Tutti gli articoli di Avv. Luigi Ferrara

Avvocato amministrativista

Sezione LF Business

Recentemente la sezione Studio Legale LF Business –
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La retrocessione figura sostanzialmente riferita non già ad un accertamento di conformità, bensì del solo condono edilizio, definito anche come “sanatoria straordinaria”.

Pubblicato il 20/07/2023
N. / 2023
REG.PROV.COLL.
N. 00598/2023 REG.RIC.
R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 598 del 2023, proposto da
Vxxx, rappresentato e difeso dall’avvocato Marcello Fortunato;
contro
Comune di San Mango Piemonte, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Luigi Ferrara;
per l’annullamento
del provvedimento del xxx 2023, prot. n. 272: archiviazione della SCIA alternativa al permesso di costruire in sanatoria prot. n. 224 del xxx 2023.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di San Mango Piemonte; Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 luglio 2023 il dott. Olindo Di Popolo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Col ricorso in epigrafe, VV. V. impugnava, chiedendone l’annullamento, il provvedimento del xxxx 2023, prot. n. 272, col quale il Responsabile del Settore Tecnico del Comune di San Mango Piemonte aveva archiviato la SCIA alternativa al permesso di costruire in sanatoria prot. n. 224 del xxx 2023, avente per oggetto il sottotetto abusivo realizzato in corrispondenza dell’edificio residenziale ubicato in San Mango Piemonte, via S. Caterina, n. 41, e censito in catasto al foglio xx, particella xx, sub xx, nonché contestato con le ordinanze di demolizione n. 3 del 27 febbraio 2008 e n. 48 del3 luglio 2008.
2. Il gravato provvedimento declinatorio era, segnatamente, motivato in base al rilievo che, per effetto dell’ordinanza della Corte d’Appello di Salerno, Sezione Penale, n. 361/18 del 15 gennaio 2021 (con cui era stato dichiarato inefficace il decreto di sequestro preventivo del GIP presso il Tribunale di Salerno del 29 gennaio 2008, avente per oggetto il menzionato sottotetto e disposta la restituzione di quest’ultimo in favore del Comune di San Mango Piemonte), il manufatto abusivo era ormai transitato nel patrimonio disponibile dell’ente locale.
3. Nell’avversare siffatta determinazione, il V. lamentava, in estrema sintesi, che: l’amministrazione comunale intimata: a) in difetto del presupposto e di istruttoria, si sarebbe limitata a richiamare la citata ordinanza della Corte d’Appello di Salerno, Sezione Penale, n. 361/18 del 15 gennaio 2021, obliterando e disattendendo la regola di azione enunciata nella successiva ordinanza n. 178/21 del 21 novembre 2022, secondo cui il diritto di proprietà sul cespite immobiliare de quo avrebbe potuto essere retrocesso all’autore dell’abuso edilizio, a seguito dell’accoglimento dell’istanza di accertamento di conformità; b) avrebbe erroneamente postulato l’avvenuta acquisizione gratuita del bene al proprio patrimonio disponibile, nonostante l’assenza del propedeutico accertamento dell’inottemperanza alle ingiunzioni di demolizione n. 3 del 27 febbraio 2008 e n. 48 del 3 luglio 2008; c) in violazione dell’art. 10 bis della l. n. 241/1990, avrebbe omesso di preannunciare i motivi ostativi alla richiesta sanatoria; d) in violazione dell’art. 19, comma 3, della l. n. 241/1990, non avrebbe invitato l’interessato a conformare l’attività edilizia posta in essere alla normativa vigente.
4. Costituitosi in resistenza, il Comune di San Mango Piemonte eccepiva l’inammissibilità per difetto di legittimazione passiva, l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse ad agire, nonché l’infondatezza dell’impugnazione proposta ex adverso.
5. All’udienza pubblica del 13 luglio 2023, la causa era trattenuta in decisione.
6. Venendo ora a scrutinare il ricorso, esso si rivela infondato per le ragioni illustrate in appresso.
Tanto può esimere, quindi, il Collegio dall’esame delle eccezioni in rito sollevate dall’amministrazione resistente.
7. Innanzitutto, non possono giovare alle proposizioni attoree compendiate retro, sub n. 3.a, le statuizioni sancite dalla Corte d’Appello di Salerno, Sezione Penale, con l’ordinanza n. 178/21 del 21 novembre 2022.
Ed invero, quest’ultima decisione – al pari delle precedenti ordinanze n. 361/18 del 15 gennaio 2021 e n. 178/21 dell’8 novembre 2021 – ha ribadito che «il piano sottotetto del V. non è più di sua proprietà, ma è passato (a titolo gratuito) nel patrimonio disponibile del Comune di San Mango Piemonte ex art. 31, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001 da circa 13 anni (cioè alla scadenza del termine di 90 giorni per demolire contenuto nell’ordine di demolizione del 27 febbraio 2008) per cui correttamente la Corte d’appello di Salerno con l’ordinanza del 15 gennaio 2021 ne ha disposto la consegna al legittimo proprietario che ha individuato nel Comune di San Mango Piemonte».
Né soccorre il profilo di doglianza in esame l’inciso contenuto nell’ordinanza della Corte d’Appello di Salerno, Sezione Penale, n. 178/21 del 21 novembre 2022, a tenore del quale, «in caso di accoglimento dell’istanza di rilascio ex art. 36 del
d.p.r. n. 380/2001 del permesso di costruire in sanatoria presentata dopo l’inutile decorso del termine di 90 giorni assegnato per effettuare la demolizione, il diritto di proprietà retroceda dal Comune all’autore dell’abuso edilizio».
Tanto, in primis, perché, al di là del non perspicuo richiamo all’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, l’adombrata vicenda di retrocessione figura, infatti, sostanzialmente riferita nella pronuncia citata all’ipotesi di favorevole esitazione non già dell’accertamento di conformità, bensì del solo condono edilizio, dal giudice penale definito anche come “sanatoria straordinaria”. A conferma di ciò, milita il seguente passaggio argomentativo: che «la nuova prospettazione in diritto posta dalla difesa del V. … (relativa al fatto che il Comune di San Mango Piemonte, nel caso di rigetto della istanza di sanatoria presentata dal V. il 2 febbraio 21 ex art. 36 del
d.p.r. n. 380/2001, dovrà necessariamente emettere una nuovo ordine di demolizione concedendo al V. il termine di 90 giorni per demolire e, solo qualora il predetto non demolisca, potrà emettere il provvedimento, previsto dall’art. 31, comma 4, del d.p.r. n. 380/2001, di accertamento della inottemperanza che determinerà il passaggio di proprietà a titolo gratuito del piano sottotetto dal Vicinanza al Comune di San Mango Piemonte) è errata alla luce della consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha chiarito che solo nel caso di rigetto dell’istanza di condono edilizio (che sono tra quelli attivati negli ultimi decenni e cioè quello di cui alla legge n. 47 del 1985, quello di cui alla legge 724 del 1994 e quello di cui alla legge 326 del 2003) il Comune deve riemettere l’ordine di demolizione, ma non nel caso di rigetto (che si forma anche in caso di silenzio della p.a. entro 60 giorni dalla presentazione dell’istanza) dell’istanza di permesso in sanatoria avanzata ex art 36 del d.p.r. n. 380/2001».
E tanto, altresì, perché, il richiesto accertamento di conformità del sottotetto controverso essendo stato già tacitamente respinto, a norma dell’art. 36 del d.p.r. n. 380/2001, in relazione alle pregresse istanze del 28 febbraio 2008, prot. n. 1025, e del 3 febbraio 2021, prot. n. 565, nonché rinunciato con nota del 14 ottobre 2016, prot. n. 3785, in relazione alla pregressa istanza del 21 giugno 2021, prot. n. 2724, la SCIA del 16 gennaio 2023, prot. n. 224, si atteggiava a guisa di defatigante tentativo di recuperare fuori ogni tempo un progetto in sanatoria irreversibilmente superato e di neutralizzare così l’effetto acquisitivo acclarato con le ordinanze della Corte d’Appello di Salerno, Sezione Penale, n. 361/18 del 15 gennaio 2021, n. 178/21 del 5 agosto 2022 e n. 178/21 del 21 novembre 2022.
8. L’assunto attoreo circa la necessità dell’accertamento dell’inottemperanza alle ingiunzioni di demolizione n. 3 del 27 febbraio 2008 e n. 48 del 3 luglio 2008 in funzione dell’effetto acquisitivo ex art. 31, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001 (cfr. retro, sub n. 3.b) si infrange, poi, contro l’accertamento giurisdizionale contenuto nelle ordinanze della Corte d’Appello di Salerno, Sezione Penale, n. 361/18 del 15 gennaio 2021, n. 178/21 del 5 agosto 2022 e n. 178/21 del 21 novembre 2022: queste hanno, infatti, sancito la regola operativa del caso concreto, insindacabile da questo adito giudice amministrativo, in merito al già avvenuto trasferimento del cespite immobiliare dal patrimonio del V. al patrimonio del Comune di San Mango Piemonte, al quale nessuna ulteriore attività si imponeva, quindi, ai fini traslativi in proprio favore.
In particolare: – l’ordinanza n. 361/18 del xxx 2021 ha statuito che l’ente locale è divenuto proprietario del sottotetto controverso ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001; – l’ordinanza n. 178/21 del xxx2022 ha parimenti affermato che «il manufatto abusivo è dal 2008, ai sensi dell’art. 31, comma 3, del
d.p.r. n. 380/2001, di proprietà del Comune di San Mango Piemonte»; – l’ordinanza
n. 178/21 del xxx 2022 ha nuovamente ribadito che «il piano sottotetto del
V. non è più di sua proprietà, ma è passato (a titolo gratuito) nel patrimonio disponibile del Comune di San Mango Piemonte ex art. 31, comma 3, del d.p.r. n. 380/2001 da circa 13 anni (cioè alla scadenza del termine di 90 giorni per demolire contenuto nell’ordine di demolizione del xxx 2008)».
Ciò, con la precisazione che l’atto di accertamento dell’inottemperanza alle ingiunzioni di demolizione n. 3 del xx 2008 e n. 48 del xxx 2008 in tanto si rendeva necessario, in quanto restava preordinato alla trascrizione dell’acclarato trasferimento nei registri immobiliari ed all’immissione dell’ente locale nel possesso del bene (cfr. nota della Corte d’Appello di Salerno, Sezione Penale, del xxx 2022, indirizzata al Sindaco del Comune di San Mango Piemonte).
9. Nemmeno accreditabile è la censura di violazione dell’art. 10 bis della l. n. 241/1990 (cfr. retro, sub n. 3.c).
In questo senso, giova rammentare che, per ius receptum, la SCIA costituisce dichiarazione di volontà privata di intraprendere una determinata attività ammessa direttamente dalla legge, suscettibile, una volta trascorso il termine normativamente previsto, senza alcun provvedimento conformativo, integrativo o interdittivo, di produrre effetti conformi a detta volontà, che la legge vi ricollega, secondo lo schema norma – fatto – effetto; e che, quindi, esulando dal correlativo modello legale il diaframma rappresentato dal potere amministrativo, essa non è equiparabile ad una istanza di avvio di un procedimento che può essere accolta o respinta dall’amministrazione e, come tale, non ammette la comunicazione dei motivi ostativi al suo accoglimento prima dell’esercizio dei poteri inibitori e di controllo da parte dell’autorità (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 1111/2019, secondo cui
«la natura giuridica della segnalazione certificata di inizio attività – che non è una vera e propria istanza di parte per l’avvio di un procedimento amministrativo poi conclusosi in forma tacita, bensì una dichiarazione di volontà privata di intraprendere una determinata attività ammessa direttamente dalla legge – induce ad escludere che l’autorità procedente debba comunicare al segnalante l’avvio del procedimento o il preavviso di rigetto ex art. 10 bis della l. n. 241 del1990 prima dell’esercizio dei relativi poteri di controllo e inibitori; il denunciante la SCIA, infatti, è titolare di una posizione soggettiva originaria che rinviene il suo fondamento diretto ed immediato nella legge che non ha bisogno di alcun consenso della p.a. e, pertanto, la segnalazione di inizio attività non instaura alcun procedimento autorizzatorio destinato a culminare in un atto finale di assenso, espresso o tacito, da parte dell’amministrazione; in assenza di procedimento, non c’è spazio per la comunicazione di avvio, per il preavviso di rigetto o per atti sospensivi da parte dell’amministrazione»; cfr. anche, ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 4280/2010; sez. VI, n. 9125/2022; TAR Friuli Venezia Giulia, Trieste, n. 13/2018; TAR Veneto, Venezia, sez. III, n. 245/2018; TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 5140/2018; TAR Sicilia, Catania, sez. II, n. 2329/2019).
10. Del pari, fuori sesto è la censura di violazione dell’art. 19, comma 3, della l. n. 241/1990 (cfr. retro, sub n. 3.d).
Osserva, al riguardo, il Collegio che nessun intervento correttivo avrebbe potuto essere legittimamente esercitato dall’amministrazione comunale in relazione ad un’attività edilizia abusiva già posta in essere ed assoggettata a sanatoria, senza menomare il principio della doppia conformità su cui riposa il titolo di legittimazione postuma ex art. 36 del d.p.r. n. 380/2001.
11. In conclusione, stante la ravvisata infondatezza di tutte le censure proposte, così come dianzi scrutinate, il ricorso in epigrafe deve essere respinto.
12. Quanto alle spese di lite, appare equo disporne l’integrale compensazione tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando, respinge il ricorso in epigrafe.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, atutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il procedimento penale ed i soggetti indicati in epigrafe e in motivazione.
Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 13 luglio 2023 con l’intervento dei magistrati:
Nicola Durante, Presidente
Olindo Di Popolo, Consigliere, Estensore Gaetana Marena, Referendario
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Olindo Di Popolo Nicola Durante

“Registro dei diploma consegnati” e non già registro dei “diploma conseguiti”.

NUOVA ORDINANZA FAVOREVOLE IN CONSIGLIO DI STATO Avv. Luigi Ferrara

Pubblicato il 01/04/2022
N. 01493/2022 REG.PROV.CAU.
N. 10431/2021
REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 10431 del 2021, proposto da R.O., U.N., M.L.P. , C. A., A.M..R., R.G., rappresentati e difesi dall’avv. Luigi Ferrara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DIPARTIMENTO PER IL SISTEMAEDUCATIVO DI ISTRUZIONE E FORMAZIONE, USR CAMPANIA, non costituiti in giudizio;
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, UFFICIO SCOLASTICOREGIONALE CAMPANIA, in persona del legale rappresentante protempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
nei confronti per la riforma
dell’ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio(Sezione Terza) n. 6524 del 2021;
Visto l’art. 62 cod. proc. amm.;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Istruzione;
Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2022 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati dello Stato Greco Giovanni;
Rilevato
che:
– l’Amministrazione, in autotutela, ha disposto l’esclusione degli odierni appellanti (titolari di contratto presso i propri istituti di chiamata) dalle Graduatorie Provinciali per le Supplenze (GPS), ciascuno per la propria classe di concorso o tipo di insegnamento, per mancanza del titolo di accesso:
– in particolare, nell’atto impugnato si motiva che: «
non si è potuto procedere alla verifica sull’autenticità del titolo di specializzazione polivalente per l’insegnamento su posto di sostegno (TAB-7) di scuola dell’infanzia (ADAA) e scuola primaria (ADEE)conseguito presso l’“Associazione San Pantaleone” di Nocera Inferiore (SA) e dichiarato dai docenti di seguito indicati, per mancato riscontro alle richieste dell’Amministrazione da parte della citata “Associazione San Pantaleone”
»;
– gli appellanti lamentano, in sintesi, che: i) non sono stati posti in grado di capire le ragioni giuridiche dell’impossibilità a valutare legittimi i titoli utilizzati sia nella domanda di concorso e sia nella domanda di GPS, titoli in originale esibiti all’atto della convalida; ii) il registro esibito dall’amministrazione in primo grado reca la dicitura “Registro dei diploma consegnati” e non già registro dei “diploma conseguiti”; iii) hanno reso tutti la
dichiarazione contestuale all’istanza in graduatoria prodotta in sostituzione delle certificazioni, titoli ed esami sostenuti nel rispetto della normativa di cuiall’ art 46 DPR 445/200; iv) nessun procedimento penale risulta in corso;
Considerato
che:
– con ordinanza del 21 gennaio 2022, n. 241, questa Sezione ha chiesto al Ministero appellato (costituitosi con memoria di mero stile) una puntuale e documentata relazione sui fatti di causa ‒ relativa alle circostanze che hanno giustificato l’atto di autotutela contestato nel presente giudizio ‒, da depositarsi entro il termine del 21 febbraio 2022;
– tale adempimento istruttorio non è stato adempiuto, né la difesa erariale ha chiesto un differimento, giustificando in qualunque modo la predetta omissione;
– allo stato degli atti, il comportamento processuale dell’Amministrazione costituisce un argomento di prova a sostegno della censura di difetto di istruttoria e motivazione addotta dagli appellanti;
– l’Amministrazione non ha esibito al Collegio neppure un principio di prova sulla falsità delle certificazioni esibite dagli appellanti;
– il mero riferimento ‘all’impossibilità di potere svolgere una verifica di autenticità presso l’Istituto Pantaleo e la mancanza di registri ad esso attinenti’, non pare idoneo a giustificare l’atto di cancellazione impugnato;
– anche nel bilanciamento degli opposti interessi, pare prevalente l’esigenza degli appellanti di non perdere la possibilità di lavoro e di presentarsi alconcorso ordinario per titoli ed esami finalizzato al reclutamento del personale docente della scuola dell’infanzia e primaria;
– va quindi disposta, nelle more dei necessari approfondimenti istruttori della fase di merito, la sospensione cautelare dell’atto impugnato;
– sussistono giusti motivi per compensare le spese della presente fase;
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale:
– accoglie l’appello cautelare e, per l’effetto, in riforma dell’ordinanza impugnata, sospende l’atto di esclusione dalle GPS;
– ordina che a cura della segreteria la presente ordinanza sia trasmessa al T.a.r.per la sollecita fissazione dell’udienza di merito ai sensi dell’art. 55, comma 10,del c.p.a.;
– compensa le spese della presente fase cautelare.
La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alleparti.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2022 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro, Presidente
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Dario Simeoli, Consigliere, Estensore
Stefano Toschei, Consigliere
Thomas Mathà, Consigliere
L’ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Dario Simeoli
Giancarlo Montedoro

DECRETO DEPENNAMENTO GRADUATORIA GPS

Pubblicato il 08/02/2022
N. 01484/2022 REG.PROV.COLL.
N. 05467/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Terza Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5467 del 2021, proposto da M.O., rappresentato e difeso dall’avvocato Luigi Ferrara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero dell’Istruzione, Ufficio Scolastico Regionale Lombardia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti S. D., non costituito in giudizio;
per l’annullamenti del Decreto di depennamento n. Prot. Reg. Decreti, U.0000905 del26/04/2021 a firma del Direttore Generale Augusta Celada dalla graduatoria di assegnazioni provvisorie art. 10, del D.D.G. 1546/2018 (sostegno) Scuola Infanzia, con il conseguente depennamento dalla graduatoria di merito del concorso indetto con D.D.G.1546/2018 e dell’approvazione della graduatoria di merito compilata ai sensi dell’art. 10stesso D.D.G. 1546/2018, per i posti di sostegno nella scuola dell’Infanzia nella Regione
Emilia Romagna. Decreto notificato mezzo posta ordinaria PEO il successivo26/04/2021;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Istruzione e di Ufficio Scolastico Regionale Lombardia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 gennaio 2022 il dott. Emiliano Raganella e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
La ricorrente in data 11 dicembre 2018 proponeva domanda di partecipazione al concorso straordinario per titoli ed esami per il reclutamento a tempo indeterminato di personale docente per la scuola dell’infanzia e primaria, posto comune e di sostegno ai sensi del D.M 17 ottobre 2018 — D.D.G.1546/2018 con inoltro della domanda alla Regione Emilia Romagna.
All’esito della prova, dallo stesso Ufficio VII Lombardia, veniva stilata graduatoria di merito con Decreto del 25.07.2019, n. prot. U.0002290, ed ove la concorrente risultava al nr. 52 per l’immissione in ruolo.
Sulla base dell’ordine di preferenza richiesto dall’USR Emilia Romagna, alla docente veniva assegnata la provincia di Piacenza con convocazione per l aimmissione in ruolo per il giorno 26 agosto 2019 presso l’USP di competenza, per la scelta della sede.
La ricorrente, visto l’elenco delle sedi disponibili, operava la scelta per il V circolo didattico di Piacenza, ove veniva assegnata con p. 3409, a firma del Dirigente del IX Ufficio Ambito Territoriale di Parma e Piacenza, nella persona del Dott. Maurizio Bocedi, con decorrenza giuridica ed economica dal 01/09/2019,
Successivamente USR adottava un decreto con il quale, richiamando una comunicazione della Procura della Repubblica di Vallo della Lucania,
depennava la ricorrente dalla graduatoria.
In tale nota si informava che “I diplomi di qualifica professionale rilasciati dall’istituto professionale “Passarelli” di San Marco di Castellabbate sono da ritenersi falsi”, e riportando nell’elenco il nominativo della ricorrente.
Si costituiva l’amministrazione resistente chiedendo il rigetto del ricorso.
All’esito della camera di consiglio del 23 giugno 2021 veniva respinta l’istanza cautelare.
A seguito di appello cautelare della ricorrente, il Consiglio di Stato, con ordinanza n. 04742 del 10 settembre 2021, chiedeva all’Ufficio scolastico Regionale per la Lombardia del Ministero dell’istruzione (che ha adottato il provvedimento impugnato) di chiarire se la Procura della Repubblica di Vallo della Lucania stava svolgendo indagini sul titolo di studio richiesto per l’accesso alla graduatoria dalla quale l’appellante era stata esclusa ovvero su diverso titolo di studio.
Con la relazione inviata dal predetto Ufficio scolastico regionale emergeva chela ricorrente, nella domanda di partecipazione, ha dichiarato di aver conseguito il diploma triennale di scuola magistrale il 15 giugno 1989 e il titolo di specializzazione su sostegno agli alunni con disabilità il 19 giugno1993, mentre dalla comunicazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Vallo della Lucania, acquisita al protocollo dell’USR della Campania in data 7 ottobre 2020, n. 0030695, emerge che la ricorrente è indicata al n. 59 del paragrafo riguardante l’analisi della documentazione acquisita e relativa ai diplomi polivalenti per l’insegnamento di sostegno e/o Usraltri diplomi abilitativi all’insegnamento conseguiti, al termine dell’anno accademico 1996/1998, da soggetti che non risultano aver mai frequentato il corso formativo che si è effettivamente ivi tenuto tra il 1996 e il 1998.
Considerato, pertanto, che l’indagine della Procura della Repubblica ha come oggetto un titolo di studio o di abilitazione diverso da quello utilizzato dall’appellante per la partecipazione al concorso su cui si controverte e che, pertanto, l’eventuale accertamento della sua falsità non può avere
conseguenze dirette sulla permanenza in graduatoria, veniva accolto l’appello dal Consiglio di Stato.
All’udienza pubblica dell’11 gennaio 2022 la causa veniva trattenuta indecisione.
Il ricorso è fondato.
Dalla relazione dell’USR, sopra richiamata, risulta che il diploma, presunto falso, oggetto della controversia indicato nella nota della Procura Di Vallo riguarda l’anno scolastico 1997/98, che la docente conseguì come specializzazione di sostegno di secondo grado.
La ricorrente, viceversa. è in possesso del diploma di Sostegno di primo grado e che come si
evince dalla domanda di concorso depositata in atti ha utilizzato ed è stato conseguito
nell’anno 1992/93, e che non è oggetto di indagine.
Ne è conferma che la ricorrente non risulta essere stata indagata né essere stata destinataria di alcun decreto di perquisizione.
Conclusivamente il ricorso deve essere accolto per evidente travisamento dei fatti e conseguentemente deve essere annullato il decreto impugnato.
In considerazione dell’andamento del giudizio le spese possono essere compensate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis),definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
A)Dati sensibili diversi dalla salute
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, deldecreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, delRegolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27
aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda allaSegreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasialtro dato idoneo ad identificare la ricorrente.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 gennaio 2022 conl’intervento dei magistrati:
Giuseppe Sapone, Presidente
Emiliano Raganella, Consigliere, Estensore
Giovanni Caputi, Referendario
L’ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Emiliano Raganella
Giuseppe Sapone

TITOLO ACCESSO GRADUATORIA ADAA MOTIVAZIONE ISSUFFICENTE. ACCERTAMENTO. SOSPENSIONE.

An empty school classroom defocused.

Pubblicato il 10/09/2021
N. 04742/2021 REG.PROV.CAU.

N. 05887/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 5887 del 2021, proposto da

-OMISSIS-, rappresentata e difesa dagli avvocati Luigi Ferrara, Alfredo De Filippo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Ministero Dell’Istruzione, Dell’Università e della Ricerca, non costituito in giudizio;
Ufficio Scolastico Regionale Lombardia, Ministero dell’Istruzione, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti

-OMISSIS-, non costituita in giudizio;
per la riforma

dell’ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. -OMISSIS-/2021, resa tra le parti, concernente decreto depennamento da graduatoria n. prot. reg. decreti, U.0000905 del 26/04/2021;

Visto l’art. 62 cod. proc. amm;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ufficio Scolastico Regionale Lombardia e di Ministero dell’Istruzione;

Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 settembre 2021 il Cons. Andrea Pannone e uditi per le parti gli avvocati Luigi Ferrara e Alfredo De Filippo;

Considerato che l’Ufficio scolastico regionale per la Lombardia del Ministero dell’istruzione (che ha adottato il provvedimento impugnato) dovrà chiarire (a mezzo relazione da depositare in giudizio entro il 30 settembre 2021) se la Procura della Repubblica di Vallo della Lucania sta svolgendo indagini sul titolo di studio richiesto per l’accesso alla graduatoria dalla quale l’appellante è stata esclusa ovvero su diverso titolo di studio;

Considerata la gravità del danno derivante dall’esecuzione del provvedimento impugnato;

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), dispone gli incombenti istruttori indicati in motivazione, accogliendo nelle more l’istanza cautelare fino alla camera di consiglio del 7 ottobre 2021, alla quale rinvia le parti per il prosieguo.

Spese al definitivo.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 settembre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Carmine Volpe, Presidente

Andrea Pannone, Consigliere, Estensore

Vincenzo Lopilato, Consigliere

Alessandro Maggio, Consigliere

Dario Simeoli, Consigliere

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Andrea Pannone Carmine Volpe

IL SEGRETARIO

DIPLOMA CLASSE CONCORSO AAAA RITENUTO NON AMMISSIBILE. MOTIVAZIONE NON SUFFICIENTE.


Pubblicato il 18/06/2021
N. 03319/2021 REG.PROV.CAU.

N. 03663/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 3663 del 2021, proposto da B D, rappresentata e difesa dagli avvocati Luigi Ferrara, Emanuele Esposito, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia;

contro

Ministero dell’Istruzione, Ufficio Scolastico Regionale Lazio, Uff Scolastico Reg Lazio – Uff X Ambito Terr per la Provincia di Viterbo, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Ufficio Scolastico Provinciale X Ambito Territoriale di Viterbo, Istituto Comprensivo “XXX” di XXX non costituiti in giudizio;
nei confronti

A. V., non costituita in giudizio;
per la riforma

dell’ ordinanza cautelare n. 751 del 2021 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Terza

Visto l’art. 62 cod. proc. amm;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Istruzione e di Ufficio Scolastico Regionale Lazio e di Uff Scolastico Reg Lazio – Uff X Ambito Terr per la Provincia di Viterbo;

Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di accoglimento/reiezione della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 17 giugno 2021 il Cons. Vincenzo Lopilato.

L’udienza si svolge ai sensi dell’art. 4, comma 1, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e dell’art. 25 del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa 13 marzo 2020, n. 6305.

Considerato, all’esito di una delibazione tipica della fase cautelare, che l’appello risulta fornito di sufficienti elementi di fondatezza, in quanto la rideterminazione del punteggio è avvenuta sulla base di un procedimento penale in corso senza riferimenti a specifiche contestazioni che risultino dalla motivazione dell’atto impugnato.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie la domanda cautelare proposta con il ricorso in appello indicato in epigrafe.

Le spese della presente fase cautelare sono compensate tra le parti.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 giugno 2021 con l’intervento dei magistrati:

Giancarlo Montedoro, Presidente

Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore

Alessandro Maggio, Consigliere

Giordano Lamberti, Consigliere

Francesco De Luca, Consigliere

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Vincenzo Lopilato Giancarlo Montedoro

IL SEGRETARIO

Appalti: illecito professionale. Valutazione della Stazione. Obbligo di comunicazione.

– idoneo ad influenzare la valutazione della stazione appaltante in ordine ai requisiti di integrità e di affidabilità.
La valutazione della Stazione è sempre diretta verso l’affidabilità del concorrente ed una volta effettuata tale scelta ai sensi della lett. c) bis dell’art. 80, comma 5, D.lgs. n. 50/2016, (Consiglio di Stato, Adunanza della Commissione speciale del 23 ottobre 2018, affare n. 1725 del 2018, par 8.8.). Si veda pure recentemente: (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 28 agosto 2020, n. 16).
****
Pubblicato il 03/12/2020
N. 01498/2020 REG.PROV.CAU.
N. 01980/2020 REG.RIC.
R E P U B B L I C A I T A L I A N A
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 1980 del 2020, proposto da
-OMISSIS-, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati
Pilar Sanjust e Matteo Alessandro Pagani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di
Giustizia;
contro
Comune di Pioltello, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Carlo
Andena e Fabio Romanenghi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
nei confronti
xxx, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentata e difesa
dall’avvocato Luigi Ferrara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
– della determinazione n. 756 del 12 ottobre 2020, avente ad oggetto “Procedura aperta per la
gestione dei servizi cimiteriali e la fornitura e posa lastre di marmo – cig 83020024c7 – durata 24
mesi. Inefficacia determinazione dirigenziale n. 568 del 31.07.2020, relativamente all’
aggiudicazione in favore di -OMISSIS-. esclusione -OMISSIS- ed aggiudicazione alla seconda in
graduatoria”, con la quale il dirigente dell’unità operativa complessa lavori pubblici – unità
operativa semplice servizi cimiteriali del Comune di Pioltello ha dichiarato l’inefficacia della
determinazione dirigenziale n. 568 del 31 luglio 2020, nella parte relativa all’aggiudicazione del
servizio di gestione dei servizi cimiteriali e della fornitura e posa di lastre di marmo in favore
dell’ operatore economico -OMISSIS- e ne ha disposto l’esclusione, aggiudicando l’appalto, della
durata 24 mesi, alla seconda classificata xxx società cooperativa sociale a r.l.;
– della nota del 13 ottobre 2020 del dirigente del settore lavori pubblici del Comune di Pioltello,
con la quale è stata comunicata l’avvenuta dichiarazione d’inefficacia, disposta con determinazione
n. 756 del 12 ottobre 2020, della precedente determinazione n. 568 del 31 luglio 2020;
– della comunicazione di avvio del suddetto procedimento;
– di tutti gli ulteriori atti presupposti, collegati e consequenziali, anche non conosciuti;
e per il risarcimento dei danni conseguenti all’esecuzione dei provvedimenti illegittimi, in forma specifica, mediante l’aggiudicazione dell’appalto e relativo subentro nel contratto, o per equivalente, mediante il risarcimento di una somma, pari al 20% dell’offerta della società ricorrente o a quella diversa che risulterà di giustizia;
nonché per la declaratoria dell’inefficacia dell’aggiudicazione disposta a favore della società xxx cooperativa sociale a r.l. e del contratto eventualmente nelle more sottoscritto, con subentro della società ricorrente nel medesimo.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Pioltello e della società cooperativa sociale xxx .;
Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via
incidentale dalla parte ricorrente;
Visto l’articolo 55 c.p.a.; Visti tutti gli atti della causa;
Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 2 dicembre 2020 la dott.ssa Rosanna Perilli e uditi, nella discussione effettuata da remoto mediante l’utilizzo della piattaforma Microsoft-Teams, per
la parte ricorrente l’avvocato Pilar Sanjust e per il Comune di Pioltello l’avvocato Fabio Romanenghi; Viste le note di udienza e di richiesta di passaggio in decisione della causa, depositate dalla società controinteressata in data 1 dicembre 2020, a firma dell’avvocato Luigi Ferrara, il quale, ai sensi degli articoli 25, comma 1, del decreto legge 28 ottobre 2020 e 4, comma 1, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, è considerato presente ad ogni effetto in udienza;
Le censure prospettate da parte ricorrente non sono assistite da un sufficiente grado di fondatezza, in quanto il Comune di Pioltello ha correttamente dichiarato l’inefficacia dell’aggiudicazione dopo aver ravvisato, all’esito del contraddittorio procedimentale, la sussistenza delle cause di esclusione di cui all’articolo 80, comma 5, lettere c) e c-bis) del decreto legislativo 18 aprile 2016,
n. 50, alle quali, contrariamente a quanto sostenuto dalla società ricorrente, non si applica il requisito della definitività della condanna penale, previsto per le cause di esclusione di cui al
comma 1 del medesimo articolo, e non si estende l’effetto preclusivo conseguente all’assunzione dell’impegno vincolante a pagare le imposte dovute, previsto per la causa di esclusione di cui al comma 4.
Il Collegio, coerentemente con l’orientamento espresso dalla Sezione (T.a.r. Lombardia, Milano, 12 ottobre 2020, n. 1881; 10 agosto 2020, n. 1538; 15 novembre 2019, n. 2421), ritiene che, in applicazione del principio di omnicomprensività e di ragionevole esigibilità degli obblighi dichiarativi e informativi nei confronti della stazione appaltante, la società ricorrente avrebbe dovuto dichiarare la condanna riportata dagli unici due soci della stessa per concorso nel reato continuato di dichiarazione fraudolenta mediante uso
di fatture per operazioni inesistenti.
Osserva il Collegio che la predetta sentenza di condanna rientra nel perimetro qualitativo e temporale delle dichiarazioni esigibili, in adempimento dei doveri di diligenza e di buona fede, dall’operatore economico, sia perché con essa è stata accertata la violazione, con modalità fraudolente, dei fondamentali obblighi fiscali correlati all’esercizio dell’attività di impresa, sia perché l’accertamento non ancora definitivo del grave illecito professionale, idoneo ad influenzare la valutazione della stazione appaltante in ordine ai requisiti di integrità e di affidabilità del concorrente, pur avendo ad oggetto fatti di reato commessi fino al 2016, si è verificato nell’ottobre del 2019 e dunque in data ricompresa nel triennio antecedente alla dichiarazione del possesso dei requisiti di partecipazione (Consiglio di Stato, Adunanza della
Commissione speciale del 23 ottobre 2018, affare n. 1725 del 2018, par 8.8.).
Nel bilanciamento degli interessi in gioco, quello della stazione appaltante di contrattare con operatori economici sui quali riporre piena fiducia deve ritenersi senz’altro prevalente sull’interesse meramente patrimoniale della società ricorrente.
La domanda cautelare deve essere pertanto rigettata.
Le spese della fase seguono la soccombenza e si liquidano, in favore del Comune di Pioltello e del procuratore della xxx, dichiar.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (Sezione prima) respinge la domanda cautelare.
Condanna la società ricorrente al pagamento, nei confronti del Comune di Pioltello e dell’avvocato Luigi Ferrara, procuratore antistatario della società cooperativa sociale xxx,
delle spese della fase cautelare, che liquida in complessivi euro 2.000,00 (duemila/00) oltre accessori, da liquidarsi in ragione di euro 1.000,00 (mille/00) per ciascuna parte.
La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere
all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la società
ricorrente, il suo legale rappresentante e i suoi soci.
Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 2 dicembre 2020 con l’intervento dei
magistrati:
Domenico Giordano, Presidente Valentina Santina Mameli, Consigliere Rosanna Perilli, Referendario,
Estensore
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Rosanna Perilli Domenico Giordano

Illegittimo non convocare gli Abilitati all’Estero inseriti in GPS con riserva. Ordinanza Consiglio di Stato per i diplomati Cipro specializzazione sostegno, patrocinio Avv. Luigi Ferrara.

Emanato il Testo unico coordinato COVID 19. Raccolta delle disposizioni

Continua la lettura di Illegittimo non convocare gli Abilitati all’Estero inseriti in GPS con riserva. Ordinanza Consiglio di Stato per i diplomati Cipro specializzazione sostegno, patrocinio Avv. Luigi Ferrara.

L’art. 580 cod. pen. alla luce del mutato quadro costituzionale.

In attesa della decisione parlamentare circa l’emanazione di una legge che autorizzi il suicidio assistito anche in Italia, ecco la sospensione, fino al 24 settembre 2019, del Giudice delle Leggi.

Per la nostra Corte Costituzionale, attualmente, l’art. 580 cod. pen. guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi. Da qui l’invito della Corte al legislatore a trovare una disciplina che concili i valori morali dei delicatissimi interessi in gioco.

ORDINANZA N. 207

ANNO 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, promosso dalla Corte di assise di Milano, nel procedimento penale a carico di M. C., con ordinanza del 14 febbraio 2018, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti l’atto di costituzione di M. C., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, del Centro Studi “Rosario Livatino”, della libera associazione di volontariato “Vita è” e del Movimento per la vita italiano;

udito nella udienza pubblica del 23 ottobre 2018 il Giudice relatore Franco Modugno;

uditi gli avvocati Simone Pillon per la libera associazione di volontariato “Vita è”, Mauro Ronco per il Centro Studi “Rosario Livatino”, Ciro Intino per il Movimento per la vita italiano, Filomena Gallo e Vittorio Manes per M. C. e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d’assise di Milano ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale:

a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;

b) «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione», per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.

Con riguardo alle questioni sub a), il riferimento all’art. 3 (anziché all’art. 2) Cost. che compare nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione deve considerarsi frutto di mero errore materiale, alla luce del tenore complessivo della motivazione e delle «[c]onclusioni» che precedono immediatamente il dispositivo stesso.

Secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni traggono origine dalla vicenda di F. A., il quale, a seguito di un grave incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014, era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale (dunque, permanente). Non era autonomo nella respirazione (necessitando dell’ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche asportazioni di muco), nell’alimentazione (venendo nutrito in via intraparietale) e nell’evacuazione. Era percorso, altresì, da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda. Conservava, però, intatte le facoltà intellettive.

All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione e di cura (comprensivi anche di un trapianto di cellule staminali effettuato in India nel dicembre 2015), la sua condizione era risultata irreversibile. Aveva perciò maturato, a poco meno di due anni di distanza dall’incidente, la volontà di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri cari. Di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile determinazione aveva intrapreso uno “sciopero” della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare.

Di seguito a ciò, aveva preso contatto nel maggio 2016, tramite la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano dell’assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica.

Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale.

Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il suicidio assistito, l’imputato aveva accettato di accompagnarlo in automobile presso la struttura prescelta. Inviata a quest’ultima la documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la piena capacità di intendere e di volere, F. A. aveva alfine ottenuto da essa il “benestare” al suicidio assistito, con fissazione della data. Nei mesi successivi alla relativa comunicazione, egli aveva costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola dapprima agli amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello al Presidente della Repubblica) e affermando «di viverla come “una liberazione”».

Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano (ove risiedeva) in Svizzera, a bordo di un’autovettura appositamente predisposta, con alla guida l’imputato e, al seguito, la madre, la fidanzata e la madre di quest’ultima.

In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte. In quegli ultimi giorni, tanto l’imputato, quanto i familiari avevano continuato a restargli vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in Italia.

Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale.

Di ritorno dal viaggio, M. C. si era autodenunciato ai carabinieri.

A seguito di ordinanza di “imputazione coatta”, adottata ai sensi dell’art. 409 del codice di procedura penale dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano, egli era stato tratto quindi a giudizio davanti alla Corte rimettente per il reato di cui all’art. 580 cod. pen., tanto per aver rafforzato il proposito di suicidio di F. A., quanto per averne agevolato l’esecuzione.

Il giudice a quo esclude, peraltro, la configurabilità della prima ipotesi accusatoria. Alla luce delle prove assunte nel corso dell’istruzione dibattimentale, F. A. avrebbe, infatti, maturato la decisione di rivolgersi all’associazione svizzera prima e indipendentemente dall’intervento dell’imputato.

La Corte rimettente ritiene, invece, che l’accompagnamento in auto di F. A. presso la clinica elvetica integri, in base al “diritto vivente”, la fattispecie dell’aiuto al suicidio, in quanto condizione per la realizzazione dell’evento. L’unica sentenza della Corte di cassazione che si è occupata del tema ha, infatti, affermato che le condotte di agevolazione, incriminate dalla norma censurata in via alternativa rispetto a quelle di istigazione, debbono ritenersi perciò stesso punibili a prescindere dalle loro ricadute sul processo deliberativo dell’aspirante suicida (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo 1998, n. 3147).

Su questo presupposto, la Corte d’assise milanese dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della norma censurata, anzitutto nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o a rafforzare il proposito della vittima.

Il giudice a quo rileva come la disposizione denunciata presupponga che il suicidio sia un atto intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di sacralità e indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo, ritenuti preminenti nella visione del regime fascista.

La disposizione dovrebbe essere, però, riletta alla luce della Costituzione: in particolare, del principio personalistico enunciato dall’art. 2 – che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale – e di quello di inviolabilità della libertà personale, affermato dall’art. 13; principi alla luce dei quali la vita – primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo – non potrebbe essere «concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare». Di qui, dunque, anche la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.

Il diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, è stato, d’altronde, ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza e poi dal legislatore, con la recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che sancisce l’obbligo di rispettare le decisioni del paziente, anche quando ne possa derivare la morte.

La conclusione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa avrebbe conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale sarebbe rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà».

A fronte di ciò, il bene giuridico protetto dalla norma denunciata andrebbe oggi identificato, non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta.

In quest’ottica, la punizione delle condotte di aiuto al suicidio che non abbiano inciso sul percorso deliberativo della vittima risulterebbe ingiustificata e lesiva degli artt. 2, 13, primo comma, e 117 Cost. In tale ipotesi, infatti, la condotta dell’agevolatore rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di quanto deciso da un soggetto che esercita una libertà costituzionale, risultando quindi inoffensiva.

La Corte d’assise milanese censura, per altro verso, la norma denunciata nella parte in cui punisce le condotte di aiuto al suicidio, non rafforzative del proposito dell’aspirante suicida, con la stessa severa pena – reclusione da cinque a dieci [recte: dodici] anni – prevista per le condotte di istigazione, da ritenere nettamente più gravi.

La disposizione violerebbe, per questo verso, l’art. 3 Cost., unitamente al principio di proporzionalità della pena al disvalore del fatto, desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.

2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni sotto plurimi profili, deducendone, in ogni caso, l’infondatezza nel merito.

3.– Si è costituito altresì l’imputato nel giudizio a quo, il quale, con memoria integrativa – contestata la fondatezza delle eccezioni di inammissibilità – ha rilevato come, di là dalla generica formulazione del petitum, le questioni debbano ritenersi radicate sul caso di specie: prospettiva nella quale ha chiesto – sulla base di articolate considerazioni – che l’art. 580 cod. pen. sia dichiarato illegittimo «nella parte in cui punisce la condotta di chi abbia agevolato l’esecuzione della volontà, liberamente formatasi, della persona che versi in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, sempre che l’agevolazione sia strumentale al suicidio di chi, alternativamente, avrebbe potuto darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari»; ovvero, in subordine, «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione del proposito suicidario siano punite allo stesso modo della istigazione al suicidio».

Nella memoria per l’udienza, la parte costituita ha prospettato anche la possibilità di un superamento dei problemi di costituzionalità denunciati a mezzo di una sentenza interpretativa di rigetto.

4.– Con ordinanza pronunciata all’udienza pubblica del 23 ottobre 2018 questa Corte ha dichiarato inammissibili gli interventi ad opponendum del Centro Studi “Rosario Livatino”, della libera associazione di volontariato “Vita è” e del Movimento per la vita italiano.

Considerato in diritto

1.– La Corte d’assise di Milano dubita della legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, che prevede il reato di istigazione o aiuto al suicidio, sotto due distinti profili.

Da un lato, pone in discussione il perimetro applicativo della disposizione censurata, lamentando che essa incrimini anche le condotte di aiuto al suicidio che non abbiano contribuito a determinare o a rafforzare il proposito della vittima. Dall’altro, contesta il trattamento sanzionatorio riservato a tali condotte, dolendosi del fatto che esse siano punite con la medesima, severa pena prevista per le più gravi condotte di istigazione.

Il giudice a quo non pone alcun rapporto di subordinazione espressa tra le questioni. Esso è, però, in re ipsa. Appare, infatti, evidente che le censure relative alla misura della pena hanno un senso solo in quanto le condotte avute di mira restino penalmente rilevanti: il che presuppone il mancato accoglimento delle questioni intese a ridefinire i confini applicativi della fattispecie criminosa.

2.– Ciò puntualizzato, le eccezioni di inammissibilità formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri non sono fondate.

Contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato, la circostanza che il giudice a quo abbia già escluso che, nella specie, il comportamento dell’imputato sia valso a rafforzare il proposito di suicidio della vittima non rende le questioni irrilevanti. Queste ultime poggiano, infatti, sulla premessa ermeneutica che l’agevolazione del suicidio sia repressa anche se non influente sul percorso deliberativo del soggetto passivo e mirano proprio a denunciare l’illegittimità costituzionale di una simile disciplina.

Si tratta, a ben vedere, di una premessa corretta. La soluzione interpretativa di segno inverso risulterebbe, in effetti, in contrasto con la lettera della disposizione, poiché si tradurrebbe in una interpretatio abrogans. Nel momento stesso in cui si ritenesse che la condotta di agevolazione sia punibile solo se generativa o rafforzativa dell’intento suicida, si priverebbe totalmente di significato la previsione – ad opera della norma censurata – dell’ipotesi dell’aiuto al suicidio, come fattispecie alternativa e autonoma («ovvero») rispetto a quella dell’istigazione.

Ciò è sufficiente ad escludere che possa ritenersi fondata l’ulteriore eccezione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, di inammissibilità delle questioni perché finalizzate a conseguire un avallo interpretativo e non precedute dal doveroso tentativo di interpretazione conforme a Costituzione della disposizione denunciata. Come affermato più volte da questa Corte, l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis, sentenze n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016, n. 219 del 2008). In quest’ottica, non influisce, dunque, sull’ammissibilità delle questioni la circostanza che il presupposto ermeneutico su cui esse poggiano risulti recepito, per affermazione della stessa Corte rimettente, in un’unica pronuncia resa da una sezione semplice della Corte di cassazione (la sola in argomento: Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo 1998, n. 3147); pronuncia che, proprio perché isolata, non sarebbe di per sé idonea a determinare – contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo – la formazione di un “diritto vivente” (ex plurimis, sentenze n. 223 del 2013 e n. 258 del 2012, ordinanza n. 139 del 2011).

3.– Ugualmente infondata – in rapporto al petitum del giudice a quo – è la conclusiva eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato, di inammissibilità delle questioni per avere la Corte rimettente richiesto una pronuncia manipolativa in materia rimessa alla discrezionalità del legislatore – come quella dell’individuazione dei fatti da sottoporre a pena – in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata.

Al riguardo, va osservato che il giudice a quo chiede, in via principale, a questa Corte di rendere penalmente irrilevante l’agevolazione dell’altrui suicidio che non abbia inciso sulla decisione della vittima, a prescindere da ogni riferimento alle condizioni personali del soggetto passivo e alle ragioni del suo gesto: il che equivarrebbe, nella sostanza, a rimuovere la fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio, facendola ricadere integralmente in quella dell’istigazione. Di là dalla formulazione letterale del petitum, la Corte d’assise milanese invoca, dunque, una pronuncia a carattere meramente ablativo: pronuncia che, nella prospettiva della rimettente, rappresenterebbe una conseguenza automatica della linea argomentativa posta a base delle censure, senza implicare alcun intervento “creativo”. Ad avviso del giudice a quo, infatti, gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in riferimento agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, attribuirebbero a ciascuna persona la libertà di scegliere quando e come porre fine alla propria vita: ottica nella quale l’aiuto al suicidio prestato in favore di chi si sia autonomamente determinato nell’esercizio di tale libertà costituzionale si tradurrebbe, in ogni caso, in una condotta inoffensiva.

4.– Nel merito, la tesi della Corte rimettente, nella sua assolutezza, non può essere condivisa.

Analogamente a quanto avviene nelle altre legislazioni contemporanee, anche il nostro ordinamento non punisce il suicidio, neppure quando sarebbe materialmente possibile, ossia nel caso di tentato suicidio. Punisce, però, severamente (con la reclusione da cinque a dodici anni) chi concorre nel suicidio altrui, tanto nella forma del concorso morale, vale a dire determinando o rafforzando in altri il proposito suicida, quanto nella forma del concorso materiale, ossia agevolandone «in qualsiasi modo» l’esecuzione. Ciò, sempre che il suicidio abbia luogo o che, quantomeno, dal tentato suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima (nel qual caso è prevista una pena minore).

Il legislatore penale intende dunque, nella sostanza, proteggere il soggetto da decisioni in suo danno: non ritenendo, tuttavia, di poter colpire direttamente l’interessato, gli crea intorno una “cintura protettiva”, inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui.

Questo assetto non può ritenersi contrastante, di per sé, con i parametri evocati.

5.– Non è pertinente, anzitutto, il riferimento del rimettente al diritto alla vita, riconosciuto implicitamente – come «primo dei diritti inviolabili dell’uomo» (sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri – dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 35 del 1997), nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 CEDU.

Dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.

Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito).

6.– Neppure, d’altro canto – contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo – è possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita, che il rimettente fa discendere dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost.

In senso contrario, va infatti rilevato come non possa dubitarsi che l’art. 580 cod. pen. – anche nella parte in cui sottopone a pena la cooperazione materiale al suicidio – sia funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.

È ben vero quanto rileva il giudice a quo, e cioè che il legislatore del 1930, mediante la norma incriminatrice in esame (peraltro già presente nel previgente codice penale del 1889: art. 370), intendeva tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile, anche in funzione dell’interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini. Ma è anche vero che non è affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela di una norma quale l’art. 580 cod. pen. alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi.

L’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio – rinvenibile anche in numerosi altri ordinamenti contemporanei – è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere.

La circostanza, del tutto comprensibile e rispondente ad una opzione da tempo universalmente radicata, che l’ordinamento non sanzioni chi abbia tentato di porre fine alla propria vita non rende affatto incoerente la scelta di punire chi cooperi materialmente alla dissoluzione della vita altrui, coadiuvando il suicida nell’attuazione del suo proposito. Condotta, questa, che – diversamente dalla prima – fuoriesce dalla sfera personale di chi la compie, innescando una relatio ad alteros di fronte alla quale viene in rilievo, nella sua pienezza, l’esigenza di rispetto del bene della vita.

Il divieto in parola conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.).

7.– Le medesime considerazioni ora svolte valgono, altresì, ad escludere che la norma censurata si ponga, sempre e comunque sia, in contrasto con l’art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata.

Nel menzionato caso Pretty contro Regno Unito, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha, in effetti, dichiarato che il divieto, penalmente sanzionato, di assistere altri nel suicidio costituisce un’interferenza con il diritto in questione: diritto che comporta in linea di principio – e salvo il suo necessario bilanciamento con interessi e diritti contrapposti, di cui si dirà poco oltre – il riconoscimento all’individuo di una sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona. Tale affermazione è stata ulteriormente esplicitata dalla Corte in plurime occasioni successive, nelle quali i giudici di Strasburgo hanno affermato – ancora in riferimento a casi in cui i ricorrenti si dolevano di altrettanti ostacoli frapposti dallo Stato resistente al proprio diritto di ottenere un aiuto a morire a traverso la somministrazione di farmaci letali – che il diritto di ciascuno di decidere come e in quale momento debba avere fine la propria vita, sempre che si tratti di persona capace di prendere una decisione libera e di agire in conformità a tale decisione, è uno degli aspetti del diritto alla vita privata riconosciuto dall’art. 8 CEDU (Corte EDU, sentenza 20 gennaio 2011, Haas contro Svizzera; nello stesso senso, sentenza 19 luglio 2012, Koch contro Germania, e sentenza 14 maggio 2013, Gross contro Svizzera).

In forza del paragrafo 2 dello stesso art. 8, una interferenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto è possibile solo se prevista dalla legge e necessaria, «in una società democratica», per gli scopi ivi indicati, tra i quali rientra «la protezione dei diritti e delle libertà altrui». Per consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il concetto di necessità implica, altresì, che l’interferenza debba risultare proporzionata al legittimo scopo perseguito.

A questo riguardo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha, peraltro, riconosciuto agli Stati un ampio margine di apprezzamento, sottolineando a più riprese come incriminazioni generali dell’aiuto al suicidio siano presenti nella gran parte delle legislazioni degli Stati membri del Consiglio d’Europa (Corte EDU, sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito; sentenza 20 gennaio 2011, Haas contro Svizzera; sentenza 19 luglio 2012, Koch contro Germania). E la ragione atta a giustificare, agli effetti dell’art. 8, paragrafo 2, CEDU, simili incriminazioni è stata colta proprio nella finalità – ascrivibile anche alla norma qui sottoposta a scrutinio – di protezione delle persone deboli e vulnerabili (Corte EDU, sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito).

8.– Da quanto sinora osservato deriva, dunque, che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione.

Occorre, tuttavia, considerare specificamente situazioni come quella oggetto del giudizio a quo: situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali.

Il riferimento è, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost. Parametro, questo, non evocato nel dispositivo nell’ordinanza di rimessione, ma più volte richiamato in motivazione.

Paradigmatica, al riguardo, la vicenda oggetto del giudizio principale, relativa a persona che, a seguito di grave incidente stradale, era rimasta priva della vista e tetraplegica, non più autonoma nella respirazione (necessitando dell’ausilio, pur periodico, di un respiratore inserito in un foro della trachea), nell’alimentazione (essendo nutrita in via intraparietale) e nell’evacuazione: conservando, però, intatte le capacità intellettive e la sensibilità al dolore. Alle sofferenze psicologiche indotte dalla drammatica condizione di cecità e di totale immobilità si accompagnavano così quelle fisiche, particolarmente acute, prodotte dagli spasmi e dalle contrazioni da cui il soggetto era quotidianamente percorso. Condizione, questa, risultata refrattaria a ogni tentativo di cura, anche sperimentale ed effettuata persino fuori dai confini nazionali.

In simili casi, la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Ciò, segnatamente in forza della recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento): legge che si autodichiara finalizzata alla tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 1, comma 1).

La disciplina da essa recata, successiva ai fatti oggetto del giudizio principale, recepisce e sviluppa, nella sostanza, le conclusioni alle quali era già pervenuta all’epoca la giurisprudenza ordinaria – in particolare a seguito delle sentenze sui casi Welby (Tribunale ordinario di Roma, 17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748) – nonché le indicazioni di questa Corte riguardo al valore costituzionale del principio del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico: principio qualificabile come «vero e proprio diritto della persona», che «trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”» (sentenza n. 438 del 2008), svolgendo, in pratica, una «funzione di sintesi» tra il diritto all’autodeterminazione e quello alla salute (sentenza n. 253 del 2009).

In quest’ottica, la citata legge n. 219 del 2017 riconosce ad ogni persona «capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5). L’esercizio di tale diritto viene, peraltro, inquadrato nel contesto della «relazione di cura e di fiducia» – la cosiddetta alleanza terapeutica – tra paziente e medico, che la legge mira a promuovere e valorizzare: relazione «che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico», e che coinvolge, «se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo» (art. 1, comma 2). È in particolare previsto che, ove il paziente manifesti l’intento di rifiutare o interrompere trattamenti necessari alla propria sopravvivenza, il medico debba prospettare a lui e, se vi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze della sua decisione e le possibili alternative, e promuovere «ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica». Ciò, ferma restando la possibilità per il paziente di modificare in qualsiasi momento la propria volontà (art. 1, comma 5).

In ogni caso, il medico «è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo», rimanendo, «in conseguenza di ciò, […] esente da responsabilità civile o penale» (art. 1, comma 6).

Integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010, n. 38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) – che tutela e garantisce l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del paziente, inserendole nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza – la legge n. 219 del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, comma 1). Lo stesso art. 2 stabilisce inoltre, al comma 2, che il medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari. Tale disposizione non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte.

9.– La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte.

In tal modo, si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care.

Secondo quanto ampiamente dedotto dalla parte costituita, nel caso oggetto del giudizio a quo l’interessato richiese l’assistenza al suicidio, scartando la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure gli era stata prospettata), proprio perché quest’ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida. Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo.

Nelle ipotesi in esame vengono messe in discussione, d’altronde, le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio.

Se, infatti, il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale.

Quanto, poi, all’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze sono solitamente ascrivibili a tale categoria di soggetti. Ma è anche agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione.

Entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive (art. 3 Cost.: parametro, quest’ultimo, peraltro non evocato dal giudice a quo in rapporto alla questione principale, ma comunque sia rilevante quale fondamento della tutela della dignità umana).

10.– Al riscontrato vulnus ai principi sopra indicati, questa Corte ritiene, peraltro, di non poter porre rimedio, almeno allo stato, a traverso la mera estromissione dall’ambito applicativo della disposizione penale delle ipotesi in cui l’aiuto venga prestato nei confronti di soggetti che versino nelle condizioni appena descritte.

Una simile soluzione lascerebbe, infatti, del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi.

In assenza di una specifica disciplina della materia, più in particolare, qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti.

Di tali possibili conseguenze della propria decisione questa Corte non può non farsi carico, anche allorché sia chiamata, come nel presente caso, a vagliare la incompatibilità con la Costituzione esclusivamente di una disposizione di carattere penale.

Una regolazione della materia, intesa ad evitare simili scenari, gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità, è suscettibile peraltro di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali: come, ad esempio, le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura.

D’altra parte, una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche a traverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen., in questa sede censurata, inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico», opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima.

Peraltro, l’eventuale collegamento della non punibilità al rispetto di una determinata procedura potrebbe far sorgere l’esigenza di introdurre una disciplina ad hoc per le vicende pregresse (come quella oggetto del giudizio a quo), che di tale non punibilità non potrebbero altrimenti beneficiare: anche qui con una varietà di soluzioni possibili.

Dovrebbe essere valutata, infine, l’esigenza di adottare opportune cautele affinché – anche nell’applicazione pratica della futura disciplina – l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative dovrebbe costituire, infatti, un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente.

I delicati bilanciamenti ora indicati restano affidati, in linea di principio, al Parlamento, il compito naturale di questa Corte essendo quello di verificare la compatibilità di scelte già compiute dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità politica, con i limiti dettati dalle esigenze di rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali delle persone coinvolti.

11.– In situazioni analoghe a quella in esame, questa Corte ha, sino ad oggi, dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata, accompagnando la pronuncia con un monito al legislatore affinché provvedesse all’adozione della disciplina necessaria al fine di rimuovere il vulnus costituzionale riscontrato: pronuncia alla quale, nel caso in cui il monito fosse rimasto senza riscontro, ha fatto seguito, di norma, una declaratoria di illegittimità costituzionale (ad esempio: sentenza n. 23 del 2013 e successiva sentenza n. 45 del 2015).

Questa tecnica decisoria ha, tuttavia, l’effetto di lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione. La eventuale dichiarazione di incostituzionalità conseguente all’accertamento dell’inerzia legislativa presuppone, infatti, che venga sollevata una nuova questione di legittimità costituzionale, la quale può, peraltro, sopravvenire anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della prima sentenza di inammissibilità, mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare.

Un simile effetto non può considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti.

Onde evitare che la norma possa trovare, in parte qua, applicazione medio tempore, lasciando però, pur sempre, al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse in linea di principio alla sua discrezionalità – ferma restando l’esigenza di assicurare la tutela del malato nei limiti indicati dalla presente pronuncia – la Corte ritiene, dunque, di dover provvedere in diverso modo, facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale: ossia di disporre il rinvio del giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale all’udienza del 24 settembre 2019, in esito alla quale potrà essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela. Rimarrà nel frattempo sospeso anche il giudizio a quo. Negli altri giudizi, spetterà ai giudici valutare se, alla luce di quanto indicato nella presente pronuncia, analoghe questioni di legittimità costituzionale della disposizione in esame debbano essere considerate rilevanti e non manifestamente infondate, così da evitare l’applicazione della disposizione stessa in parte qua.

La soluzione ora adottata si fa carico, in definitiva, di preoccupazioni analoghe a quelle che hanno ispirato la Corte Suprema canadese, allorché ha dichiarato, nel 2015, l’illegittimità costituzionale di una disposizione penale analoga a quella ora sottoposta allo scrutinio, nella parte in cui tale disposizione proibiva l’assistenza medica al suicidio di una persona adulta capace che abbia chiaramente consentito a por fine alla propria vita, e che soffra di una patologia grave e incurabile che provoca sofferenze persistenti e intollerabili. In quell’occasione, i supremi giudici canadesi stabilirono di sospendere per dodici mesi l’efficacia della decisione stessa, proprio per dare l’opportunità al parlamento di elaborare una complessiva legislazione in materia, evitando la situazione di vuoto legislativo che si sarebbe creata in conseguenza della decisione (Corte Suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015, Carter contro Canada, 2015, CSC 5).

Lo spirito della presente decisione è, d’altra parte, simigliante a quello della recente sentenza della Corte Suprema inglese in materia di assistenza al suicidio, in cui la maggioranza dei giudici ritenne «istituzionalmente inappropriato per una corte, in questo momento, dichiarare che [la disposizione allora oggetto di scrutinio] è incompatibile con l’art. 8 [CEDU]», senza dare al Parlamento l’opportunità di considerare il problema (Corte Suprema del Regno Unito, sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri, [2014] UKSC 38). Sottolinearono in quell’occasione i supremi giudici inglesi che una anche solo parziale legalizzazione dell’assistenza al suicidio medicalmente assistito rappresenta una questione difficile, controversa ed eticamente sensibile, che richiede un approccio prudente delle corti; e aggiunsero che una simile questione reclama una valutazione approfondita da parte del legislatore, che ha la possibilità di intervenire – in esito a un iter procedurale nel quale possono essere coinvolti una pluralità di esperti e di portatori di interessi contrapposti – dettando una nuova complessiva regolamentazione della materia di carattere non penale, comprensiva di uno schema procedurale che consenta una corretta applicazione ai casi concreti delle regole così stabilite. Il tutto in un contesto espressamente definito «collaborativo» e «dialogico» fra Corte e Parlamento.

Va dunque conclusivamente rilevato che, laddove, come nella specie, la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere, questa Corte reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

rinvia all’udienza pubblica del 24 settembre 2019 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 novembre 2018.

Il Cancelliere

F.to: Filomena PERRONE