti di natura precaria, ma comunque sempre a tempo determinato, stipulano nel corso dell’anno scolastico) i requisiti per l’iscrizione nelle liste speciali, soggetta tra l’altro, non solo al dato interpretato della non annualità ma pure (in virtù di quanto disposto dall’art. 4 del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, come modificato dall’articolo 5 del decreto legislativo 19 dicembre 2002, n. 297) ad ulteriori restrizioni di natura economica, venendo meno l’iscrizione in presenza di redditi comunque superiori a 7.500 euro annui di cui il parere del Consiglio di Stato non accenna neppure.
In realtà, oltre al ragionamento del TAR Napoli richiamato si è convinti che sussiste un ulteriore raccordo normativo che può essere di supporto al primo ma che per molti aspetti risulta pure simile.
Per la definizione delle quote di riserva si richiamano le disposizioni contenute nell’art. 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68, nella C.M. 248 del 7 novembre 2000 di cui si riporta un passo (Assunzione dei disabili. La disposizione di cui all’art. 16 della legge n. 68, prevede che l’assunzione del disabile “e, quindi, del soggetto appartenente alle categorie tassativamente indicate all’art. 1 della legge”, risultato idoneo nei concorsi, possa avvenire a prescindere dallo stato di disoccupazione al momento dell’assunzione stessa, in ciò innovando, rispetto alla precedente disposizione di cui all’art. 19 della legge n. 482/68, che prevedeva il possesso di tale stato sia al momento della presentazione della domanda di partecipazione al concorso, sia al momento della successiva assunzione. Si richiama l’attenzione sulle disposizioni vigenti in materia di accertamento delle condizioni di disabilità contenute nella legge all’art. 1, 4° comma, esplicitate nella C.M. del Ministero del Lavoro n. 77 del 24 novembre 1999). 
Si sottolinea ancora che le graduatorie di cui alla l. n. 124 del 1999 e D.M. n. 123 e 146 del 2000, non sono uniche, ma differenziate ed articolate in scaglioni.
I titoli di precedenza conseguenti all’iscrizione nell’elenco dei disabili di cui all’art. 8 l. n. 68 del 1999, rilevano all’interno di ciascun scaglione.
Il D.L. n. 255 del 2001, conv. in L. n. 333 del 2001, come pure la recente Legge di modifica 4 giugno 2004, n. 143, ha inteso salvaguardare il meccanismo degli scaglioni ed ove in essi occorre tenere obbligatoriamente una quota di riservisti; tali disposizioni non modificano di certo i titoli di precedenza conseguenti all’iscrizione nell’elenco dei disabili, infatti, l’art. 8 bis, Allegato Unico della L. 186/2004, (disposizioni in materia di quote di riserva per le assunzioni obbligatorie) si limita a stabilire che: “le riserve di posti previste dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, si applicano alle procedure concorsuali previste dall’articolo 29 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ivi incluse quelle per il conferimento degli incarichi di presidenza, di durata annuale, negli istituti e nelle scuole di istruzione secondaria, nei licei artistici e negli istituti d’arte”. 
In tutte le disposizioni richiamate nulla si dispone circa lo stato di disoccupazione permanendo, quindi lo status di disabile questo non può essere discriminato attraverso il venir meno dello stato di disoccupazione.
È chiaro quindi che il CSA procedente, secondo il combinato disposto degli artt. 16 co. 2 (I disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici possono essere assunti, ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 3, anche se non versino in stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso.) e ai sensi degli artt. 3 e 8 della stessa legge 68/1999, e delle altre disposizioni sopra richiamate risulta obbligato ad assumere per lo scaglione di riferimento almeno un invalido se ve ne sono e almeno per la quota del 7% dell’organico.
Il CSA è obbligato ad assumere l’invalido, a prescindere dallo stato di disoccupazione, (sempre nei limiti della quota), non adempiendo a tale obbligo si otterrebbe solo un detrimento del soggetto invalido con elusione dello spirito della l. 68/1999, violando il diritto alla riserva di posti.
Il ragionamento è ripreso nello stesso parere esibito dalla P.A. dell’Adunanza a pag. 2 punto 3 ultima parte che precisa che è fatta salva l’ipotesi eccezionale di cui all’art. 16 co. 2.
Infatti, in tal senso da ultimo anche la giurisprudenza del TAR Lazio ha ritenuto non necessario richiedere anche lo stato di disoccupazione per beneficiare della riserva di posti nei concorsi a cattedre.
L’amministrazione, insomma, non procedendo secondo tale percorso rischia di azzerare completamente la quota spettante ai riservisti.
Si tratta di adempiere all’obbligo di cui all’art. 3 (limite di quota, punto 8, primo  capoverso, stesso parere richiamato), inoltre circa la perdita dello stato di disoccupazione si è statuito che: (Nei confronti del disabile utilmente collocato in graduatoria che successivamente perde lo stato di disoccupazione l’assunzione è doverosa nei limiti dei posti messi a concorso ma può avvenire anche al di fuori dei posti riservati nel concorso purché sempre nei limiti della quota complessiva di riserva di cui all’articolo 3 della legge n. 68 del 1999, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10 marzo 2003, n.1271).
Se non si dovesse tenere conto di tutto ciò si otterrebbe il paradosso consistente nel fatto che se il docente volesse rinunciare ad un incarico a tempo determinato per acquisire lo stato di disoccupazione iniziale non lo potrebbe neppure fare in quanto incorrerebbe nelle sanzioni previste dall’articolo 8 D.M. 201/2000 il quale stabilisce che: “Effetti del mancato perfezionamento e risoluzione anticipata del rapporto di lavoro.
1. L‘esito negativo di una proposta di assunzione a tempo determinato comporta i seguenti effetti: 
A) Per supplenze conferite sulla base delle graduatorie permanenti: a) la rinuncia ad una proposta di assunzione o la mancata assunzione di servizio comportano la perdita della possibilità di conseguire analoghi rapporti sulla base delle graduatorie permanenti per l’anno scolastico successivo; b) l’abbandono del servizio comporta sia l’effetto di cui al punto a) sia la perdita della possibilità di conseguire qualsiasi tipologia di supplenza, conferita sia sulla base delle graduatorie permanenti che delle graduatorie di istituto, per l’anno scolastico in corso. 
B) Per supplenze conferite sulla base delle graduatorie di circolo e di istituto: a) la rinuncia ad una proposta contrattuale o alla sua proroga o conferma non comporta alcun effetto; b) l’abbandono della supplenza comporta la perdita della possibilità di conseguire qualsiasi tipologia di supplenza conferita sia sulla base delle graduatorie permanenti che delle graduatorie di istituto, per l’anno scolastico in corso”. 
L‘Amministrazione scolastica nega a parte ricorrente il beneficio di cui alla riserva c.d. “N” quale invalida civile, sul presupposto della mancata sussistenza dello stato di disoccupazione, al momento della domanda di partecipazione al concorso e ciò esibendo il parere emanato dal Consiglio di Stato il 19 gennaio 2005.
Quindi, senza dare valenza a tali ricostruzioni normative si finisce inevitabilmente per svantaggiare il soggetto disabile che anche se già occupato è pur sempre diversamente abile  rispetto al soggetto sano disoccupato, quest’ultimo pur sempre dotato di capacità fisiche che lo rendono maggiormente idoneo nella comune attività della vita. Posizioni comunque pur sempre incomparabili ove al fine di garantire l’uguaglianza sostanziale sono per certo bisognevoli di trattamenti giuridici differenti.

Bibliografia essenziale
(1)
(2) v. ord. TAR Campania, Salerno, sez. I, 3 novembre 2005, n. 1199/05, che respinge la domanda incidentale di sospensione, confermata dal Cons. di Stato, sez. VI, ord. n.759/06 .
(3) Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Servizio per l’Automazione Informatica e l’Innovazione Tecnologica EDS. Servizio di Consulenza all’Attività Programmatoria: Lavorare nella scuola Principali caratteristiche delle graduatorie permanenti del personale docente a.s. 2002/03 Marzo 2003, in www.amica scuola.it. del 20.11.06;
(4) (T.A.R. Campania, Napoli, Sez., 18 marzo 2002,  n. 1425; ord. TAR Campania, Salerno, sez. I, 3 novembre 2005, n. 1199/05);
(5) TAR Campania, Napoli, sez. II, 15 dicembre 2005, n. 827; TAR Campania, Napoli, sez. II, 15 dicembre 2005, n. 1497;
(6) www.istruzione.itwww.campania.istruzione.it; 

(7) (cfr. TAR Lazio, ord. N. 7692 del 01.09.05, …non è necessario richiedere anche lo stato di disoccupazione per beneficiare della riserva di posti nei concorsi a cattedre).

Ristrutturazione edilizia e problematiche connesse ai vincoli del P.R.G. di Luigi Ferrara e Carmen Battipaglia

I. La ristrutturazione edilizia
L’art. 3, comma 1, lett. d) del D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, qualifica  gli “interventi di ristrutturazione edilizia” quelli volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Secondo la giurisprudenza anteriore al nuovo testo unico sull’edilizia, il concetto di ristrutturazione edilizia, come qualificato dall’art. 31 comma 1 lett. d) della L. 5 agosto 1978 n. 457, comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, con l’unica condizione che la riedificazione assicuri la piena conformità di sagoma, volume e superficie tra il vecchio e il nuovo manufatto, con la conseguente possibilità di pervenire, in tal modo, ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, purché la diversità non dia luogo alla realizzazione di nuovi volumi o ad una diversa ubicazione.(1)
Acquisizioni giurisprudenziali recpite anche nel  T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia.
Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia l’art 3 comma I lett d) del predetto testo Unico ricomprende esplicitamente anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione, purché ciò avvenga con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica. Quindi si conferma anche nel nuovo testo sull’edilizia che la demolizione e ricostruzione è classificabile come ristrutturazione solo a condizione del mantenimento delle caratteristiche planovolumetriche dell’edificio da ricostruire (2)
Per converso, la lett.e) del medesimo articolo classifica come “interventi di nuova costruzione” quelli di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti, procedendo quindi ad una elencazione per tipologie edilizie(cfr. dec. cit.).
L’’art. 10 individua gli interventi subordinati al ”permesso di costruire” (già concessione edilizia) ricomprendendo in essi: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle
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(1) Cons. St., V sez., n. 476/04
     Cons. St. n. 5310/03
    Cons. di St.  n, 4593/03
    Cons. di  St., II Sez., n. 2687/04
(2) Cons. di St. 2687/04
     Cons. di St. V sez., n. 1246 del 2001
zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso (3).
Ciò che le disposizioni citate non prevedono è il limite in cui possono essere effettuate le modifiche del nuovo fabbricato affinché questo sia compatibile con il criterio di ristrutturazione, senza debordare nella nuova costruzione diversa dalla precedente e come tale soggetta a valutazione alla luce degli strumenti urbanistici vigenti al momento del rilascio del titolo (4).
II.  Modifiche al nuovo fabbricato compatibili con il criterio di ristrutturazione
La problematica delle modifiche ad un nuovo fabbricato in ristrutturazione edilizia riveste una importanza particolare per la diversa ammissibilità di una ristrutturazione rispetto ad una nuova edificazione.
Il Consiglio di Stato, recentemente, ha affermato che la modifica del precedente manufatto deve essere tale da non alterare la sua compatibilità con lo strumento in vigore al momento della demolizione (5).
Nell’ipotesi di ristrutturazione edilizia, trattandosi di interventi su edifici, non occorre che vi sia la perfetta conformità con il piano regolatore generale e ciò in ragione del fatto che la successione nel tempo degli strumenti urbanistici non può interferire sulla legittimità delle opere eseguite in precedenza e con il diritto del proprietario di eseguire quelle opere funzionali al mantenimento e alla conservazione dell’edificio stesso, nonché a renderlo compatibile con le esigenze eventualmente sopravvenute.
Pertanto la natura di per sé sfumata del concetto di compatibilità dovrebbe essere resa più certa dalla previsione, in sede regionale, dei limiti specifici della ristrutturazione e ciò in quanto, ove si ricada nell’ipotesi di nuova
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(3) Secondo una costante interpretazione della disposizione all’epoca vigente – l’art. 31, comma 1, lett. d), della l. 5 agosto 1978, n. 457 –, il concetto di ristrutturazione edilizia è comprensivo anche della demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, ma la ricostruzione deve assicurare la piena conformità di volume, sagoma e superficie tra vecchio e nuovo fabbricato (V Sez. 18 dicembre 1997, n. 1581; 24 febbraio 1999, n. 197; 28 marzo 1998, n. 369; 9 
edificazione, deve sussistere necessariamente la conformità con lo strumento urbanistico, con la conseguenza che l’edificio oggetto dell’intervento dovrebbe essere adeguato alle prescrizioni vigenti al tempo dell’intervento medesimo (6).
III. Ristrutturazione edilizia nel caso di vincolo di rispetto stradale del P.R.G. 
La problematica relativa alla successione nel tempo degli strumenti urbanistici soventemente si ripropone in caso di ristrutturazione per un edificio che in base ai lievi scostamenti volumetrici si trovi ad invadere un vincolo di rispetto stradale per strada di progetto.
E’ noto, infatti, che l’art. 32 comma 2 D.P.R. 380/01, consente la sanatoria, tra le altre ipotesi, delle opere abusive «in contrasto con le norme del D.M. 1 aprile 1968… sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico » (lett. c), quando esse siano «… insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione…».
Occorre rammentare che il vincolo di inedificabilità inerente la costruzione dell’opera edilizia nella fascia di rispetto stradale, in violazione delle disposizioni del d.m. 1 aprile 1968 n. 1404, ha natura « relativa » o « assoluta », ai fini della sanatoria edilizia, a condizione che il manufatto sia stato realizzato, rispettivamente, prima o dopo l’imposizione del medesimo, dovendosi ammettere solo nel primo caso la possibilità di sanatoria, previa acquisizione del parere previsto dall’art. 32 legge cit., che resta invece esclusa nella seconda ipotesi, ai sensi del successivo art. 33 comma 1 lett. d) (7). Ancora si è statuito che il vincolo di rispetto stradale di cui al D.M. 1 aprile 1968 n. 1404, previsto dall’art. 33 L. 28 febbraio 1985 n. 47, a differenza di quello di inedificabilità relativa previsto dall’ articolo 32 legge n. 47 del 1985 cit., che può essere rimosso a discrezione
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ottobre 2002, n. 5410; 8 agosto 2003, n. 4593; 18 settembre 2003, n. 5310; IV Sez. 30 giugno 1998, n. 994, VI Sez. 7 agosto 2003, n. 4568). La ristrutturazione, in sintesi, non può comportare, secondo la norma in esame, un’alterazione della tipologia edilizia e della volumetria preesistenti.
(4) Cons. di St.  n. 5867/04
(5) Cons. di Stato IV sez. n. 5792/06. La recente giurisprudenza del Consiglio di
dell’Autorità preposta alla cura dell’ interesse tutelato, contiene un divieto di edificazione di carattere assoluto che comporta la non sanabilità dell’opera abusiva realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto (8).
IV. Perimetro interno ed esterno al centro abitato: problematiche connesse all’esatta applicazione delle norme del T.U. Edilizia
Una ulteriore problematica si può incontrare nel caso in cui la futura ristrutturazione dovrà avvenire all’interno del perimetro del centro abitato e insista il vincolo di rispetto stradale per strada di progetto non ancora realizzata.
In tal caso il vincolo sussiste o meno asseconda se siano trascorsi i cinque anni dall’approvazione dello stesso, ovvero, nel caso in cui non sono trascorsi ancora i termini di decadenza troveranno applicazione alternativamente l’art. 4 D.M. 1 aprile 1968 n. 1404 (esterno del perimetro abitato) o l’art. 9 del D.M. 2 aprile 1968 (interno del detto perimetro), nonché, la richiamata ristrutturazione, dovrà rivestire, tout court i caratteri di cui all’art. 3, co. 1, Lett. d) del D.P.R. 380/01.
Più complessa risulta la disciplina in caso di vincolo ultraquinquennale in cui la zona diviene libera da ogni disciplina (c.d. zona bianca), ove secondo la normativa novellata pare che la ristrutturazione debba essere totalmente esclusa se l’immobile ricade nel perimetro del centro abitato.
Nella normativa previgente il D.P.R. 380/01, poteva trovare applicazione l’art. 17, L. 765/67 che modificava l’art. 41 quinquies della L. 1150/42. Tale normativa è stata abrogata dall’art. 136, comma 2, d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, a decorrere dal 30 giugno 2003, ai sensi dell’art. 3, d.l. 20 giugno 2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 1° agosto 2002, n. 185.
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Stato ha, altresì, chiarito che la ricostruzione (dopo la demolizione) di un immobile diverso per volumi o anche solo per la sagoma (a parità di volumi) dall’immobile preesistente comporta la realizzazione di un immobile nuovo con l’applicazione della disciplina urbanistica prevista per le nuove edificazioni e delle conseguenti limitazioni imposte dalle norme urbanistiche in vigore al momento del rilascio del titolo autorizzativi) (V. anche, Sez., dec. n. 5867/04)
(6)  Cons. di Stat., sez. IV, 16 marzo 2007, n. 1276
Attualmente trova applicazione l’art. 9 co. 1 lett. a) del D.P.R. 380/01, ai sensi del quale: “Salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel rispetto delle norme previste dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici sono consentiti:
a) gli interventi previsti dalle lettere a), b) e c) del primo comma dell’articolo 3 che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse;…” (9)
Con chiara esclusione degli interventi di ristrutturazione edilizia.
Un intervento di nuova costruzione o ristrutturazione è ammesso dall’art. 9 citato alla lettera b): “b) fuori dal perimetro dei centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell’area di proprietà”.
Infatti, il legislatore con il nuovo D.P.R. ha inteso dettare una (restrittiva) disciplina ex lege per tutte le ipotesi in cui il territorio comunale risulti, in tutto o in parte, privo di pianificazione e poiché la normativa indicata presuppone prescrizioni diverse a seconda che le aree ricadano dentro o fuori il centro abitato, solo se l’area considerata è ricompresa nel “centro abitato”, risulta in particolare applicabile l’art. 9, comma 1, lett. a) T.U. n. 380 cit., che, in sostanza, impedisce nuove edificazioni, consentendo solo limitati interventi specificamente indicati.
Viceversa, qualora l’area sia “all’esterno dei centri abitati” (come si esprime l’art. 9, lett. b), ovvero “fuori dal perimetro dei centri abitati” saranno consentite, sussistendone tutti presupposti in fatto e in diritto, limitate, ma nuove, realizzazioni edilizie.
La giurisprudenza oculata non ha mancato di precisare in diverse occasioni che il regime di inedificabilità previsto, per le aree comprese nel perimetro del centro abitato è applicabile non solo al caso di
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(7) T.A.R. Puglia, Bari, 2 settembre 2002, n. 3801
     T.A.R. Salerno, 3 ottobre 1994 n. 528
     T.A.R. Latina 1 marzo 1994 n. 221
     T.A.R. Bari, II Sez., 18 febbraio 2000 n. 616, in Rassegna I TAR, 1994, I, 1367, e 2000, I, 205
(8) T.A.R. Toscana, Firenze, 12 febbraio 2003, n. 277
     T.A.R. Piemonte, 6 dicembre 2000, n. 1283, in Rassegna I TAR 2001, I, 552
     Cons. Stato, IV Sez., 5 luglio 2000, n. 3731, in Cons. Stato 2000, I, 1636
Comuni del tutto privi di strumenti urbanistici generali ma anche nell’ipotesi di piani urbanistici che abbiano solo in parte perduto la loro efficacia (cfr., al riguardo, T. A. R. Napoli, sez. I, 4 agosto 1994, n. 209).

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(9) D.P.R. 06 GIUGNO 2001, N. 380, Articolo 3 Definizioni degli interventi edilizi (vedi appendice)
APPENDICE
NORMATIVA
D.P.R. 06 GIUGNO 2001, N. 380
Articolo 3 (L) Definizioni degli interventi edilizi
(legge 5 agosto 1978, n. 457, art. 31)
1. Ai fini del presente testo unico si intendono per:
a) “interventi di manutenzione ordinaria”, gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti;
b) “interventi di manutenzione straordinaria”, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso;
c) “interventi di restauro e di risanamento conservativo”, gli interventi edilizi rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio;
d) “interventi di ristrutturazione edilizia”, gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica;
e) “interventi di nuova costruzione”, quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti. Sono comunque da considerarsi tali:
e.1) la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l’ampliamento di quelli esistenti all’esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6);
e.2) gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal comune;
e.3) la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato;
e.4) l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione;
e.5) l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee;
e.6) gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale;
e.7) la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all’aperto ove comportino l’esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato;
f) gli “interventi di ristrutturazione urbanistica”, quelli rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale.
2. Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi. Resta ferma la definizione di restauro prevista dall’articolo 34 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490.
Articolo 9 Attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica – 1. Salvi i più restrittivi limiti fissati dalle leggi regionali e nel rispetto delle norme previste dal decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici sono consentiti:
a) gli interventi previsti dalle lettere a), b) e c) del primo comma dell’articolo 3 che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse;
b) fuori dal perimetro dei centri abitati, gli interventi di nuova edificazione nel limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadro; in caso di interventi a destinazione produttiva, la superficie coperta non può comunque superare un decimo dell’area di proprietà.
2. Nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell’articolo 3 del presente testo unico che riguardino singole unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi interventi sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si impegni, con atto trascritto a favore del comune e a cura e spese dell’interessato, a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui alla sezione II del capo II del presente titolo.
Articolo 10 – (Interventi subordinati a permesso di costruire) – 1. Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire:
a) gli interventi di nuova costruzione;
b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica;
c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso.
2. Le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività.
3. Le regioni possono altresì individuare con legge ulteriori interventi che, in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire. La violazione delle disposizioni regionali emanate ai sensi del presente comma non comporta l’applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 44.
LEGGE 05 AGOSTO 1978, N. 457
Articolo 31 (Definizione degli interventi).
Gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente sono così definiti:
a) interventi di manutenzione ordinaria, quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti;
b) interventi di manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonchè per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso;
c) interventi di restauro e di risanamento conservativo, quelli rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio;
d) interventi di ristrutturazione edilizia, quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, la eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti;
e) interventi di ristrutturazione urbanistica, quelli rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso mediante un insieme sistematico di interventi edilizi anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale.
Le definizioni del presente articolo prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi. Restano ferme le disposizioni e le competenze previste dalle leggi 1° giugno 1939, n. 1089, e 29 giugno 1939, n. 1497, e successive modificazioni ed integrazioni.
Articolo 32 L. 47/85 Determinazione delle variazioni essenziali
(legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 8)
1. Fermo restando quanto disposto dal comma 1 dell’articolo 31, le regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni:
a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
2. Non possono ritenersi comunque variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
3. Gli interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali.
Articolo 32 (Opere costruite su aree sottoposte a vincolo).
Fatte salve le fattispecie previste dall’art. 33, il rilascio della concessione o della autorizzazione in sanatoria per opere eseguite su aree sottoposte a vincolo, ivi comprese quelle ricadenti nei parchi nazionali e regionali, è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela dal vincolo stesso. Qualora tale parere non venga reso dalle suddette amministrazioni entro centoventi giorni dalla domanda, si intende reso in senso negativo.
Sono suscettibili di sanatoria, alle condizioni sottoindicate, le opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione e che risultino:
a) in difformità dalla legge 2 febbraio 1974, n. 64, e successive modificazioni, quando possano essere collaudate secondo il disposto del quarto comma dell’art. 35;
b) in contrasto con le norme urbanistiche che prevedono la destinazione ad edifici pubblici od a spazi pubblici, purchè non in contrasto con le previsioni delle varianti di recupero di cui al capo III, ove esistenti;
c) in contrasto con le norme del decreto ministeriale 1° aprile 1968 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13 aprile 1968, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico.
Qualora non si verifichino le condizioni di cui alle precedenti lettere, si applicano le disposizioni dell’art. 33.
Per le opere eseguite da terzi su aree di proprietà dello Stato o di enti pubblici territoriali, in assenza di un titolo che abiliti al godimento del suolo, il rilascio della concessione o dell’autorizzazione in sanatoria è subordinato anche alla disponibilità dell’ente proprietario a concedere onerosamente, alle condizioni previste dalle leggi statali o regionali vigenti, l’uso del suolo su cui insiste la costruzione.
Per le costruzioni ricadenti in aree comprese fra quelle di cui all’art. 21 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, il rilascio della concessione o della autorizzazione in sanatoria è subordinato alla acquisizione della proprietà dell’area stessa previo versamento del prezzo, che è determinato dall’ufficio tecnico erariale in rapporto al vantaggio derivante dall’incorporamento dell’area.
Per le opere non suscettibili di sanatoria ai sensi del presente articolo si applicano le sanzioni previste dal capo I.
Articolo 33 L. 47/85 (Opere non suscettibili di sanatoria). 
Le opere di cui all’art. 31 non sono suscettibili di sanatoria quando siano in contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse:
a) vincoli imposti da leggi statali e regionali nonchè dagli strumenti urbanistici a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici;
b) vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali;
c) vincoli imposti a tutela di interessi della difesa militare e della sicurezza interna;
d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree.
Sono altresì escluse dalla sanatoria le opere realizzate su edifici ed immobili assoggettati alla tutela della legge 1° giugno 1939, n. 1089, e che non siano compatibili con la tutela medesima.
Per le opere non suscettibili di sanatoria ai sensi del presente articolo si applicano le sanzioni previste dal capo I.
Articolo 4Decreto Ministeriale 1 aprile 1968 (in Gazz. Uff., 13 aprile, n. 96). – Distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all’art. 19 della legge 6 agosto 1967, n. 765. Norme per le distanze.
Le distanze da osservarsi nella edificazione a partire dal ciglio della strada e da misurarsi in proiezione orizzontale, sono così da stabilire:
strade di tipo A) – m. 60,00;
strade di tipo B) – m. 40,00;
strade di tipo C) – m. 30,00;
strade di tipo D) – m. 20,00.
A tali distanze minime va aggiunta la larghezza dovuta alla proiezione di eventuali scarpate o fossi e di fasce di espropriazione risultanti da progetti approvati.
Articolo 9 Decreto Ministeriale 2 aprile 1968 (in Gazz. Uff., 16 aprile, n. 97). – Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765. Limiti di distanza tra i fabbricati.
Le distanze minime tra fabbricati per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti, computati senza tener conto di costruzioni aggiuntive di epoca recente e prive di valore storico, artistico o ambientale;
2) Nuovi edifici ricadenti in altre zone: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti;
3) Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all’altezza del fabbricato più alto: la norma si applica anche quando una sola parete sia finestrata, qualora gli edifici si fronteggino per uno sviluppo superiore a ml. 12.
Le distanze minime tra fabbricati – tra i quali siano interposte strade destinate al traffico dei veicoli (con esclusione della viabilità a fondo cieco al servizio di singoli edifici o di insediamenti) – debbono corrispondere alla larghezza della sede stradale maggiorata di:
ml. 5 per lato, per strade di larghezza inferiore a ml. 7;
ml. 7,50 per lato, per strade di larghezza compresa tra ml. 7 e ml. 15;
ml. 10 per lato, per strade di larghezza superiore a ml. 15.
Qualora le distanze tra fabbricati, come sopra computate, risultino inferiori all’altezza del fabbricato più alto, le distanze stesse sono maggiorate fino a raggiungere la misura corrispondente all’altezza stessa. Sono ammesse distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.